di Pietro Figuera* –

Pagine Esteri, 23 giugno 2021 – Nelle ultime settimane, un’imprevista invasione di mucillagine ha colpito il Mar di Marmara, bacino di collegamento tra il Mar Nero e l’Egeo. Un disastro ambientale senza precedenti, e di proporzioni tali da costringere le autorità turche a un intervento immediato – che tuttavia ancora tarda a produrre i suoi effetti.

Ma la mucillagine potrebbe essere solo un assaggio di ciò che aspetta il Mar di Marmara nei prossimi anni. Ad agitare le sue acque (e chi abita tra le sue coste) è infatti il progetto del Canale Istanbul, lanciato un decennio fa dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e recentemente ripreso. Un piano faraonico, pensato per raddoppiare l’attuale passaggio del Bosforo e rendere di fatto Istanbul (o meglio la sua larga porzione europea) una città-isola. Separandola simbolicamente dal nostro continente, a coronamento delle ambizioni eurasiatiche del reis.

La ratio del progetto, però, è tutt’altro che simbolica. E comprende calcoli economici e geopolitici di cui conviene fin da ora tener conto, anche perché la sua realizzazione è dietro l’angolo – i lavori dovrebbero iniziare a breve[1] e concludersi entro la fine del decennio (è stata abbandonata l’idea di completarlo nel 2023, per il centenario della repubblica turca).

foto Anadolu Agency

In breve, il canale permetterà ai turchi di dirottare buona parte dei flussi commerciali, liberando l’antica capitale dal traffico navale e dal suo crescente inquinamento. Portandone però altro, con ogni probabilità e a dispetto delle rassicurazioni governative: non fosse altro per il previsto stabilimento di 500mila nuove famiglie nell’area[2]. Tra i più strenui oppositori il sindaco di Istanbul, Ekrem İmamoğlu, e non solo per la sua opposizione politica a Erdoğan: a detta del primo cittadino, il canale “ucciderebbe” la metropoli sul Bosforo.

İmamoğlu è in buona compagnia. Il 3 aprile scorso un centinaio di ammiragli in pensione ha espresso in una lettera aperta le proprie critiche nei riguardi del canale. Ben più di qualche semplice perplessità, dati i rischi connessi a una simile esposizione mediatica (una decina i firmatari arrestati in seguito a tale uscita). Ed è dunque evidente che in gioco non vi sono solo gli appalti miliardari – per i quali sono stati già accusati uomini vicini al presidente – o considerazioni di carattere ambientale. In ballo c’è la sicurezza della Turchia, la cui stessa esistenza si fonda su un equilibrio che fino ad oggi nessuno aveva osato toccare.

Tale equilibrio ha un nome ben preciso: Convenzione di Montreux. Per i meno esperti, il trattato stipulato quasi un secolo fa (1936) per regolamentare proprio il passaggio degli Stretti turchi, il Bosforo e i Dardanelli. Vecchio oggetto del contendere tra i locali (prima gli ottomani e poi la repubblica kemalista) e le altre potenze, dunque soggetto ai mutamenti dei rapporti di forza globali.

La convenzione chiudeva infatti secoli di controversie, molto spesso sfociati in scontri di vasta portata – in particolar modo con la Russia, che per ovvie ragioni geopolitiche è sempre stata sensibile alla questione degli Stretti. E avrebbe inaugurato un “secolo breve” di pace per Ankara, finalmente fuori dai radar di potenziali aggressori (e quindi estranea agli sconvolgimenti della Seconda guerra mondiale). Accontentando peraltro un po’ tutti.

Si comprendono, dunque, i timori degli ammiragli. Legati allo status (quo) di una Turchia agganciata alla Nato ma in equilibrio coi suoi rivali. I tempi però sono cambiati. Oggi Erdoğan, dopo venti anni di potere in cui ha assicurato il ritorno del proprio Paese sulla scena internazionale, ritiene che sia arrivato il momento di rimescolare le carte. Per fotografare il momento apparentemente favorevole della Turchia. E prestandosi a un gioco – com’è uso fare – dai risvolti incertissimi, non solo per Ankara.

Il primo attore esterno a puntare gli occhi sul Bosforo è la Russia. Non solo per tradizione storica – a Istanbul ancora echeggiano le antiche ambizioni dei Romanov – ma per ragioni puramente geopolitiche, pressoché strutturali. Dagli Stretti turchi passa la giugulare dell’import-export russo, in ambito energetico e non solo. E passano soprattutto – con opportune regole, definite da Montreux – decine di imbarcazioni militari ogni anno, in entrambe le direzioni.

Alla Russia oggi interessa in special modo il traffico in entrata verso il Mar Nero. Ovvero quello che può portare una minaccia diretta alle sue coste nel bacino, Crimea compresa. Sono lontani i tempi in cui Mosca premeva per una maggiore libertà di manovra in uscita, funzione del suo espansionismo mediterraneo. Anche se oggi avrebbe più d’un motivo (Siria e Libia, innanzitutto) per riaffermare tale postura, le condizioni della sua flotta non lo permettono. Dopo la fine dell’Urss, nonostante alcune eccellenze e la deterrenza nucleare, la marina russa si è ricalibrata in funzione difensiva – e costiera.

Non è un caso che le poche voci russe in sostegno di una riformulazione di Montreux chiedono maggiori restrizioni nell’accesso al Mar Nero, non una più agevole via d’uscita da esso[3]. Ed è qui che la strategia di Mosca si scontra coi piani faraonici di Erdoğan. Ufficialmente, quest’ultimo non intende mettere in discussione le regole della Convenzione  stipulate nel periodo interbellico: più volte il reis ha fatto circolare dichiarazioni distensive sul mantenimento dello status quo. In realtà è pressoché certo che le regole di Montreux non saranno estese automaticamente al Canale Istanbul, soggetto piuttosto a nuove contrattazioni – su basi naturalmente ben diverse da quelle del 1936.

Il punto preoccupa il Cremlino, molto più di quanto faccia vedere: le minimizzazioni del suo ambasciatore ad Ankara[4] non suonano particolarmente credibili per un Paese che dipende vitalmente dallo status degli Stretti. Molto dipenderà dall’orientamento che Erdoğan intenderà imprimere alla politica estera turca prima di lasciarne le redini: finora si è mosso tra ambiguità e tentennamenti, lasciando temporaneamente credere che ognuna delle sue storiche giravolte (filoeuropea, mediorientale e poi panturca, per tacere dei giri di valzer tra Mosca e Washington) fosse quella definitiva.

Di certo, al di là delle possibilità (remote, secondo diversi analisti) di un’accesa militarizzazione del Mar Nero, a inquietare Putin e i suoi strateghi è la spregiudicatezza con cui Erdoğan tesse i suoi piani geopolitici. Non torneremo al 2015 e quell’incredibile crisi che mise Mosca e Ankara quasi sul piede di guerra, non sussistono più le condizioni. Tuttavia è difficile immaginare che certe mosse turche rappresentino semplici “segnali” e siano privi di conseguenze sul medio termine.

Due su tutte: il legame sbandierato con l’Ucraina e l’utilizzo crescente del vettore panturco nelle relazioni internazionali del Paese anatolico. Il primo è giunto da poco al suo culmine (ma non sembra per ora avere ragioni di smorzarsi) con la recente visita del presidente Zelenskij a Istanbul. Erdoğan ha sempre avuto un occhio di riguardo per Kiev, ad esempio non legittimando l’annessione russa della Crimea nemmeno durante i momenti più distesi con Mosca (e non certo per cieca obbedienza ai dettami della Nato). Ma adesso il presidente turco sembra pronto al salto di qualità, con una cooperazione militare – leggi, fornitura di droni – che promette di riscaldare molto i rapporti con i russi.

Come se non bastasse, Erdoğan si sta pure adoperando – aiutato in ciò da Zelenskij – nel riconoscimento della minoranza tatara di Crimea, spina nel fianco per le velleità pacificatorie di Mosca. Qui entra in gioco il panturchismo, “nuova” arma (in realtà vecchia più di un secolo, ma usata a intermittenza) in dotazione ad Ankara. La minaccia sul tavolo – e quasi mai esplicitata – non riguarda solo la piccola penisola sul Mar Nero, ma si estende a territori molto più vasti e “interni” alla Federazione Russa. Basti pensare al Tatarstan, alla Baschiria e alle altre repubbliche turcofone che costellano l’immenso Stato fino alla più profonda Siberia. Non si parla di affiliazioni teoriche, ma di una cooperazione costante con le autorità di Ankara. Finora quasi esclusivamente sul piano culturale ed economico, in futuro non si sa. Sicuramente le tentazioni separatiste (attive soprattutto in Tatarstan) non lasciano dei buoni presupposti per Mosca.

La Turchia ha dunque molti strumenti geopolitici a disposizione, ben più di quanto la sua taglia – di certo inferiore alla Russia – suggerirebbe. Il Canale Istanbul, se e quando realizzato, sarà certamente tra i più importanti. Non è ancora chiaro se verrà usato come un’arma di ricatto contro Mosca, o semplicemente come uno strumento di ulteriore indipendenza della repubblica anatolica. Ma il grande azzardo – forse l’ultimo della sua carriera – rischia di lasciare Erdoğan con il cerino in mano, anche per le dure opposizioni interne al progetto. Giocare contro tutti potrebbe non rivelarsi saggio, come dimostra la storia recente. E di certo la Russia non si farebbe scrupoli nel segnalarglielo.

NOTE

[1] https://www.hurriyetdailynews.com/kanal-istanbul-construction-to-start-at-end-of-june-erdogan-165128

[2] https://iwpr.net/global-voices/turkey-has-sea-snot-killed-marmara

[3] https://www.limesonline.com/cartaceo/il-gioco-degli-stretti-turchi-avvicina-mosca-e-ankara

[4] https://ria.ru/20210406/kanal-1727058743.html

*Laureato in Relazioni Internazionali presso l’Alma Mater di Bologna e in seguito borsista di ricerca con l’Istituto di Studi Politici S.Pio V, si è specializzato in storia e politica estera russa, con particolare riferimento all’area mediorientale. Autore de “La Russia nel Mediterraneo: Ambizioni, Limiti, Opportunità”, collabora con diverse realtà, tra cui la rivista Limes, il Groupe d’études géopolitiques e il programma di Rai Storia Passato e Presente. Ha fondato e dirige Osservatorio Russia, progetto di approfondimento sulla geopolitica dello spazio post sovietico.