di Lahib Higel*

(traduzione a cura di Antonio Perillo) –

D: Qual è la posta in palio alle elezioni in Iraq del 10 ottobre?

R: Queste elezioni costituiscono il primo test per le istituzioni irachene da quando le proteste del 2019-2020 hanno paralizzato l’intero paese. Tali proteste hanno costretto il governo eletto nel 2018 a dimettersi e ad approvare una nuova legge elettorale, che ha anticipato di 6 mesi la tornata originariamente prevista per il 2022. Le cosiddette proteste di Tishreen (ottobre) sono state un segno importante del fatto che i partiti al governo ed il sistema politico affrontano una crescente crisi di legittimità. Se il voto si svolgesse in maniera libera e corretta, senza grandi episodi di violenza, potrebbe ripristinare un minimo di fiducia nella democrazia elettorale. Idealmente, il voto produrrebbe un nuovo governo con il mandato di affrontare di petto le enormi sfide socio-economiche del Paese, ma tale risultato è improbabile.

Molti iracheni hanno una visione pessimista sul futuro del paese, nonostante un periodo di relativa calma dopo la vittoria militare sull’ISIS del 2017. La corruzione ed una scarsa capacità di governo mettono a rischio persino la fornitura di servizi basilari come l’acqua e l’elettricità. In estate, nessuno che dipenda dalla rete elettrica nazionale può contare su più di qualche ora di elettricità al giorno. Quando le temperature raggiungono i 50 gradi centigradi, soltanto coloro che possono permettersi un generatore riescono a trovare refrigerio. Persino quelli con i generatori devono gestirli attentamente, poiché spesso non sono sufficientemente potenti per rinfrescare un’intera abitazione. Nel 2018, la qualità dell’acqua a Bassora era così bassa che oltre 100mila persone furono ricoverate in ospedale. Queste condizioni hanno scatenato disordini, che si sono rivelati essere precursori delle proteste Tishreen del 2019-2020.

La violenza di stato utilizzata per reprimere queste proteste ha portato alla rivendicazione di un rovesciamento dell’intero ordine politico in vigore fin dall’occupazione guidata dagli USA del 2003. Significativamente, i manifestanti hanno anche espresso insoddisfazione per una delle principali riforme fatte dopo la caduta del regime di Saddam Hussein. Tale cambiamento fu l’introduzione di un meccanismo di spoil system in stile libanese (conosciuto localmente come muhasasa, parola araba che significa “lottizzazione”), che ripartisce il governo e le principali cariche burocratiche statali fra i leader dei principali gruppi etnici e religiosi. Nonostante sia impopolare fra i manifestanti, il sistema persiste.

 

D: Quanto è grande l’interesse popolare per le elezioni?

R: Nonostante la grande richiesta di cambiamento, l’interesse popolare per le elezioni è basso. In televisione, la campagna elettorale è una gara al ribasso, con i politici che insultano i loro avversari e che si accusano a vicenda di corruzione. Ognuno di loro insiste nell’affermare di essere l’unico leader in grado di salvare il Paese. Sulla strada verso Baghdad dalla città settentrionale di Mosul, i manifesti della campagna adornano i check-point in entrata e in uscita da ogni città. Ma è improbabile che la propaganda politica convinca le persone a presentarsi ai seggi in gran numero. La pesante repressione di stato delle proteste di Tishreen ha lasciato un senso di paura e di disincanto sia in chi era sceso in piazza sia in chi non l’aveva fatto. In tanti hanno perso ogni speranza che il sistema possa cambiare, pochi credono che le elezioni daranno una scossa all’establishment in modo significativo. Le elezioni del 2018 furono falsate da brogli diffusi. Agli occhi di molti iracheni, la corruzione e la disorganizzazione sono troppo radicati nella politica del Paese per rendere possibile un risultato migliore.

Anche l’incolumità personale è un problema. A Baghdad ho incontrato i membri di un partito costituito recentemente che ha presentato i propri candidati alle elezioni, ma che ha sollevato gravi preoccupazioni sui pericoli che corrono per l’affiliazione del partito con il movimento Tishreen. Alcuni candidati hanno ricevuto lettere anonime o messaggi al telefono con minacce di violenza se non si fossero ritirati.

«La percezione che il sistema sia ingiusto…riduce l’entusiasmo degli elettori»

Anche la percezione che il sistema sia ingiusto diminuisce l’entusiasmo degli elettori. L’Iraq non ha alcuna legge che imponga trasparenza nel modo in cui i partiti politici raccolgono e spendono soldi, e molti piccoli partiti sospettano che i loro rivali di dimensioni maggiori abusino del loro potere di accesso e controllo dei fondi dei ministeri e di altre istituzioni statali. Il Partito Comunista Iracheno e diversi nuovi partiti nati nelle proteste Tishreen hanno deciso di boicottare le elezioni per denunciare questa percezione di ingiustizia e la carenza di sicurezza.

Per queste ed altre ragioni, larghi segmenti dell’elettorato potrebbero restare a casa il giorno delle elezioni, anche se l’affluenza potrebbe variare da regione a regione. I livelli più bassi di partecipazione sono attesi nelle governatorati meridionali che hanno ospitato le proteste nel 2019-2020. La partecipazione più forte è prevista nelle aree curde, dove un numero inferiore di partiti compete in una struttura sociale piuttosto statica. Le zone arabe sunnite probabilmente costituiranno una via di mezzo, in uno scenario in cui la ricostruzione dopo la guerra con l’ISIS è ancora in cima ad ogni agenda politica locale e molte persone potrebbero essere motivate a votare per i partiti che ritengono garantire i maggiori investimenti nella loro area.

 

D: Qual è il risultato più probabile delle elezioni?

R: I partiti che avranno con ogni probabilità un risultato migliore in ogni gruppo etnico-religioso sono quelli al potere. Fra gli Sciiti, il popolare religioso Muqtada al-Sadr e il suo movimento saranno i più votati oppure, se andassero al di sotto delle aspettative, correranno testa a testa con il loro principale rivale, l’alleanza Fateh. Quest’ultima comprende principalmente partiti affiliati con i gruppi paramilitari filo-iraniani dell’Hashd al-Shaabi (“Mobilitazione Popolare”). Insieme alla Coalizione dello Stato di Diritto dell’ex primo ministro Nuri al-Maliki, costituirono il secondo blocco più grande in parlamento dopo le elezioni del 2018. Questa volta, con la costruzione di alleanze dopo le elezioni, potrebbero persino essere capaci di formare il gruppo più grande. Fra gli arabi Sunniti, la competizione principale è fra il Partito Taqaddum del portavoce del parlamento Mohammed al-Halbousi e il Partito Azm del politico e uomo d’affari Khamis al-Khanjar. Si prevede che il primo possa entrare in un’alleanza con Sadr e altri politici sciiti centristi come il religioso Ammar al-Hakim e l’ex primo ministro Haider al-Habadi, mentre ci si aspetta che il secondo sostenga l’alleanza Fateh. Fra i curdi, il Partito Democratico del Kurdistan di Masrour Barzani dovrebbe guidare agevolmente la corsa.

«Se il nuovo parlamento si dimostrerà riluttante ad approvare un’agenda di riforme come quello attuale, nuove proteste saranno inevitabili nei prossimi anni»

In maniera simile a quanto accaduto nelle elezioni precedenti, è già chiaro che nessun partito o alleanza sarà in grado di conquistare la maggioranza assoluta di 329 seggi, quindi dopo il voto seguirà un lungo processo di costruzione di coalizioni e di formazione del governo. Nel 2018 le trattative durarono otto mesi e produssero un governo che comprendeva tutti i partiti summenzionati.
Il governo di grande coalizione e la necessità di raggiungere qualche forma di consenso sulle principali decisioni causarono un collo di bottiglia amministrativo, con il risultato che il parlamento spesso non votava sui provvedimenti legislativi e il governo era impossibilitato a prendere decisioni politiche. Questa impasse contribuì a scatenare le proteste Tishreen. Se il nuovo parlamento si dimostrerà riluttante ad approvare un’agenda di riforme come quello attuale, nuove proteste saranno inevitabili nei prossimi anni.

 

mappa delle elezioni irachene del 2018 (da Wikimedia Commons)

Le elezioni saranno anche un test perla nuova legge elettorale approvata dopo le proteste Tishreen. Il testo introduce un Singolo Voto Non-Trasferibile, sigla SNTV (voto di preferenza, ndt) a sostituire il vecchio sistema basato sulle liste di partito, che consentiva ai partiti politici di occupare i seggi conquistati in ragione della quota proporzionale di voti ricevuti con candidati di loro scelta, che spesso non avevano ottenuto una percentuale significativa del voto popolare. L’Iraq inoltre è passato da un unico collegio elettorale nazionale all’avere 83 distretti. I candidati che ottengono più voti in ogni distretto – ogni distretto elegge dai 3 ai 5 rappresentanti, a seconda delle dimensioni – andranno in parlamento a Baghdad. In linea di principio, questo nuovo sistema potrebbe portare col tempo ad una maggiore responsabilità degli eletti, poiché i candidati saranno più vicini ai loro territori e gli elettori saranno in grado di punire i legislatori che a loro modo di vedere non saranno stati all’altezza. Ma l’SNTV può essere imprevedibile e difficile da gestire per i partiti; può anche determinare risultati abbastanza sproporzionati. Anche i partiti di nuova costituzione potrebbero incontrare difficoltà, perché faranno probabilmente fatica a trovare candidati competitivi con i vecchi partiti in molti piccoli distretti.

 

I partiti al potere hanno un grande vantaggio in termini di fondi, accesso ai media, infrastrutture organizzative e capacità di mobilitazione. Quindi la nuova legge probabilmente non avrà una grande influenza sulla distribuzione complessiva dei seggi. Come da pratica messa in atto di comune accordo sin dal 2005, il sistema muhasasa significa anche che uno sciita dovrà essere primo ministro, un curdo presidente e un arabo sunnita portavoce del parlamento, con una distribuzione simile fra i partiti anche per quanto riguarda le cariche di governo.

 

D: Quali sono le grandi questioni che il nuovo governo dovrà affrontare con gli altri governi della regione?

R: L’ambizione dell’Iraq di negoziare reazioni più stabili con le altre potenze regionali si è manifestata nella conferenza che si è tenuta a Baghdad in agosto, che ha riunito i paesi confinanti ed altri paesi della regione in un dialogo alla ricerca di una maggiore cooperazione. Molti di essi hanno partecipato con delegazioni al livello dei capi di stato. Ma se la conferenza di agosto è stata un passo in avanti, qualsiasi nuovo governo a Baghdad dovrà percorrere un sentiero delicato fra gli stati ben più potenti circondano l’Iraq e che non la vedono allo stesso modo praticamente su nulla.

Dal punto di vista dell’Iraq, il più influente di questi vicini è l’Iran. Fin dall’invasione guidata dagli USA del 2003, ogni governo a Baghdad ha avuto il bisogno sia dell’approvazione di Teheran sia di quella di Washington. Nel 2018, per esempio, l’Iran e gli USA si misero d’accordo sulla composizione del governo del primo ministro Adil Abd-al-Mahdi e, due anni dopo, anche sul governo ad interim del primo ministro Mustafa al-Kadhimi. Il sistema muhasasa lavora a vantaggio dell’Iran, poiché la carica di primo ministro è la più potente nel sistema iracheno e deve occuparla uno sciita. Non tutti i politici iracheni sciiti sono ben disposti verso l’influenza iraniana, ma il potere dell’Iran è andato indubitabilmente crescendo in maniera costante dal 2003. Il nuovo governo iraniano, più conservatore, potrebbe spingere affinché a Baghdad ci sia un primo ministro che si distanzi maggiormente dagli USA e che acceleri le negoziazioni mirate ad un completo ritiro delle truppe americane – inclusi addestratori e consiglieri (ne parlo più in basso) – cosa che costituisce un obiettivo strategico iraniano.

Per l’Iraq del nord è la Turchia, sempre più preoccupata della crescita in Iraq del Partito dei Lavoratori Curdi (PKK), un gruppo ribelle che combatte l’esercito turco da quasi 40 anni. Ankara sarà interessata ad un governo con il quale collaborare ed in particolare ad un governo che non impedisca alle forze turche di compiere attacchi continui contro il PKK ed i suoi affiliati lungo il confine settentrionale dell’Iraq. In modo molto preoccupante per alcuni a Baghdad, il raggio dei bombardamenti turchi è andato scivolando verso sud, specialmente nell’ultimo anno, portando i partiti sciiti allineati alla rete di gruppi paramilitari Hashd al-Shaabi a condannare gli attacchi in quanto violazioni della sovranità irachena. I gruppi Hashd lavorano a stretto contatto con il PKK ed i partiti pro-PKK, fra le altre cose per assicurarsi che abbiano pieno accesso al confine siriano, che il PKK controlla parzialmente.

«[Gli stati arabi del Golfo] proveranno quasi certamente a trovare il modo affinché il nuovo governo di Baghdad rimanga vicino agli USA e continui a lavorare verso una maggiore armonia regionale»

Per l’Iraq meridionale sono gli stati arabi del Golfo, che rimangono profondamente preoccupati per la diffusione dell’influenza iraniana in Iraq e nel Medio Oriente. Proveranno quasi certamente a trovare il modo affinché il nuovo governo di Baghdad rimanga vicino agli USA e continui a lavorare verso una maggiore armonia regionale, sulla scorta della conferenza di agosto a Baghdad.

 

D: Come si può valutare l’influenza degli USA in Iraq, specialmente dopo il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan?

R: Gli USA sono stati l’attore dominante in Iraq dopo il 2003, ma hanno perso progressivamente terreno, soprattutto a favore dell’Iran, fin dal ritiro della maggioranza delle loro truppe nel 2011. La guerra contro l’ISIS ha riportato in Iraq alcuni soldati americani nel 2014, che hanno lavorato in modo contraddittorio in tacito accordo con i paramilitari pro-iraniani, ma la loro permanenza è diventata controversa politicamente dopo la sconfitta degli jihadisti, tre anni dopo. L’ultimo round di colloqui strategici fra Baghdad e Washington in luglio ha prodotto l’accordo secondo il quale tutte le forze da combattimento USA partiranno entro la fine del 2021, lasciando soltanto addestratori e consiglieri.

Il nuovo governo affronterà due domande spinose relativamente a quello che rimane della presenza militare USA. La prima è se l’assetto modificato della coalizione a guida USA permetterà alle forze governative di combattere l’ISIS o altri militanti sunniti islamisti, qualora dovessero riattivarsi. Nonostante la sconfitta territoriale, l’ISIS rimane attivo ad oggi, perpetrando attacchi sulle forze di sicurezza nelle province di Kirkuk, Salah al-Din e Diyala. In sole due imboscate, in settembre, i combattenti dell’ISIS hanno ucciso 13 membri delle forze di sicurezza irachene. Il ritiro completo degli USA nel 2011 fu seguito, 3 anni dopo, dalla conquista di un terzo dell’Iraq da parte dell’ISIS, che costrinse Washington a riportare una parte delle sue truppe. Questa volta, diversamente dal 2011, addestratori e consiglieri, nonché il supporto dell’aviazione, rimarranno.

La seconda domanda è come il governo gestirà le pressioni interne sugli USA per il ritiro di tutte le sue forze rimanenti. Questa richiesta è più forte fra i gruppi Hashd alleati dell’Iran, specialmente dopo l’attacco con i droni del gennaio 2020 che uccise il generale Qassem Soleimani, capo della Forza Quds iraniana di spedizione in Iraq, e il leader dell’Hashd Abu Mahdi al-Muhandis. Ma è contrastata da altri, soprattutto i partiti curdi. Resta da vedere se i gruppi filo-iraniani accetteranno l’accordo del governo con gli USA per mantenere in Iraq addestratori e consiglieri dopo il ritiro delle forze da combattimento. Alcuni di questi gruppi sono implicati in attacchi contro le truppe USA nel 2021 e sono stati anche oggetto di ritorsioni americane. Si potrebbe quindi andare incontro ad ulteriori incidenti che coinvolgano i gruppi paramilitari e le basi irachene nelle quali è dislocato il personale statunitense. Se l’assenza di un accordo fra gli USA e l’Iran per riabilitare l’accordo sul nucleare del 2015 suggerisce che nuovi attacchi siano probabili, anche il ripristino di un’intesa non porterà automaticamente alla cessazione delle ostilità, perché la ragione sociale di alcuni gruppi paramilitari iracheni è esattamente resistere alla presenza militare degli USA e l’Iran potrebbe non avere il pieno controllo su di essi.

 

* In occasione delle elezioni politiche in Iraq del 10 ottobre, Pagine Esteri vi propone in traduzione la lettura di un recentissimo articolo al riguardo scritto da Lahib Higel, analista esperta dell’International Crisis Group, organizzazione pacifista indipendente. 

descrizione autore

Lahib Higel, senior analyst International Crisis Group