di Valeria Cagnazzo*

 

Pagine Esteri, 25 settembre 2021 – Non solo lo scioglimento dei ghiacciai e l’estinzione degli orsi polari, non soltanto lo spopolamento della barriera corallina né la scomparsa di migliaia di specie animali nelle foreste equatoriali: la crisi climatica è un’emergenza per la sopravvivenza di tutti i bambini nel mondo. Ad affermarlo il recente rapporto Unicef “The climate crisis is a child rights crisis”, pubblicato lo scorso agosto in collaborazione con gli attivisti di Fridays for Future. Si tratta della prima analisi sul cambiamento climatico interamente scritta dalla prospettiva dei bambini. I dati sono allarmanti, e dimostrano quanto i cambiamenti climatici siano tutt’altro che un problema astratto a cui dedicarsi distrattamente una volta a settimana con la raccolta della carta e della plastica. Qualcosa che ha piuttosto a che fare con quel bambino malnutrito e ammalato mostrato da un paio di spot di ONG in apertura ai video di Youtube, prima che sia possibile saltare l’annuncio frettolosamente.

I bambini e gli adolescenti sono i soggetti più vulnerabili alle conseguenze dei cambiamenti climatici. I diritti alla salute, all’educazione, a vivere in sicurezza sono messi a repentaglio in molte aree del mondo dalle catastrofi e dalle trasformazioni determinate dall’emergenza ambientale. La loro è una vulnerabilità innanzitutto fisica, per l’inevitabile minore resistenza alle infezioni, che, a parità di agente patogeno con  gli adulti, potrebbero per loro rivelarsi letali, o alla carenza di cibo o acqua e alle condizioni metereologiche avverse. Senza escludere la suscettibilità del loro sistema nervoso centrale o del sistema emopoietico alle sostanze tossiche o potenzialmente cancerogene che contaminano l’aria e le acque. Il degrado ambientale, infine, o la necessità di emigrare da terre martoriate dalle calamità naturali possono essere ostacoli al loro diritto di costruirsi un futuro.

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Ad essere minati dalla crisi climatica sono di fatto i diritti sanciti dalla Convenzione per i Diritti dell’Infanzia, siglata nel 1989 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e ratificata da tutti i Paesi del mondo ad eccezione degli Stati Uniti. L’articolo 3, ad esempio, sancisce che gli interessi dell’infanzia dovrebbero essere la priorità nelle agende politiche, e il 6 tutela il diritto alla sopravvivenza e allo sviluppo. Gli articoli 9 e 10 stabiliscono che nessuno dovrebbe essere allontanato forzatamente dai propri genitori, cosa che invece sempre più spesso avviene nelle aree colpite dalle calamità ambientali o dalla siccità. Minacciati sono anche il diritto alla salute dell’articolo 24, o a vivere in condizioni adeguate (articolo 27) e ricevendo una regolare istruzione (articolo 28).

Secondo il rapporto, metà dei bambini nel mondo, circa un miliardo, vivono in Paesi considerati “ad alto rischio” a causa della crisi climatica. Quelli più colpiti sono la Repubblica Centrafricana, il Ciad, la Nigeria e la Guinea Bissau. Ma non sono solo gli Stati africani a guadagnarsi i primi posti nella classifica dei 163 Paesi: il Pakistan, l’Afghanistan e il Bangladesh occupano la quattordicesima, la quindicesima e la sedicesima posizione. Ciò significa che non è solo coi venti di guerra e l’instabilità politica dei loro Paesi che i bambini devono spesso confrontarsi, ma anche con una povertà e un’incertezza derivanti dalle risorse e dalle calamità ambientali – fattori questi di solito non così chiaramente districati dalle questioni geopolitiche. In testa alla graduatoria non mancano superpotenze: l’India è al ventottesimo posto, la Cina si è conquistata il quarantesimo.

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Per dare un po’ di numeri, basti cominciare con questo dato: il 26% delle morti di bambini sotto i 5 anni sarebbe dovuta a cause ambientali modificabili. Secondo l’”Indice del Rischio Climatico per i Bambini”, al quale si rifà il rapporto dell’Unicef, ogni bambino della terra è esposto ad almeno un fattore di rischio ambientale: inquinamento atmosferico, incendi, inondazioni, cicloni o scarsità di acqua. Ma la vita di circa 850 milioni di bambini è minacciata  da almeno quattro di questi pericoli assieme. Le ondate di calore interessano 820 milioni di bambini, e 920 milioni di loro vivono in aree in cui le risorse d’acqua sono insufficienti, 415 milioni in zone di vulnerabilità “alta” o “estremamente alta” alla siccità. Questo ha naturalmente degli effetti sulla loro alimentazione, sull’igiene e sulla loro salute. La disidratazione può essere fatale per i bambini, come anche la malnutrizione, che spesso ad essa si accompagna: ad essa è dovuta la metà delle morti sotto i cinque anni di età nel mondo, e circa 144 milioni di bambini sono rachitici. 600 milioni di bambini non sono protetti da infezioni potenzialmente letali trasmesse da artropodi vettori, come la malaria e la dengue, che proliferano in aree paludose non bonificate e che si replicano più rapidamente in ambienti surriscaldati a causa dei cambiamenti climatici – e il 2020 è stato l’anno più caldo della storia. Il diritto a una casa è messo a repentaglio per oltre 300 milioni di bambini da esondazioni fluviali o costiere o da cicloni, e anche questo è una diretta conseguenza dell’aumento delle temperature e del livello dei mari per lo scioglimento dei ghiacciai. Più che il numero di eventi, è l’intensità dei cicloni ad essere aumentata, e con questa il prezzo che dev’essere pagato in termini di feriti, di vittime e di sfollati. Per i minori, essere costretti ad abbandonare le loro case e a volte le loro famiglie può rappresentare uno stress psicologico o un vero trauma, e può anche predisporli a essere vittime di violenza emotiva, fisica e sessuale, soprattutto se obbligati ad affrontare la migrazione da soli.  Lo sviluppo di un terzo dei bambini del mondo, inoltre, è minacciato dagli effetti neurotossici del piombo che contamina le acque, l’aria e il terreno delle aree in cui vivono. Si arriva, infine, ai due miliardi di bambini nel mondo (il 90%) esposti ad alti livelli di inquinamento dell’aria.

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Che le colpe dei padri ricadano sui figli, però, non è sempre vero. I bambini più a rischio a causa del cambiamento climatico vivono nei 33 Paesi responsabili solo del 9% delle emissioni di CO2 globali.  I dieci Paesi che ne emettono di più ne producono il 70%. L’emergenza climatica che minaccia le giovani generazioni, denuncia l’Unicef, è quindi da considerare anche come una delle principali cause storiche e mondiali della perpetrazione delle disuguaglianze sociali e della creazione di nuove ingiustizie tra i ricchi e i poveri del pianeta, come tra le città e le periferie dei singoli Stati. Se l’emergenza climatica, infatti, è democratica nel riguardare tutti a prescindere dalle latitudini, non lo sono i suoi effetti immediati, che sembrano accanirsi sui più innocenti nella distribuzione delle colpe del disastro ambientale. Si stima che un residente in un Paese in via di sviluppo produca 0,2 tonnellate quadrate di CO2 in un anno: nello stesso periodo di tempo, chi vive in un Paese sviluppato ne emette 10,3. I ruoli in questa sproporzione si invertono quando si tratta di pagarne le conseguenze. Sono, infatti, quei Paesi in cui la popolazione dipende più direttamente dai prodotti dell’agricoltura, e in cui già sono endemiche la fame, la siccità e le zanzare portatrici di malattie letali, a scontare il prezzo più alto della crisi climatica. I suoi effetti in termini di impoverimento nella produttività dei terreni o di distruzione delle infrastrutture hanno un peso molto più rilevante in quelle aree in cui le scuole e gli ospedali sono una rarità. “Sono questi bambini – i bambini più vulnerabili – che non vengono ascoltati”, si legge nel rapporto Unicef. “Una combinazione di scarso accesso a Internet, ridotta capacità di viaggio per conferenze all’estero ed eventi, scarsa copertura mediatica e silenzio da parte di chi è al potere sono alcuni dei motivi principali per cui le voci dei bambini dei Paesi più vulnerabili non vengono ascoltate”. Eppure, udire la loro voce sarebbe fondamentale nel dibattito sul clima, per cercare soluzioni e per dimostrare quanto il problema sia attuale e concreto e non consista meramente in un interesse borghese di ragazze e ragazzi benestanti del Nord Europa. “In particolare”, si legge ancora nel rapporto, “le ragazze, i giovani disabili e le persone di colore sono colpiti in modo sproporzionato dai rischi ambientali, per questo le loro prospettive sono ancora più vitali”.

La spinta data dai giovani dei Fridays for Future al dibattito sul clima rappresenta sicuramente una ventata di coraggio e di speranza, ma l’Unicef, che pure con loro ha collaborato nel redigere questo lavoro, non lascia spazio a comode illusioni: quando arriverà il loro momento di guidare le sorti del mondo, “potrebbe essere troppo tardi”. Le emissioni di gas serra dovrebbero essere dimezzate entro il 2030 e azzerate prima del 2050 per evitare catastrofi irreparabili, ma neanche questo sarebbe sufficiente. Il surriscaldamento globale continuerebbe ad aumentare se non si facesse anche ricorso a soluzioni “positive”, come investimenti in infrastrutture, bonifiche, forniture di servizi sanitari ai Paesi più vulnerabili. Fondamentale, secondo l’Unicef, anche un’educazione “verde” in tutte le scuole e la partecipazione ai summit sull’ambiente da parte dei giovani provenienti da tutte le regioni del mondo, anche e soprattutto dalle aree più povere e a rischio. Ultimo, ma non ultimo, l’impegno che la ripresa dalla pandemia preveda delle scelte ecologiche e che i fondi stanziati contro l’emergenza Covid siano investiti con attenzione all’ambiente. Secondo gli autori del rapporto, d’altronde, la pandemia può essere vista come un’opportunità interessante per reimmaginare il mondo in una nuova prospettiva: il Covid19 ha, infatti, dimostrato a tutti – forse non proprio a tutti, ma a molti – quanto si possa toccare il fondo se non si ascolta la scienza, ma ha anche rivelato quanto rapidamente si possa agire contro un problema quando questo viene avvertito come un pericolo per la sopravvivenza dell’umanità. Basti pensare, in effetti, a come nel giro di un anno e mezzo nel mondo tutti abbiamo completamente stravolto il nostro modo di vivere e le nostre abitudini, e a quali sforzi la scienza abbia profuso nel realizzare in un così breve lasso di tempo diversi vaccini per immunizzarci contro un virus fino al 2020 sconosciuto. Quanto potrebbe essere fatto, dunque, se finalmente si realizzasse che il rischio dell’emergenza climatica è altrettanto serio? Per effetto del clima, molti bambini stanno già morendo, troppi non hanno una casa, e il mondo si sta trasformando in un posto non più abitabile per le nuove generazioni. Non resta che aspettare il summit COP26 di Glasgow sul clima, che dovrebbe partire il 31 ottobre. “Sarà una svolta per l’umanità”, così ha annunciato Boris Johnson alle Nazioni Unite. L’umanità farebbe bene ad augurarselo.

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*Valeria Cagnazzo (Galatina, 1993) è medico in formazione specialistica in Pediatria a Bologna. Come medico volontario è stata in Grecia, Libano ed Etiopia.  Ha scritto di Palestina su agenzie online, tra cui Nena News Agency. Sue poesie sono comparse nella plaquette “Quando un letto si svuota in questa stanza” per il progetto “Le parole necessarie”, nella rivista “Poesia” (Crocetti editore) e su alcune riviste online. Ha collaborato con il Centro di Poesia Contemporanea di Bologna. Per la sezione inediti, nel 2018 ha vinto il premio di poesia “Elena Violani Landi” dell’Università di Bologna e il premio “Le stanze del Tempo” della Fondazione Claudi, mediante il quale nel 2019 ha pubblicato la sua prima silloge poetica, “Inondazioni” (Capire Editore). Nel 2020, il libro è stato selezionato nella triade finalista del premio “Pordenone legge – I poeti di vent’anni”.