Pagine Esteri vi propone la traduzione di parti dell’articolo di Sumayya Kassamali pubblicato da Merip (Middle East Research and Information Project) il 7 luglio 2021 con il titolo “Understanding Race and Migrant Domestic Labor in Lebanon”

Di Sumayya Kassamali*

(traduzione di Sara Cimmino)

Il Libano sta attualmente soffrendo la sua più grave crisi economica dalla guerra civile del 1975-1990. Dopo decenni di furti, avidità e incompetenza dell’élite finanziaria e politica del paese, nonché degli attori internazionali, la valuta ha perso oltre l’80% del suo valore in un solo anno. Circa la metà della popolazione è in condizioni di povertà. La crisi ha anche attirato l’attenzione sulla difficile situazione delle molte lavoratrici domestiche migranti africane e asiatiche, oltre 300.000 prima del crollo della valuta e delle proteste nazionali nell’ottobre 2019, in un paese di poco più di quattro milioni di abitanti.

Dalla fine della guerra civile, il Libano è stato una destinazione chiave del Medio Oriente nella rete globale del lavoro domestico migrante. Giovani donne provenienti da Sri Lanka, Etiopia, Filippine, Bangladesh, Kenya e Nepal, tra gli altri, sono arrivate nel paese con la promessa di lavori ben pagati solo per ritrovarsi a lavorare in condizioni largamente denunciate come “schiavitù moderna”. Di recente, poiché il potere d’acquisto delle famiglie libanesi è drasticamente diminuito a causa della catastrofe economica, molti lavoratori domestici sono stati mandati via dalle case in cui avevano lavorato per anni e lasciati per strada a cavarsela da soli, spesso senza il salario dovuto. In risposta, decine di donne migranti e i loro sostenitori libanesi si sono riuniti per garantire cibo, alloggio e assistenza medica (alle espulse, ndt), nonché per fare pressione sulle ambasciate affinché assistessero il loro rimpatrio. Oltre 1.000 persone sono state rimandate a casa grazie a questi sforzi ma gli attivisti continuano a documentare l’accresciuta vulnerabilità delle donne a rischio di sfratto, prive di accesso ai beni di prima necessità ed escluse dal piano nazionale di vaccinazione del Libano.

Cosa rende un lavoratore domestico sacrificabile in un momento di crisi, anche dopo anni trascorsi nello spazio condiviso e intimo della famiglia? Per capire perché le donne migranti sono state prese di mira così rapidamente come outsider, è necessario collocare gli eventi recenti nel più ampio contesto del lavoro straniero in Libano. Il sistema del lavoro domestico migrante in Libano produce un insieme di gerarchie sociali locali che non possono essere ridotte singolarmente a questioni di razza, genere, lavoro o nazionalità. Piuttosto, queste gerarchie sono intersezionali e caratterizzate da esperienze comuni di violenza per mano sia della società che dello Stato.

Il sistema Kafala e i suoi abusi

Il lavoro migrante nella maggior parte dei paesi del Golfo, Giordania e Libano è regolato dalla kafala o sistema di sponsorizzazione, che vincola i lavoratori stranieri a un cittadino sponsor o delegato (come un’impresa) nel paese in cui desiderano lavorare per un periodo stabilito da un contratto. Gli alti livelli di abusi associati al sistema della kafala sono facilitati da questa dipendenza, in cui i lavoratori non possono entrare o uscire da un paese a loro piacimento, né passare liberamente da un luogo di lavoro all’altro e i passaporti sono spesso illegalmente trattenuti dagli sponsor. Le immagini dei lavoratori edili dell’Asia meridionale in luoghi come Dubai hanno rappresentato globalmente questo abuso, con migliaia di persone che lavorano lunghe giornate sotto il sole del deserto per costruire i lussuosi paesaggi urbani del Golfo mentre sono ospitati in campi noti per le loro orribili condizioni. Le esperienze delle lavoratrici domestiche a loro volta compaiono regolarmente nei titoli della stampa regionale. Casi impressionanti di tortura per mano di sponsor hanno reso paesi come l’Arabia Saudita e il Kuwait oggetto di studio sui pericoli del settore dei servizi domestici transnazionali.

I resoconti popolari del sistema kafala si concentrano sulle pratiche di sfruttamento del lavoro e spesso si basano sul linguaggio dei diritti umani. Più recentemente, tuttavia, sia gli accademici che gli attivisti hanno indicato il sistema kafala come un esempio paradigmatico di anti-Blackness in Medio Oriente. Questa accusa arriva nel mezzo di un crescente dibattito su razza e razzismo all’interno della regione che vuole rispondere alle sfide del momento politico e del movimento globale in difesa delle vite dei neri…

In Libano, il sistema kafala disciplina tecnicamente sia i lavoratori migranti africani e asiatici (principalmente maschi) sia i lavoratori domestici migranti (principalmente donne) e talvolta include i siriani (presenti nel paese, ndt). Ma le grandi comunità di profughi siriani e palestinesi nel paese, così come un numero minore di rifugiati iracheni e sudanesi, generalmente non rientrano nel sistema della kafala, sebbene alcune pratiche e forme di discriminazione siano condivise. Inoltre, nonostante la presenza visibile di migranti di sesso maschile (in particolare sud-asiatici nei settori igienico-sanitario e delle pulizie), la maggior parte dei migranti africani e asiatici in Libano sono lavoratrici domestiche.

Prima del 2019, si stimava che una famiglia libanese su quattro impiegasse un lavoratore domestico migrante a tempo pieno. L’aggiunta dei molti lavoratori part-time spinge quel numero ancora più in alto. Lo storico Fawwaz Traboulsi ha descritto questa pratica come un “requisito di status minimo” di appartenenza alla classe media libanese, secondaria al possesso di un appartamento e all’invio dei figli a scuola privata, ma di pari importanza come accesso a internet, telefono cellulare e carta di credito. Naturalmente, questa stessa fascia demografica è stata radicalmente modificata durante l’attuale crisi, con alcuni che hanno proclamato la recente “morte della classe media libanese”. L’ampia portata del lavoro domestico migrante oltre l’élite del paese, in altri settori della popolazione, attraversa classi e sette e rivela la centralità del sistema kafala in Libano come istituzione sociale in senso lato. Ciò che spicca non è solo l’ampiezza della sua portata ma anche la portata del suo abuso.

Secondo gli studi disponibili, meno del 50 per cento dei datori di lavoro libanesi concede alla collaboratrice domestica il giorno di riposo previsto contrattualmente ogni settimana. Di questi, un’altra metà le vieta di uscire di casa da sola in questo giorno. Un datore di lavoro su cinque chiude la lavoratrice in casa. Oltre il 93 per cento dei datori di lavoro le confisca il passaporto al suo arrivo. Il 40 per cento rifiuta di pagare per intero lo stipendio della domestica alla fine di ogni mese. Le donne riferiscono spesso di essere costrette a lavorare dieci, 12 o anche 18 ore al giorno, con poche pause, per anni e anni. Pare che un terzo dei datori di lavoro infligga percosse i propri lavoratori domestici. E secondo dati del 2017, due domestiche sono morte ogni settimana in Libano per suicidio, tentativo di fuga fallito o omicidio.

Schiavitù moderna?

Nel 1999, Reem Haddad ha scritto per Merip che l’esperienza delle donne dello Sri Lanka in Libano “può essere definita una moderna tratta degli schiavi”. Due decenni dopo, la stessa frase può essere trovata sui cartelli scritti da donne africane e asiatiche per la manifestazione annuale del Primo Maggio a sostegno dei diritti dei migranti: “Lavoratori non schiavi!” Questo linguaggio comparativo della schiavitù richiama l’attenzione sulle gerarchie razziali, sulla violenza di genere e sulla mancanza di libertà che caratterizzano le esperienze dei lavoratori domestici nel paese…

Può la descrizione “schiavitù moderna” spiegare i molti stereotipi su come i diversi lavoratori domestici parlano arabo, o le scene di donne a cui viene vietato nuotare nei beach club del Mar Mediterraneo o il caso di una donna in partenza dall’aeroporto internazionale “Rafik Hariri” di Beirut con in tasca bollette dell’elettricità che le erano state spiegate come le ricevute dei salari trasferiti sul suo conto in banca? In realtà le differenze strutturali tra schiavitù legale e servitù domestica, così come le specificità sociali e storiche del Medio Oriente moderno, rendono necessaria una struttura alternativa per comprendere il sistema kafala odierno. È importante notare che la questione della schiavitù non si riferisce a una storia esterna al Medio Oriente. Ci sono anche eredità di schiavitù all’interno della regione. Gli archivi della storia ottomana contengono numerosi casi di schiavitù domestica, completi delle proprie gerarchie basate sul fenotipo e sull’origine. E accanto alla tratta formale degli schiavi sotto l’impero ottomano (che decadde all’inizio del ventesimo secolo), la servitù domestica ha la sua storia nel moderno Levante, principalmente sotto forma di ragazze povere mandate a lavorare nelle case di famiglie ricche. Il sistema kafala è arrivato recentemente nell’area ed è emerso dalla guerra civile libanese. Mentre siriani e palestinesi venivano espulsi dalle aree invase da fazioni in guerra o incontravano una crescente ostilità da parte dei loro datori di lavoro, il lavoro asiatico e africano diventava un’alternativa attraente, con una minima supervisione statale. I libanesi che sono emigrati nel Golfo durante la guerra sono stati esposti al modello di sponsorizzazione della kafala, un sistema che a sua volta ha avuto origine nelle pratiche coloniali britanniche per la gestione degli stranieri negli Stati della Tregua. A sua volta, nonostante le storie di servitù che possono essere fatte risalire al Libano dell’era del mandato ottomano o francese (che gli storici devono ancora esplorare completamente), l’introduzione di una dipendenza su larga scala dal lavoro domestico asiatico e africano è stato l’inizio di qualcosa di nuovo nella società libanese del dopoguerra.

Nel Libano contemporaneo, kafala non si riferisce a una struttura giuridica (infatti, la parola non compare nel diritto libanese), ma piuttosto a un fenomeno sociale. Descrive l’esternalizzazione di un certo tipo di lavoro, indicato dalle femministe marxiste come “lavoro riproduttivo” – tra cui cucinare, pulire e prendersi cura di bambini e anziani -, per gruppi di donne straniere. Queste donne provengono da paesi i cui nomi sono diventati inscindibili dalla vita libanese, nominati con familiarità e disprezzo: Sri Lanka, Etiopia, Filippine, Bangladesh. L’elenco effettivo dei paesi di origine è molto più lungo, ma raramente si sente parlare di lavoratori domestici migranti con specificità: ciò che viene sottolineato non è la loro origine geografica quanto la loro estraneità.

Tuttavia, non tutti i lavoratori domestici sono considerati uguali. Le gerarchie interne premiano le donne di determinate nazionalità sopra le altre, un fatto che spesso si traduce in salari diversi (con le donne delle Filippine spesso pagate di più e le donne del Bangladesh di meno). Ma le organizzazioni che documentano il maltrattamento dei lavoratori domestici non hanno mostrato differenze marcate nelle esperienze di abuso. Infatti, le donne di tutti i paesi sono state soggette a pratiche di incarcerazione, privazione e sfruttamento diventate caratteristiche del sistema kafala. Indipendentemente dagli stereotipi culturalmente specifici sul loro livello di istruzione, caratteristiche fisiche o tratti di civiltà, tutti i lavoratori domestici migranti in Libano possono essere privati di cibo, acqua, riposo, mobilità, comunicazione, privacy o salario nella totale impunità. Questa terribile situazione è ciò che significa essere un lavoratore domestico migrante in Libano oggi. Al centro di questa storia, quindi, non c’è una società nettamente divisa tra padroni e schiavi, piuttosto una società in cui si ritiene che certi tipi di persone esistano solo per svolgere determinati tipi di lavoro.

Le nuove gerarchie del sistema Kafala

Le gerarchie non sono razziali ma intersezionali: sono contemporaneamente contrassegnate da differenze di genere, linguistiche e culturali e status socioeconomico. Ad esempio, le reti migratorie locali e transnazionali assicurano che mentre i titolari di passaporto americano visitino spesso il Libano come turisti o possano essere impiegati in contesti professionali d’élite, le altre nazionalità sono spesso limitate al lavoro umile. Descrivere qualcuno in Libano usando la parola “srilankese” o “etiope”, non significa attirare l’attenzione sulla loro nazionalità, piuttosto assegna il loro posto in una gerarchia sociale comune: in fondo. Il fatto che il sistema kafala domini anche l’uso quotidiano del linguaggio indica sia l’estensione di questa trasformazione sia la profondità del suo significato sociale.

Non c’è dubbio che il razzismo stia permeando gli atteggiamenti libanesi nei confronti dei lavoratori migranti. Il sistema della kafala in Libano ha permesso di confinare le donne contrassegnate come “nere” nelle soffitte e nelle dispense della cucina, di chiudere a chiave i frigoriferi, di contare i pezzi di pane, di legare le mani con cavi elettrici. E a queste stesse donne viene chiesto di cucinare i pasti, cambiare le lenzuola e fare il bagno ai bambini o ai genitori anziani di coloro che hanno la pelle più chiara. Spiegare queste pratiche attraverso il razzismo, come un insieme di atteggiamenti o stereotipi collettivi radicati nel campanilismo, significa ignorare il ruolo del sistema kafala nel produrre queste gerarchie in primo luogo.

Essere etiope in Libano non è sempre stato sinonimo di lavoratore domestico. Negli anni Cinquanta e Sessanta, un gran numero di studenti asiatici e africani, inclusi gli etiopici, studiava nelle università del Libano. Appena qualche decennio dopo è impensabile vedere Beirut come il centro della politica anticoloniale che era una volta.

Per comprendere la situazione specifica dei lavoratori domestici migranti nel Libano di oggi è necessario riconoscere la centralità del sistema kafala per le gerarchie che permeano ogni aspetto della società libanese: dalla cultura popolare alle norme di genere, dall’ospitare una cena in famiglia all’architettura stessa degli edifici residenziali. Sebbene il sistema kafala esista accanto a molte altre differenze, comprese le divisioni settarie e quelle che etichettano siriani o palestinesi come diversi dal libanese, è unico nel modo in cui fissa genere, razza e classe nella figura del lavoratore domestico migrante…

Mettere in primo piano la questione della razza e del razzismo è necessario… Il primo passo per porre fine a questo sistema di razzismo, tuttavia, è abolire il kafala.

 

*Sumayya Kassamali è assistente professore di antropologia e Centro per la diaspora e studi transnazionali presso l’Università di Toronto.

LINK

https://merip.org/2021/07/understanding-race-and-migrant-domestic-labor-in-lebanon/