di Franco Ferioli – 

Pagine Esteri, 10 giugno 2021 – 

El Alamein, una località desertica segnata sulle carte come piccolo scalo ferroviario egiziano posto a un centinaio di chilometri dal confine libico, è divenuta uno degli scenari di guerra più spaventosi della storia dell’uomo e uno dei cimiteri più grandi del mondo.
Qui nessuno mi ha confermato la veridicità dell’origine – certamente profetica anche se riduttiva – del suo nome, che significherebbe “le due bandiere”.
Due, furono infatti le bandiere degli stati europei che diedero inizio alla guerra, ma a combattere ferocemente tra loro non furono solo i reparti degli eserciti italiani e inglesi; in quella che viene ricordata come l’atto finale della ‘Campagna d’Africa’ presero parte molti altri contingenti stranieri e sventolarono bandiere provenienti da ogni parte del mondo: Australia, Nuova Zelanda, India, SudAfrica, Francia, Marocco, Senegal, Libia, Grecia, Polonia, Yugoslavia, Stati Uniti.
Attorno a quelli che furono i capisaldi e le postazioni strategiche tenute dagli schieramenti, emerse l’immane costo delle battaglie: oltre 60.000 caduti.

I primi ad occuparsi della raccolta dei propri caduti furono i vincitori. Dopo quattro anni di ricerche avviate subito dopo la fine del conflitto, nel cimitero britannico di El Alamein venne data definitiva sepoltura a 7.367 combattenti della coalizione del Commonwealth Inglese che perirono per la vittoria.

Successivamente e a poca distanza, venne innalzato un mausoleo a forma di castello normanno in cui trovarono eterno riposo 4.200 soldati tedeschi e sorse un cimitero ortodosso per i caduti di nazionalità greca.

I resti dei soldati italiani sconfitti, vennero invece lasciati insepolti per anni e anni direttamente sui campi di battaglia o interrati frettolosamente in quattordici cimiteri provvisori dislocati in un territorio vastissimo e pericolosissimo, non bonificato da centinaia di migliaia di ordigni bellici innescati o inesplosi.

Le misere tombe, perlopiù cumuli di pietre che recavano nomi storpiati o un laconico ‘italian unknown’, vennero inizialmente allestite lungo quei settanta chilometri di prima linea del fronte che aveva visto l’impressionante dispiegamento di duemila carri armati e di un cannone ogni dieci metri.

Batterie italiane aprono il fuoco contro gli inglesi

Poi raggiunsero le posizioni più avanzate, le “quote” 33, 216 e 105 dei rilievi del Naqb Rala, del Qaret el Himeimat e della depressione del Qattara, dove i soli italiani innescarono 170 mila mine anticarro, in media due per ogni metro quadrato, trasformando questa remota landa egiziana in una delle zone più minate della terra.

Oggi, a distanza di 79 anni, molti campi di battaglia non sono stati ancora risanati e nonostante sia vietato l’accesso a vaste zone interdette, le esplosioni si succedono ininterrottamente e hanno causato centinaia di vittime tra i beduini locali.

L’ecatombe e le mutilazioni patite da oltre ottomila civili ignari e innocenti, molto spesso bambine e bambini, ha portato alcune organizzazioni egiziane ad avanzare richieste di aiuti e indennizzi per danni di guerra, ma soltanto nel novembre 2016 il Governo Egiziano con il sostegno dell’ONU, dell’Unione Europea e grazie a un finanziamento di 4,7 milioni di euro, è riuscito a istituire un centro specializzato per le protesi a Marsa Matruh, maggiore nucleo urbano dell’area contaminata e capoluogo del governatorato.

L’eco di quella battaglia non si spegnerà mai più in questa terra martoriata e a ben poco servono i cippi segnaletici posti lungo la strada litoranea, per indicare la presenza di solo alcuni dei tanti “giardini del diavolo”, come venivano chiamati in gergo militare i campi minati.

Molti di quelli rimasti tuttora innescati e segreti, vennero approntati in fretta e furia, di nascosto, nella frenesia di rischiose operazioni, senza una mappatura chiara che ne precisasse le esatte ubicazioni, in un territorio privo di punti di riferimento fissi o facilmente identificabili.

Stazione ferroviaria di el Alamein

La stazione di El Alamein ha mantenuto il suo aspetto abbandonato e nessun treno è in arrivo o in partenza. L’unico a partire lungo l’estensione dei binari che si allungano ai due lati dell’orizzonte come una cerniera impressa sulla superficie pietrosa del deserto, sono io, con lo sguardo. La doppia linea d’acciaio corre a fianco della strada che fiancheggia la costa e sulla quale si affacciano numerosi villaggi turistici di recente costruzione con schiere di villette che si allineano senza l’ombra di un solo albero.

Il mare mediterraneo sembra la superficie piatta e calma di un gigantesco lago e in alcuni punti il bagnasciuga è una lingua di sabbia bianca che fronteggia chiazze di colore azzurro turchese e verde smeraldo.

Dal momento che sono l’unica persona presente a parcheggiare l’unica auto in un vasto parcheggio, mi rimane il dubbio che il Sacrario Italiano di el Alamein sia chiuso fino a quando oltrepasso a piedi il portico dell’entrata principale e leggo le parole scolpite nella prima lapide:

CONSACRATO AL RIPOSO DI 4.800 SOLDATI, MARINAI ED AVIERI D’ITALIA

IL DESERTO ED IL MARE NON RESTITUISCONO I 38.000 CHE MANCANO

Un’alta torre ottagonale bianca racchiude alla base una galleria semicircolare illuminata da cinque grandi vetrate che si affacciano sul mare, al centro della quale si trova un altare, sovrastato da una grande croce lignea.

IGNOTO foto di Franco Ferioli

Di fronte, le pareti di due padiglioni di marmo custodiscono i resti dei soldati italiani.

Sulla prima metà delle nicchie è scritto il nome, cognome e grado del soldato caduto, le rimanenti recano una sola scritta: IGNOTO.

In nessuna lapide viene riportata l’età o la data di nascita dei soldati caduti, ma gli studi storici e le testimonianze dei reduci hanno appurato che furono tutti ragazzi giovanissimi, di età compresa tra i sedici e i diciannove anni.

A quell’età, e ai loro tempi, la politica coloniale del governo fascista, che si vantò di avere conquistato in Africa vasti e ricchi possedimenti, non poteva che essere vista come un’avventurosa occasione di sviluppo e di progresso.

Secondo i dettami imposti dalla propaganda del potere, questa terra veniva proposta come la nuova frontiera oltremare, il territorio delle nuove opportunità offerte a tutti coloro che audacemente ne volessero prendere parte e cogliere l’occasione.

Ma le colonie italiane d’oltremare si rivelarono ben presto uno scenario diverso e funesto, teatro infine di una tragica ultima guerra persa.

Il sacrificio di questi soldati è stato volontario, nel senso che volontariamente, essendo giovanissimi, si arruolarono nei corpi di spedizione militare che vennero inviati a combattere.

Il loro gesto deve giungere accompagnato dalla conoscenza delle condizioni reali nelle quali si vennero a trovare questi combattenti italiani che vennero lasciati soli, senza cibo, acqua e munizioni, abbandonati a sé stessi, del tutto isolati nel deserto, per quasi tutta la lunga durata del conflitto.

I paracadutisti della Folgore, con il loro mito della morte che piomba dal cielo, raggiunsero questo fronte via mare e via terra, e non vennero nemmeno riconosciuti come parà ma bensì come “cacciatori del deserto”.

Mai nome di copertura si rivelo più azzeccato, dal momento che per continuare a sopravvivere cacciarono viveri e acqua; per continuare a combattere cacciarono rifornimenti e forniture militari sottraendole ai nemici.

Scritte dal Ten. Col. Paracadutisti Alberto Bechi Liserna, leggo sulla seconda lapide queste sue parole:

FRA SABBIE NON PIÙ DESERTE SON QUI DI

PRESIDIO PER L’ETERNITÀ I RAGAZZI DELLA

FOLGORE

FIOR FIORE DI UN POPOLO E DI UN ESERCITO

IN ARMI CADUTI PER UNA IDEA SENZA

RIMPIANTI, ONORATI DAL RICORDO DELLO STESSO

NEMICO, ESSI ADDITANO AGLI ITALIANI NELLA

BUONA E NELL’AVVERSA FORTUNA IL CAMMINO

DELL’ONORE E DELLA GLORIA

VIANDANTE ARRESTATI E RIVERISCI

DIO DEGLI ESERCITI ACCOGLI GLI SPIRITI DI

QUESTI RAGAZZI IN QUELL’ANGOLO DI CIELO

CHE RISERBI AI MARTIRI E AGLI EROI

Disegno di Paolo Caccia Dominioni

La analoga triste condizione dei Bersaglieri e in generale di tutte le forze armate italiane, conferma il tragico destino di ogni soldato, quello cioè di essere prima considerato un eroe, poi carne da macello, e a volte, come in questo caso emblematico, carne e ossa nemmeno degne di essere sepolte e ricordate con il proprio nome, con il nome proprio dell’assurdità della guerra o a nome di ogni presunto dio degli eserciti.

Al mondo non c’è soldato che non sia stato innanzitutto vittima della propria ignoranza e del proprio fanatismo e che dopo essere stato imbevuto e illuso con gli ideali sacri ed eroici della filosofia e del marketing della guerra, non abbia assaporato il sapore amaro della più crudele delle menzogne e del più infausto dei destini: quello di trovarsi abbandonato ad uccidere e a morire dimenticato, disilluso e tradito dalla propria patria.

Uccidere per niente.

Morire solo e lontano.

Giacere a terra insepolto, dimenticato e ignoto.