di Valeria Cagnazzo*

Pagine Esteri, 5 maggio 2021 – Quando nell’estate del 1979 Saddam Hussein radunò i membri del partito in un teatro e li accolse dal palcoscenico fumando un sigaro e puntando su di loro una flemmatica espressione risentita, aveva già deposto al-Bakr ed era diventato il rais dell’Iraq. I suoi numerosi discepoli in quel teatro fumoso erano probabilmente ignari di ciò che quella mattina li aspettava. Trasformò la scena nella corte di un tribunale e chiamò a testimoniare su un banco improvvisato uno dei massimi esponenti di Ba’th. Lo costrinse a confessare una inesistente congiura siriana contro la sua persona e a fare i nomi dei compagni di partito coinvolti. Come un docente alla cattedra, seguiva l’elenco dei presenti sul suo registro. Poi con voce luttuosa nominò i sessanta membri del partito da epurare. Dalla platea, increduli, si staccarono uno a uno i condannati, lasciarono le poltroncine rosse e furono condotti all’uscita, dove ventidue di loro vennero giustiziati.

In una delle mie poesie incomplete

una frase ha sfidato l’altra

l’ha schiaffeggiata col suo guanto –

invitandola a un duello

nella Corte d’Onore.

Alla fine della battaglia,

e come accade di solito,

una delle mie frasi era morta

e l’altra sanguinava sulla pagina.

Io non volevo

venire coinvolto nel labirinto delle indagini giudiziarie

tra interrogatorio e risposta,

quindi preferii lavarmi le mani del loro sangue

e buttare via l’intera poesia.

Nato a Kirkuk nel 1940, Fadhil al-Azzawi aveva già scontato tre anni di prigione ed era già fuggito in Germania quando Saddam salì al potere. In Iraq era stato tra i promotori della rivista d’avanguardia letteraria “Al-Shir 69”. Incoraggiati dall’esperienza di Nazik al-Malaika, i poeti della rivista portavano il verso libero a una nuova sperimentazione, quello della poesia in prosa. In arabo, infatti, l’”al-shir al-hurr” teorizzato dall’al-Malaika era un “verso libero” che conservava la metrica e la rima: era stato, si può dire, piuttosto “liberato”, dal numero fisso di piedi nel verso e dalla monorima. Nella rivista di al-Azzawi il verso libero era, invece, “al-shir al-manthur”.

Fadhil al-Azzawi

La poesia di al-Azzawi è dominata da una chiave ironica, da una disincantata e quasi sprezzante leggerezza che accompagna, paradossalmente, un costante sentimento di persecuzione (“li ho visti scrutarmi/dalle vetrine dei negozi e dei bar (…) Mi sono fermato di proposito/per accendermi una sigaretta (…) ladri, re, assassini, profeti e poeti/ saltavano da ogni parte/ camminavano dietro di me/ aspettavano da me un segnale”), di congiura, di pericolo imminente (“non scherzare con la corda del boia/ potrebbe trascinarti all’impiccagione”), anche nella solitudine e nella salvezza dell’esilio. Una voce del genere non sarebbe sopravvissuta alla dittatura del rais.

Urla incomprensibili attraversavano il chiavistello della porta. C’erano ombre di soldati con fucili su un muro colorato d’olivo. A mezzanotte arrivò la guardia, chiamò qualche nome. Tremavano dalla paura. Disse: “Vieni”. Il ragazzo stava pensando a sua madre. “Dov’è la mia scarpa?”. Il poliziotto disse: “Niente scarpe, vieni”. Se ne andarono. Le voci della notte finalmente evaporarono. Poi udimmo dieci pallottole nel buio. Fu allora che mi alzai e indossai le sue scarpe, per amor di memoria.

Dichiarando guerra all’Iran khomeinista nel 1980, Saddam Hussein sperava di affermare a livello internazionale la sua potenza espandendo i confini iracheni sul territorio iraniano e al tempo stesso contenendo la minaccia  che la rivoluzione sciita del ’79 si estendesse agli altri Paesi della regione. Confidava in un conflitto breve. Ottenne il sostegno dei Paesi vicini più tradizionalisti ma anche degli Stati Uniti, che fiancheggiarono l’Iraq anche nel corso di operazioni in cui furono utilizzati iprite e gas nervino sui civili. Quando nell’’88 fu firmata la tregua, il bottino per entrambi i Paesi furono solo le rispettive vittime. Saddam proclamò la vittoria, non molto di più di una vittoria di Pirro.

Dopo due anni di pace incerta, fu la volta della guerra al Kuwait. Era il 1990. Le tensioni nate per l’ingente debito di guerra maturato dall’Iraq e per i cartelli sul prezzo del petrolio recriminati al Kuwait (e all’Arabia Saudita) si aggiunsero al desiderio di Saddam di controllarne le risorse d’olio nero. Gli Usa parteciparono questa volta attaccando duramente gli Iracheni: da un lato, la caduta dell’Urss cancellava la necessità di un’alleanza con l’Iraq in chiave anticomunista, dall’altro a richiedere l’intervento degli USA era anche l’Arabia Saudita, principale produttore mondiale di petrolio e loro alleato dal 1945. L’offensiva statunitense “Desert storm” ottenne l’approvazione dell’Onu e il coinvolgimento di 34 Paesi. Il conflitto fu un massacro. Dopo oltre 116.000 raid aerei nel solo mese di gennaio del 1991, iniziò l’offensiva di terra: le truppe irachene furono costrette alla resa. Le perdite della Prima Guerra del Golfo furono immani: nel corso delle operazioni militari guidate dalla coalizione capeggiata dagli USA e dei disordini successivi, persero la vita decine di migliaia di Iracheni, per la maggior parte civili.

Nell’anno dello scoppio della guerra al Kuwait, la poetessa irachena Dunya Mikhail cedette definitivamente alle pressanti vessazioni del regime per i suoi scritti e abbandonò l’Iraq. Classe 1965, laureata in Letteratura Inglese presso l’Università di Baghdad, fuggì negli Stati Uniti.

La tenda sta calando

sull’ultimo fremito del giorno

la luna è una pastiglia di aspirina

i villaggi sono bucati come la memoria

il cielo è un cappello per gli aerei

gli uccelli non hanno più un luogo (…)

Prendo esempio dalle amebe

i loro piedi menzogneri

e parto.

Dunya Mikhail (foto di Avery Jensen)

Giornalista, poi insegnante di arabo, autrice di sei raccolte di poesie nella sua lingua madre, Dunya Mikhail ha ricevuto la Kresge Fellowship, l’Arab American Book Award, il Premio per la Libertà di Scrittura delle Nazioni Unite. La sua è una poesia dalla vena sagace, votata a una costante ricerca di trovate ironiche tese a smascherare la tragedia. Ricorda molto, e probabilmente ne è stata influenzata, la poesia del Nobel Wislawa Szymborska, e in alcuni casi si avvicina più propriamente alla sua emulazione, come nella poesia “Ringrazio tutti coloro che non amo”, calco di “Devo molto a quelli che non amo” della poetessa polacca. O come ne “La guerra lavora molto”, che ancora ricorda il disincanto con cui la Szymborska raccontava la guerra e le trattative di pace – processi identici, evidentemente, a tutte le latitudini.

La guerra

com’è

seria

attiva

e abile!

Sin dal mattino

sveglia le sirene

invia ovunque ambulanze (…)

La guerra è inarrestabile, giorno e notte.

Ispira i lunghi discorsi dei tiranni

conferisce medaglie ai generali

e argomenti ai poeti.

Contribuisce all’industria di arti artificiali

fornisce cibo alle mosche

aggiunge pagine ai libri di storia

mette sullo stesso piano vittima e assassino (…).

Costruisce nuove case per gli orfani

tiene occupati i costruttori di bare

dà pacche sulle spalle ai becchini

sorride davanti al capo.

La guerra lavora molto

non ha simili

ma nessuno la loda.

Dal 1992, le durissime sanzioni post-belliche delle Nazioni Unite asfissiarono l’Iraq. Il 97% delle esportazioni e il 90% delle importazioni del Paese furono bandite. Il PIL pro-capite crollò dai 2840 dollari del 1989 a 200 dollari in soli otto anni. La mortalità infantile in quegli anni oscillava intorno a 92 bambini su 1.000 nati vivi fino a toccare il picco di 130 su 1.000. I bambini morivano perché non erano disponibili nel Paese né cibo né medicine. Le immagini dei loro corpi scheletrici in preda alla fame e al colera commossero l’opinione pubblica. Nacque il controverso programma “Oil for Food”, con il quale si concedeva all’Iraq di sfruttare un’esigua parte delle sue risorse di petrolio per acquistare cibo. Il paradosso fu che all’acquisto di latte in polvere per neonati e lattanti non poterono corrispondere le importazioni delle sostanze chimiche necessarie alla potabilizzazione dell’acqua: stando alla politica delle sanzioni, Saddam avrebbe potuto utilizzarle per fabbricare armi chimiche. Nella realtà, alle madri irachene non rimaneva che diluire il latte formulato in acqua non potabile e infetta e darlo da bere ai propri figli, con il beneplacito delle Nazioni Unite.

L’”Oil for Food Program” fu varato nel 1997. In quello stesso anno, lasciò il Paese la poetessa Amal el-Juburi. Era già riuscita a pubblicare una raccolta di poesie, “Il vino delle ferite”, e ad essere assunta come collaboratrice di programmi per la tv nazionale, ma la repressione della dittatura divenne a un certo punto troppo opprimente: prese con sé la figlia e si esiliò a Monaco di Baviera. Fu apprezzata da subito come poetessa e come giornalista, fu caporedattrice di “Al-Diwan”, rivista arabo-tedesca. Un tema costante nella poesia di El-Juburi è il femminismo. Centrale nei suoi componimenti è una voce femminile che parla di donne emancipate, che non nasconde i riferimenti alla nudità o al sesso, all’adulterio, e che padroneggia la realtà con forza e determinazione.

La  fedeltà è sorella del tradimento.

Entrambi sono stati generati dalla stessa madre peccaminosa,

che dorme nelle fiabe degli antichi libri. (…)

La libertà riposa nelle fauci del leone affamato.

I tradimenti sono il nascondiglio bello e segreto

dell’amore e il prezzo che si deve pagare per averlo.

Amal el-Juburi (foto di Avery Jensen)

La sua poesia si differenzia in parte da quella dei suoi contemporanei, una sua peculiarità è una fascinazione per il tema mistico: El-Juburi si appassiona alla figura di Enheduanna, e alla sacerdotessa-poetessa dedica la sua raccolta “Enheduanna, la sacerdotessa di Exile”.

Siamo diversi:
tu hai pensato e poi scritto i tuoi versi,
io ho dato vita alle mie poesie,
poi ho espresso il mio pensiero. (…)
Occidente, sono perniciosa…
Nessuna pietà nel mio cuore.
Ma sono la sacerdotessa dell’immenso dolore,
trascino via la tua terra dalle reti delle parole
mentre tu mi trascini al tuo Divano occidentale-orientale.
Siamo entrambi equilibristi sulla stessa corda
anche se destinati a due abissi diversi.
Spalanco le finestre delle tue parole,
trovo la mia bara nelle tue elegie,
esiliata, abbandonata da un Oriente distante.

In quell’Oriente distante, intanto, dopo un decennio in preda alle sanzioni imposte dall’Occidente, le più draconiane della storia moderna, le forze erano allo stremo. La società era ormai frammentata in drammatiche spaccature etniche e settarie. La corruzione la permeava completamente, dai vertici del governo si era insinuata fino ai rami più anonimi dei ceti bassi, essendo ormai il contrabbando una delle maggiori fonti di sostentamento. Ma il governo di Saddam reggeva, contro tutte le aspettative degli Stati Uniti e dei loro partners che speravano che le sanzioni avrebbero in breve tempo annientato completamente il Paese. L’attacco alle torri gemelle del 2001 fu il pretesto per il neoeletto George W. Bush per infliggere il colpo definitivo all’Iraq: gli interessi delle compagnie statunitensi sui pozzi petroliferi iracheni, insieme ai rapporti con il vicino Israele, furono, com’è noto, il movente fondamentale del governo conservatore. Il casus belli addotto, l’accusa di fabbricazione di armi di distruzione di massa in Iraq, fu smantellato dal completo fallimento nella produzione di prove da parte delle commissioni di inchiesta mandate sul territorio.

Il 20 marzo 2003, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna lanciarono “Iraqi Freedom”, un’invasione aerea e di terra mirata a ufficialmente a distruggere il regime di Saddam ma finì per devastare l’Iraq. La resistenza fu scarsa o assente, il Paese capitolò in poco più di un mese.

Il primo maggio del 2003 Bush dichiarava conclusa la seconda guerra del Golfo: l’Iraq di Saddam crollava e iniziava l’epoca dell’occupazione americana. Fece il giro del mondo il lungo filmato della demolizione della statua di Saddam il 9 aprile in piazza Firdos: mentre Baghdad bruciava ed era in preda al caos, le vetrine andavano in frantumi, le porte delle case si spalancavano alla violenza e venivano depredati finanche i musei, in mondovisione si trasmise la scena destinata a diventare il simbolo del crollo del regime. Di fatto, vi presero parte più militari americani e giornalisti internazionali che civili iracheni. Mentre la sua testa scolpita rotolava in una piazza di Baghdad, Saddam fuggiva. Sarebbe stato trovato nascosto in un buco di ragno alcuni mesi dopo, e condannato all’impiccagione avvenuta il 30 dicembre del 2006. Finiva così la storia di Saddam Hussein: del dittatore, del mandante di migliaia di epurazioni e arresti, del rais che aveva innalzato il Paese a prima potenza del Medio Oriente e che l’aveva poi sprofondato negli orrori della guerra, del capo di Stato dapprima comodo agli Stati Uniti e successivamente demonizzato come il nemico assoluto dell’Occidente. Ma anche dell’aspirante poeta.

Saddam scrisse quattro romanzi: il romantico “Zabiba e il re”, e poi “Il castello fortificato”, “Gli uomini e la città” e “Andatevene, demoni”. Ma è il suo tentativo poetico quello che più affascina e stranisce. Nella migrazione massiva dei poeti iracheni messi in fuga dalle sue persecuzioni in una diaspora pluridecennale, Saddam per vezzo o per alleggerire le sue pene si dedicò alla scrittura in versi. Si dice che fu prolifico in particolare durante la sua prigionia, e fonti raccontano che usasse regalare persino alcune sue poesie ai militari che vigilavano sulla sua cella. Lo spessore artistico, la finezza letteraria, la sincerità del contenuto, li giudicherà il lettore, anche alla luce dell’inevitabile e forse ingiusto confronto con le opere delle sue vittime.

Slega la tua anima. E’ la mia anima gemella e tu sei l’amata della mia anima.

Nessuna casa avrebbe protetto il mio cuore come hai fatto tu.

Se io fossi quella casa, tu saresti la sua rugiada.

Sei la brezza calmante. La mia anima è rinfrescata da te.

E il nostro partito Ba’th sboccia come un ramo che diventa verde.

La medicina non cura i malati, la rosa bianca sì.

I nemici hanno stabilito i loro piani e le loro trappole.

E sono avanzati nonostante fossero tutti colpevoli.

I nemici hanno imposto degli stranieri nel nostro mare,

e chi li serve adesso sarà condannato a piangere.

Questa fu l’ultima poesia dell’aspirante poeta Saddam Hussein, il persecutore di intellettuali. D’altronde, non è sufficiente il tentativo di abbozzare versi a qualificare l’uomo come tale o addirittura come poeta. A volte è necessaria una vita intera in esilio, a volte neanche quello basta.

*Valeria Cagnazzo (Galatina, 1993) è medico in formazione specialistica in Pediatria a Bologna. Come medico volontario è stata in Grecia, Libano ed Etiopia.  Ha scritto di Palestina su agenzie online, tra cui Nena News Agency. Sue poesie sono comparse nella plaquette “Quando un letto si svuota in questa stanza” per il progetto “Le parole necessarie”, nella rivista “Poesia” (Crocetti editore) e su alcune riviste online. Ha collaborato con il Centro di Poesia Contemporanea di Bologna. Per la sezione inediti, nel 2018 ha vinto il premio di poesia “Elena Violani Landi” dell’Università di Bologna e il premio “Le stanze del Tempo” della Fondazione Claudi, mediante il quale nel 2019 ha pubblicato la sua prima silloge poetica, “Inondazioni” (Capire Editore). Nel 2020, il libro è stato selezionato nella triade finalista del premio “Pordenone legge – I poeti di vent’anni”.

Clicca qui per leggere la prima parte di “Iraq dei poeti”

e qui per la seconda parte

 

Breve bibliografia e fonti

“Non ho peccato abbastanza. Antologia di poetesse arabe contemporanee”, a cura di V. Colombo, Mondadori 2007

“Breve storia dell’Iraq”, Thabit A.J. Abdullah, Il Mulino, 2012

“In guerra non mi cercate. Poesia araba delle rivoluzioni e oltre” a cura di O. Capezio, E. Chiti, F.M. Corrao, S. Sibilio, Le Monnier Università 2018

“Iraq: distruzione di una Nazione”, di Jean-Pierre Canet. Introduzione di Marcella Emiliani, Rai Storia (disponibile su YouTube)

http://edition.cnn.com/2008/WORLD/meast/03/27/hussein.journal/index.html?eref=ib_topstories

https://www.spiegel.de/international/saddam-s-last-poem-from-hussein-a-florid-farewell-to-the-iraqi-people-a-457719.html

https://www.theguardian.com/books/booksblog/2011/mar/31/dictator-lit-saddam-hussein

https://www.poetry.nl/nl