di Franco Ferioli –

Pagine Esteri, 17 giugno 2021 – 

Gli eremiti cristiani che fra il III e il IV secolo d.C. popolarono le grotte del deserto egiziano lo trovarono accogliente e favorevole alla longevità: il grande abate Antonio vi visse fino a 105 anni, otto in meno di Paolo di Tebe, che negli ultimi 60 anni si cibò solo del tozzo di pane che un corvo gli portava ogni giorno.

Antonio sosteneva che “chi vive in solitudine sfugge alle pene di tre guerre: quella di ascoltare, quella di parlare e quella di vedere”.

Come un libro da sfogliare percorrendolo e da leggere calpestandolo, stando ben attenti a dove posare i piedi, in nessun altro luogo come nel deserto la superficie è il mondo, e sulla superficie del deserto libico egiziano è possibile studiare la storia del nostro passato imperialista e colonialista.

 

Molti popoli indigeni latino americani credono che il petrolio sia il sangue della terra.

Chissà perchè è a questo che sto pensando mentre percorro l’assolata e rettilinea strada che dal Cairo conduce ad Alessandria, affiancando per lunghi tratti il corso del Nilo.

Il contesto delle campagne nazionali promosse dal governo egiziano per contrastare l’avanzata del deserto che hanno offerto gratuitamente la terra a chi fosse intenzionato a coltivarla, qui evidenzia se stesso: alla mia destra, accanto alla riva del fiume, si susseguono frutteti e vivai; alla mia sinistra, a ridosso del ciglio della strada, incombe l’immensa aridità del deserto.

La strada davanti a me improvvisamente si perde in una superficie liquida e ho l’impressione di viaggiare in mezzo a una grande laguna, interrotta qua e là da qualche isola.

L’illusione dell’acqua è così realistica che trarrebbe in inganno chiunque: mano a mano che proseguo si allontana e l’effetto visivo è quello di una marea che velocemente si ritira al mio avanzare.

Mi sono fermato per sgranchirmi le gambe, nell’aprire la portiera ho capito che l’aria condizionata dell’automobile è un vano concetto teorico e mentre cammino sotto un sole accecante, sento che la suola delle scarpe sprofonda e si appiccica su una crosta granulosa cosparsa di cristalli bianchi e conchiglie fossili.

Dopo pochi passi mi arresto e compio un giro completo su me stesso: la macchina sembra già lontana, la strada mai esistita, tutt’attorno a me nessun’altra presenza mentre vengo investito da una folata di un vento talmente caldo che sembra quello che è uscito poco fa dal cofano, appena l’ho aperto per tentare inutilmente di raffreddare il motore.

Ho raggiunto la depressione di Qattara, una regione sterile e salata che è diventata un deserto migliaia di anni fa, quando le acque del mare, lasciandosi dietro una spiaggia desolata, si sono lentamente ritirate più in là, proprio come hanno fatto le fate morgane che mi hanno accompagnato sin qui.

La depressione di Qattara costituisce il secondo punto più basso dell’Africa e occupa una regione del Deserto Libico dell’Egitto nordoccidentale che si estende per circa 18.000 km2.

Circa un terzo della sua superficie è ricoperta da saline che ogni tanto si riempiono d’acqua e si presenta come un mosaico di oasi selvagge e disabitate disseminate tra laghi, boschetti, paludi e canneti.

Nella discesa verso il punto più basso, -133mt. al di sotto del livello del mare, attraverso il Passo del Cammello, si raggiunge la maggiore oasi nella depressione, quella di Moghra.

Frequentata da nomadi beduini in transito con le loro greggi solo come punto di sosta nei periodi di estrema siccità, sorge attorno a un lago permanente, le cui propaggini offrono alla vista una palude di alti e folti canneti cui succedono boschetti di palme e acacie.

Il sale, come molte altre cose nel deserto, giace al suolo, ed è solo da raccogliere, ma le saline possono essere pericolose perché la coltre superficiale può nascondere sabbie mobili non visibili in grado di sommergere persone, animali e automezzi.

Nella depressione di Qattara vi sono molte insidie di tal genere che durante la seconda guerra mondiale furono utilizzate come barriere strategiche invalicabili per la maggioranza dei veicoli militari e dei carri armati.

Le alte scogliere che la circondano e che con le loro scarpate rendono la depressione ancor più impraticabile, sono profondamente incise da trincee scavate nella roccia ed è qui, in un territorio di 3.500 chilometri quadrati, tuttora contaminato dalle mine e dagli ordigni inesplosi, che si è svolta la pietosa opera che ha portato alla costruzione del Sacrario Militare Italiano di El Alamein che comprende una Corte d’Onore, un Museo Storico e una piccola moschea con i resti di 232 caduti libici.

Per la costruzione del cimitero inglese, lunghe file di tombe tutte uguali scavate in terra ognuna con la propria lapide, vennero impiegati anche quarantesette prigionieri italiani, detenuti nel campo n.308 di Alessandria.

Al termine di quell’opera, durata quasi tre anni e iniziata immediatamente dopo la fine del conflitto, furono però solo in quarantaquattro a tornare dopo essersi guadagnati la libertà: tre di loro erano saltati sulle mine.

In occasione delle celebrazioni del cinquantenario della Battaglia di El Alamein occorse il 24 Ottobre 1992, venne posta questa lapide dal Commissario Generale per i Caduti di Guerra Italiani:

ALLA MEMORIA

DEL COLONNELLO DEL GENIO ALPINO

PAOLO CACCIA DOMINIONI

CONTE DI SILLAVENGO

NERVIANO (MI) 14 MAGGIO 1896

ROMA 12 AGOSTO 1992

GIA’ COMANDANTE DEL 31° BATTAGLIONE

GUASTATORI DEL GENIO

NELLE BATTAGLIE DI EL ALAMEIN,

VISSE QUI PER DODICI ANNI

ALLA RICERCA DEI CADUTI SPARSI

TRA LE SABBIE DEL DESERTO,

A MOLTI DIEDE UN NOME,

PER TUTTI PROGETTO’

E COSTRUI’ QUESTO SACRARIO

A TRAMANDARNE LE GESTA

A COLORO CHE SEGUIRANNO

INGEGNERE, ARCHITETTO,

SCRITTORE ED ARTISTA,

PIU’ VOLTE DECORATO AL V.M.

LASCIO’ MIRABILE TRACCIA DI SE’

IN OGNI SUA OPERA,

LA PATRIA LO ANNOVERA

FRA GLI UOMINI MIGLIORI

CHE L’HANNO SERVITA IN UNIFORME,

E GLI PORTERA’ PERENNE GRATITUDINE

INDICANDONE L’ESEMPIO

ALLE GENERAZIONI DI DOMANI.

IL SUO SPIRITO E’ QUI CON QUELLO

DEI SUOI ANTICHI COMPAGNI D’ARME,

AD ONORARE PER L’ETERNITA’

IL NOME D’ITALIA

Paolo Caccia Dominioni appartenne ad una straordinaria tipologia di guerrieri, fino a divenirne un raro simbolo.

Nel corso della Prima Guerra Mondiale combattè prima tra i ‘volontari ciclisti’ poi come ufficiale del genio pontieri e infine in un reparto di lanciafiamme.

Trasferito a Tripoli, fu congedato nel 1920, si laureò in ingegneria in Italia e visse al Cairo. Data la sua conoscenza delle regioni nordafricane, nel 1930 fu richiamato nel corpo dei meharisti per effettuare esplorazioni e missioni in Libia.

Nel 1935 combattè nella Guerra d’Etiopia; dal 1942 la Seconda Guerra Mondiale.

Come Maggiore gli fu assegnato il comando del 30° Battaglione Guastatori Alpini, ma a El Alamein combattè a capo del 31esimo, che venne annientato.

Fu ferito e rimpatriato.

Un anno dopo ricostituì il 31° Battaglione dei Guastatori Alpini, erede dei reparti andati distrutti.

L’8 settembre 1945, giorno dell’armistizio, disertò, si unì alla Resistenza e venne condannato a morte per tradimento, ma si salvò e tornò in Egitto.

Qui, dal 1948 al 1962, si dedicò ininterrottamente alla ricerca delle salme insepolte dei caduti a El Alamein, percorrendo 30.000 chilometri nel corso di 355 ricognizioni che lo portarono a recuperare, riconoscere e raccogliere, ad uno ad uno, i resti dei suoi commilitoni e a creare il sacrario italiano con pochi finanziamenti pubblici, qualche aiuto e tanto lavoro volontario.

Guerriero fino in fondo: dopo aver combattuto in tante battaglie vinse la sua personale guerra contro il pericolo di dimenticare un immane sacrificio.

Si guadagnò tre medaglie al valore militare e una Croce di Guerra, ma Paolo Caccia Dominioni, conte di Sillavengo, il Sandgraf – il Conte della Sabbia – come lo avevano soprannominato i generali tedeschi, verrà soprattutto ricordato come il ‘samaritano del deserto’, per la sua pietosa opera di infaticabile becchino in uno dei più grandi ed emblematici cimiteri e monumenti di guerra coloniale presenti sulla faccia della terra.