di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 29 giugno 2021 – Era uno di quei giorni bastardi di Gerusalemme. Uno di quelli, per fortuna rari, in cui il khamsin, il vento africano caldo e polveroso, dopo aver investito l’Egitto e i deserti del Sinai e del Negev, si spinge fino alla città santa colorando di un rosso cupo il cielo e spargendo sabbia ovunque, negli angoli più nascosti. Eppure Abu Tareq era contento. Uscendo di casa aveva notato che gli operai del comune, quelli che la sera prima sistemavano un marciapiede davanti casa, avevano anche agganciato a un palo di metallo alto un paio di metri, sul lato opposto della strada, una targa con la scritta «HaMalach Belavan Street» che avrebbe da quel momento in poi indicato la stradina nella quale da un po’ vivevano alcune famiglie israeliane. Tempo prima quando le ruspe spianavano il terreno a poca distanza delle sue finestre, si era rammaricato pensando che i «vicini» israeliani avrebbero portato con loro un insidioso movimento di automezzi della polizia e l’insopportabile routine di «controlli di sicurezza» ai quali sono soggetti i palestinesi. Poi aveva cominciato a valutare anche i benefici indiretti di quella presenza. Il nome di quella strada, in lingua ebraica, lo avrebbe aiutato nei rapporti con le autorità comunali. «Dove abiti?», «Di fronte a via HaMalakh Belavan», avrebbe risposto Abu Tareq con tono perentorio senza più dover pronunciare nomi arabi che subito mettono in allarme gli israeliani. «Sono in un posto tranquillo, abito davanti alla vostra gente, inviate pure senza timore i vostri ispettori», diceva con un filo di voce, muovendo appena le labbra, immaginando futuri colloqui con i responsabili del comune.

Gerusalemme

Il quartiere Abu Tur

Quel cartello gli piaceva proprio, certo avrebbe preferito un altro nome, arabo naturalmente. Non dimenticava che il suo quartiere, Abu Tur, è parte di al Quds, Gerusalemme, e che la zona araba della città era stata occupata dagli israeliani con la forza delle armi nel 1967. Quel giorno però la politica aveva poco spazio nei pensieri dell’anziano Abu Tareq che tante ne aveva sopportate nella sua vita. Preferiva concentrarsi sui vantaggi indiretti che avrebbe ricevuto da quella targa. «HaMalakh Belavan Street», continuava a ripetere, rallegrandosi per la novità. D’ora in poi le cose sarebbe state meno complicate, si diceva osservando i vicini israeliani che da qualche mese animavano le palazzine a due piani, ricoperte da lastre di pietra bianca, come buona parte degli edifici di Gerusalemme. In occasione del suo viaggetto annuale al Cairo, dove viveva il figlio, avrebbe potuto convincere la centralinista della compagnia di trasporti Nesher (che effettua un servizio-navetta con l’aeroporto di Tel Aviv) a recuperarlo sotto casa e non più davanti a un hotel israeliano. «Quelli della Nesher dicono che nei quartieri palestinesi loro non ci vanno, perché non vogliono correre rischi. Ora, miei cari israeliani ve l’ho fatta, vivo davanti via HaMalakh Belawan, non potete più rifiutarvi di venirmi a prendere», continuava a pensare ad alta voce.

Strade senza nome

E quella volta che il Magen David Adom (simile alla Croce Rossa) negò l’invio immediato di un’ambulanza per suo cugino colpito da una crisi respiratoria? «Il vostro quartiere è a rischio. Senza la scorta della polizia l’ambulanza non la facciamo partire e in questo momento non ci sono pattuglie disponibili», gli risposero. «Ma noi siamo nel sistema sanitario israeliano, paghiamo regolarmente tutti i mesi. E poi perché dovremmo attaccare un’ambulanza che viene a portare soccorso a mio cugino?», replicò Abu Tareq con tono perentorio cercando di far valere i suoi diritti. Le proteste non servirono a nulla ma per fortuna la crisi respiratoria del cugino venne risolta all’ospedale palestinese al Makassed, al Monte degli Ulivi. «Anche i nostri medici sono bravi», commentò Abu Tareq in quell’occasione. L’amarezza che gli aveva procurato quel ricordo passò presto, sostituita dalla certezza che d’ora in poi non avrebbe avuto problemi nel chiedere il soccorso di una ambulanza israeliana.  «HaMalakh Belavan», erano le parole magiche. Magari, pensò ancora, avrebbe anche ricevuto lettere e cartoline, proprio come i vicini israeliani che, dalla sua finestra, vedeva aprire i box della posta e rientrare a casa talvolta sorridenti e altre volte pensierosi con in mano le bollette da pagare. A pochi metri da casa…

Ne è passato di tempo da quando Abu Tareq fantasticava su una vita un po’ più facile. Solo una delle soluzioni che aveva immaginato si è materializzata: il viaggetto al Cairo che ora ha inizio comodamente davanti casa. Lettere e cartoline invece no, il servizio postale nella zona palestinese era e rimane inesistente. A pochi metri da casa sua, i vicini israeliani ricevono regolarmente la corrispondenza. Lui invece deve recarsi un paio di volte a settimana all’ufficio postale di via Salah Edin dove lettere, cartoline e bollette arrivano alla sua casella a pagamento. E può dirsi fortunato. Molti altri palestinesi lo invidiamo, gli domandano come ha fatto a trovare una casella postale libera. Lui risponde che una trentina di anni fa non era così difficile, poi la popolazione è aumentata e che gli israeliani non si preoccupano di soddisfare la richiesta di servizi che cresce di anno in anno nella zona araba di Gerusalemme.

Prima dell’occupazione nel 1967 e ancora prima della creazione dello Stato di Israele nel 1948 il servizio postale nella Palestina sotto il Mandato coloniale britannico non faceva differenza tra ebrei e palestinesi. Ed era originale, in un certo senso «internazionale», prima dello smembramento dell’impero Ottomano, di fatto cominciato nell’Ottocento e che andò a compimento dopo la Prima Guerra Mondiale. In quel periodo la Turchia, che controllava la Terra Santa da secoli, aveva diviso l’area in tre regioni (sanjaq) – Gerusalemme, Nablus e Acri – che potevano contare su di un servizio postale, ancora poco affidabile ma operativo. Già nella prima metà dell’Ottocento, le grandi potenze dell’epoca istituirono propri uffici postali in Terra Santa come in altre zone dell’ex impero Ottomano. Lo fece l’Austria che nel 1837 stipulò l’accordo con il Lloyd per la raccolta e il trasporto della corrispondenza via mare e che nel 1852 aprì il suo primo ufficio postale a Gerusalemme, dimostrando in quell’occasione la ben nota efficienza asburgica. Non mancò di farlo la Francia che a partire dalla metà dell’Ottocento aprì uffici postali presso le rappresentanze consolari, in particolare a Gerusalemme (1858) e a Giaffa (1852). Lo fecero anche la Russia e, subito dopo, la Germania e l’Italia. Le poste italiane furono tra le ultime ad aprire un proprio ufficio a Gerusalemme, il primo giugno 1908, che, tuttavia, fu chiuso nel 1911 a causa della guerra italo-turca. Venne riaperto il primo dicembre 1912 e definitivamente chiuso dalle autorità turche il 30 settembre 1914 (sorte toccata a tutti gli altri servizi postali stranieri). I britannici, durante il loro Mandato in Palestina e i giordani, che hanno controllato la Cisgiordania e Gerusalemme Est, inclusa la Città Vecchia, dalla fine del primo conflitto arabo-israeliano (1948-49) fino alla Guerra dei Sei Giorni nel 1967, hanno garantito, i primi ad ebrei ed arabi, i secondi ai palestinesi, un servizio postale efficiente, anche se non capillare. Dopo il 1967, a Gerusalemme Est il servizio postale divenne fantasma, inesistente, e questa situazione continua dopo oltre quarant’ anni.

L’ufficio di via Salah Edin

Certo esiste l’ufficio postale «generale» di via Salah Edin, l’arteria principale nella parte araba della città, e agenzie minori in alcune aree palestinesi, come Beit Hanina e Shuffat, ma se non si possiedono le preziose chiavi di una casella postale è impossibile ricevere gli auguri di Natale e quelli di una «Eid Mubarak» al termine del Ramadan islamico. Le autorità israeliane non si preoccupano di spiegare la loro indifferenza verso questo problema così sentito dai palestinesi. Le ragioni che i responsabili dello Stato ebraico offrono per questo caso sono abbastanza scontate: la toponomastica insufficiente nella zona araba di Gerusalemme e la mancanza di sicurezza per i postini che, dicono, per consegnare la corrispondenza ai palestinesi dovrebbero andare in giro con la scorta della polizia, come le ambulanze del Magen David Adom. Motivazioni poco convincenti. Le poste israeliane potrebbero assumere postini palestinesi, proprio come ha fatto la Bezeq, la compagnia telefonica, con impiegati e tecnici arabi a Gerusalemme Est. Prevale perciò il disinteresse verso i 250mila abitanti palestinesi che pure a Gerusalemme ci vivono da generazioni a differenza di una bella fetta dei residenti israeliani giunti, in non pochi casi, appena qualche anno fa nella Città Santa, da paesi lontani. «Non mi portano la posta a casa perché la strada dove abito non ha un nome, eppure quando ci sono l’arnona (l’equivalente dell’italiana Imu) e altre tasse comunali da pagare, gli israeliani sanno dove trovarmi. Una volta sono andato al Catasto e ho visto che gli edifici arabi sono tutti ben indicati», spiega Abu Tareq che, come altri palestinesi, ha il sospetto che la mancanza del servizio postale a Gerusalemme Est sia dovuta ad un preciso disegno dell’intelligence israeliana che, attraverso le caselle postali, riuscirebbe ad avere un controllo più capillare della corrispondenza diretta ai palestinesi. È vero o è frutto dell’immaginazione di un anziano? Chissà ma è un dato di fatto che anche il servizio postale dell’Autorità nazionale palestinese, operativo, almeno in via teorica, nelle città autonome della Cisgiordania e a Gaza, deve per forza appoggiarsi al sistema israeliano, come stabilito dagli accordi di Oslo.

Il titolo di un romanzo e di un film molto famosi avvertono due amanti, travolti dalla passione e accesi da desideri omicidi, che «Il postino suona sempre due volte». A Gerusalemme Est gli amanti possono stare tranquilli: il postino non bussa mai. I palestinesi possono consolarsi pensando che non saranno protagonisti di una versione locale di una nota trasmissione televisiva italiana. Nessun finto postino potrà mai consegnare loro una mega busta accompagnandola con la frase: «C’è posta per te». Pagine Esteri