di Marco Cinque

Pagine Esteri, 6 settembre 2021 – Nato nel Bronx, a New York, ebreo e comunista irriducibile, tra le voci più alte, prolifiche e combattive della controcultura statunitense, Jack Hirschman ci ha lasciato il 22 agosto di quest’anno. Poeta, scrittore, artista e perfomer a tutto tondo, la sua attività poetica è stata un lungo percorso di coerenza, impossibile da separare dalla sua realtà quotidiana: tra parola e vita, infatti, egli non ha mai marcato nessuna distanza e la poesia che importa, per lui, è il sangue degli altri che diventa il suo stesso sangue. Per avere un’idea della sua ricchissima biografia e sterminata bibliografia, se ne consiglia la lettura nella pagina della Casa della Poesia di Baronissi: https://casadellapoesia.org/poeti/hirschman-jack/biografia
Sulla sua figura artistica, umana e politica è inutile ripetere o aggiungere qualcosa oltre tutto ciò che è stato detto e scritto, anche se ciò che è stato detto e scritto forse non è stato e non sarà mai abbastanza. Per quel che mi riguarda, posso solo raccontare alcuni dei momenti più belli e intensi vissuti assieme, per rendere l’idea di chi davvero sia stato questo straordinario poeta, amico fraterno e compagno di versi e di lotta.

Roma, marzo 2005 – Jack arrivò all’ora di pranzo, era ospite a casa mia con altre amiche e amici che venivano persino da fuori Roma. Era una gran bella tavolata e lui naturalmente era l’epicentro dove atterrò il primo piatto di pasta alla carbonara, assieme all’attenzione di tutti i convitati. Qualcuno iniziò a parlargli fitto in inglese, lui si guardò attorno un po’ interdetto, poi disse: “io capisce se tu parla italiano, così anche altri capisce”. Bum! Quella meravigliosa sensibilità mostrata verso gli altri e la sua necessità di essere così inclusivo non potevano non fartelo amare. Dopo il pranzo andammo a piedi verso il Liceo Morgagni, l’istituto scolastico che doveva ospitare un suo concerto poetico. Così lo accompagnai assieme ai musicisti con cui dovevamo improvvisare delle interazioni ritmiche e musicali sui suoi versi. Prendemmo confidenza con l’ampio palcoscenico dell’aula magna di quella scuola, montammo gli strumenti e facemmo qualche prova con suoni e volumi, poi Jack chiese agli insegnanti di poter incontrare gli studenti dell’istituto, per fare quattro chiacchiere e familiarizzare con loro. Fu amore a prima vista, ma lui non sapeva che durante il reading i ragazzi e le ragazze gli avrebbero fatto una sorpresa. Scelsero alcune sue poesie tra quelle che non erano in programma per la serata e le lessero con la voce rotta dall’emozione. Non l’avevo mai visto così, Jack si commosse profondamente e non riuscì a trattenere le lacrime, poi ringraziò i ragazzi abbracciandoli uno ad uno. Guardandoli negli occhi sono sicuro che, dopo quell’esperienza, gli sguardi di quei giovani sarebbero rimasti per sempre pieni dell’eredità poetica lasciata loro da Jack.

San Francisco, luglio 2007 – Lo vidi da lontano, all’esterno del Caffè Trieste, mentre giocava tirando pallate contro il muro, coi suoi capelli lunghi raccolti da una bandana, forse un po’ troppo hippy per un comunista della sua età; ma lui se ne fregava degli stereotipi sui comunisti, perché il suo comunismo era puro e prescindeva da qualunque cliché. Quando si accorse del mio arrivo sembrava quasi di stare nella scena madre di un film, quando due innamorati si vedono da lontano dopo tanto tempo e corrono l’uno verso l’altro per abbracciarsi felici e contenti. Ci mancava solo che ci dessimo un bacio appassionato, poi per il resto sembrava tutto uguale.

Dopo un cappuccino al Caffè Trieste, che aveva ancora il sapore nostalgico del ‘68, andammo davanti alla baia di San Francisco, proprio di fronte all’isola con la vecchia prigione di Alcatraz. Ci sembrava che quello scenario avesse un simbolismo potente e perfetto per leggere poesie da dedicare ai miei fratelli cherokee e yaqui, rinchiusi nel braccio della morte di San Quentin, il famigerato penitenziario a pochi chilometri di distanza da dove ci trovavamo. Lui ritmava i suoi versi, mentre io gli facevo eco con un tamburo che mi ero portato. Venivo dall’altra parte dell’oceano, ma sembrava quasi che fossi nato lì e che il tempo non avesse misura. Jack declamava roteando i pochi denti che gli erano rimasti, in quel momento ho pensato che tutti quelli mancanti dovessero essersi frantumati per i decibel della sua voce.

Il giorno successivo andai nel braccio della morte di San Quentin, per incontrare il mio fratello adottivo yaqui, Fernando Eros Caro. Durante la visita lui mi confessò di aver percepito qualcosa di forte il giorno precedente, come un senso di vicinanza e armonia, quando io e Jack gli avevamo spedito quel “messaggio di fumo” fatto di poesia, dalla baia di San Francisco.

Baronissi, dicembre 2008 – Al 75esimo compleanno di Jack, Sergio Iagulli e Raffaella Marzano avevano organizzato una grande festa alla Casa della Poesia. C’erano presenti, arrivati anche da altri Paesi, amici e amiche di una vita a salutarlo e a declamare poesie per lui. Gli ultimi a concludere le letture furono proprio Jack e sua moglie Agneta Falk (Aggie per gli amici). Ultimi, sì, perché la parola si nutre e cresce dall’ascolto dell’altro e le emozioni che si riescono a trasmettere sono la somma di quelle vissute. Devo dire che ne ho conosciuti pochi con la capacità di ascolto che aveva Jack e forse era proprio questa capacità il concime che rendeva la sua produzione poetica così ricca, rigogliosa, prolifica.

Poi, dopo il reading, tutti assieme a festeggiare con tanto di torta e candeline. Ricordo la sua faccia da bambino felice mentre soffiava sulla torta, con la bottiglia di vodka sempre a distanza di mescita, quasi come fosse la sua stampella.  Chissà, forse i palcoscenici accademici e i salotti letterari avrebbero arricciato il naso di disgusto quando, mezzo brillo di alcol e felicità, Jack iniziò a cantare a squarciagola, sostenuto in duetto da Alberto Masala, che non so se fosse anche lui abbastanza sbronzo o solo pieno di quella gioia contagiosa, una gioia che solo i bambini, i matti e i poeti sanno esprimere, ma credo che in quel momento Jack fosse tutte e tre le cose: poeta, bambino e matto.

Pesaro, giugno 2016. L’incontro poetico di Jack stavolta si svolgeva in un carcere, assieme a detenute e detenuti, organizzato dall’associazione L’Officina e promosso dal Garante regionale. Alcuni detenuti si erano offerti di leggere le traduzioni in italiano dei testi di Jack e lui ne era stato più che felice. Le poesie proposte raccontavano degli ultimi, degli emarginati, degli sconfitti, per riuscire a stimolare l’interesse degli “ospiti” di quel luogo di espiazione. Le interazioni ritmiche e musicali creavano un effetto ancor più coinvolgente ed emotivo, tanto che nel carcere di Villa Fastiggi sembrava quasi che non ci fossero più porte, sbarre e muri a cingere i nostri corpi, come se la parola poetica fosse riuscita, in quelle due ore, a scardinare ogni serratura e a farsi persino antidoto alla sofferenza e all’umiliazione della reclusione.
Finite le letture musicate, iniziò spontaneamente un dialogo coi detenuti, che volevano sapere ogni cosa di Jack. A un certo punto, uno dei detenuti, in maniera un po’ provocatoria, si alzò e gli chiese: “ma tu in carcere ci sei mai stato?” Senza scomporsi, Jack gonfiò il petto sotto gli straccali rossi e, aprendo la mano, rispose col suo vocione: “sì, cinque volte”. Apriti cielo! Dalla sala si levarono pugni in alto, come in segno di vittoria, assieme a un sonoro urlo da stadio, come se la squadra del cuore avesse fatto goal. Le affinità elettive erano arrivate all’apice e, per chi tra i detenuti ancora avesse dubbi, l’autore ospite non era più un intruso, ma uno di loro. Questo incontro aveva scatenato una tale passione per la poesia che, nei mesi successivi, i detenuti scrissero una raccolta di versi alla quale il loro nuovo amico e compagno non mancò di regalare un’appassionata introduzione.

Mille altre vicende hanno costellato il percorso di Jack, come quando, alla fine di un reading all’università La Sapienza di Roma, cantò con la sua voce da baritono l’Internazionale in lingua russa, acclamato dagli increduli studenti presenti; ma credo che chiunque abbia avuto la fortuna di incontrarlo o interagire con lui, avrà di certo un’infinità di altre storie da raccontare, storie che meriterebbero di essere ascoltate.
Il regista Mattew Furey gli dedicò il film documentario: Red Poet, mentre assieme ad Alessandra Bava curammo, qui in Italia, una serie di testi poetici scritti da tutti i suoi amici a amiche in omaggio ai suoi 80 anni, raccolti poi in un libro che si intitolava Jackissimo, per le edizioni Seam.
E allora, Jackissimo caro, anche se siamo rimasti orfani della tua persona, continueremo a sventolare alta la tua bandiera poetica, anche se ridotta in brandelli, contro ogni oppressore, contro ogni ingiustizia, affinché i tuoi versi, parafrasando Leo Ferrè, continuino a “fare l’amore nella testa dei popoli”.