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di Ilaria De Bonis –

Pagine Esteri, 21 ottobre 2021 – Il Sudan affamato e allo stremo è come una pentola a pressione: stretto politicamente tra due blocchi (quello civile e quello militare, da tempo ai ferri corti), è in bilico tra forze contrapposte che spingono ognuna nella propria direzione. Sempre più lontano si fa il sogno di una transizione pacifica verso la democrazia.  Imponenti manifestazioni pro-esercito, il 16 e 17 ottobre, hanno visto scendere in piazza a Khartoum centinaia di persone schierate con i militari. E favorevoli ad un nuovo colpo di Stato. Il 30 settembre scorso era stata la volta dei sostenitori del blocco civile, che avevano organizzato cortei di segno opposto.

Ma è soprattutto la povertà e la scarsità di cibo ad animare la protesta: cori di «abbasso il governo della fame» hanno tenuto banco sabato scorso nella capitale, con voci che inneggiavano al generale Abdel Fattah al-Burhan. La gente in Sudan chiede lo scioglimento del governo provvisorio, guidato dall’ex funzionario del Fondo Monetario Abdalla Hamdok, e l’assunzione di tutto il potere da parte dell’esercito. «I militari sanno come affrontare la crisi economica in corso», dice la gente. Centinaia di persone hanno scandito lo slogan «un esercito, un popolo!»

Toni, questi, esasperati anche dal ricorso alle  misure “lacrime e sangue” adottate dall’attuale primo ministro. D’altra parte il premier ‘tecnico’ Hamdok deve affrontare un’inflazione che nel bilancio del 2019 raggiungeva il 57%, e che adesso sfiora il 500%. Il 21 febbraio scorso la Banca Centrale del Sudan ha svalutato la moneta nazionale, nel tentativo di accedere alla riduzione del debito.

«Il sit-in prosegue, non ce ne andremo finchè il governo non si sarà dimesso», diceva sabato scorso Ali Askouri, uno degli organizzatori dei cortei, come documenta l’Afp.

Una posizione che lascia spazio a varie interpretazioni, compresa quella di chi vede una “manipolazione” del consenso da parte militare. E dunque una piazza ‘prezzolata’ a favore dell’esercito. «La fame sta facendo il gioco dei militari», spiegano gli scettici.

«I militari pagano anche 30 dollari a persona a chi scende in piazza in loro favore – ci spiega una nostra fonte al telefono da Khartoum – e viene offerto da mangiare ai “sostenitori”, questa è un’evidenza per noi che siamo qui nella capitale. Promettono sacchi di farina e zucchero a chi manifesta inneggiando al colpo di Stato. A qualcuno viene promesso un mezzo di locomozione, tipo ape, che serve per lavorare; sappiamo che queste persone non sono lì perché ci credono». D’altro lato l’ “alleanza” tra civili e militari, che avrebbe dovuto trainare il Paese verso il day after Bashir per una transizione alla democrazia, non ha mai veramente funzionato.

Dalla parte opposta a quella militare c’è una coalizione civile molto sfaldata e in balia di scissioni interne: la FFC, Forces of Freedom and Change, in piedi da aprile 2019 (subito dopo la caduta di Omar al Bashir), composta da diverse sigle, dal Sudan Revolutionary Front alle organizzazioni professionali, al No to oppression against womenUna compagine nella morsa di diatribe interne. «Il movimento civile però gode di un forte appoggio popolare, a differenza di quello dei militari», dice la fonte.

In mezzo a tutto ciò sta un popolo affamato, stanco e senza futuro, che pende dalla parte di chi garantisce di risolvere la crisi dell’inflazione e di sbloccare i porti (che sono fermi da quando sono iniziati i disordini).

Il presidente deposto Omar al Bashir (foto wikimedia.commons)

«Il popolo sudanese sta tirando la cinghia da oltre un anno e soffre la fame, per questo è più facile far leva sul bisogno – spiega ancora la nostra fonte – La maggior parte della gente è tuttavia consapevole che il passaggio alla democrazia non è facile, ma bisogna andare avanti; quelli del movimento per la transizione civile e demicratica dicono “meglio morire di fame che tornare come eravamo sotto Bashir”».

Il timore è che alla fine l’esercito possa avere la meglio e il Sudan ritrovarsi con i generali al potere: «questione di tempo, io mi aspetto che i generali prendano in mano il Paese», dice chi vive nella capitale.

Lo spettro del dittatore Omar al Bashir aleggia su un intero popolo, nonostante il pericolo sia ormai scampato: accusato di crimini di guerra e contro l’umanità l’ex presidente sarà presto giudicato dalla Corte penale internazionale dell’Aja.

«Il suo entourage però è ancora una minaccia», spiega la fonte. E la società civile sudanese più accorta sa bene che tra i generali si annida la fazione pro-Bashir. Ma per le strade di Khartoum, come accennato, non sono scesi solo i sostenitori dell’esercito. Lo scorso 30 settembre è stata la volta della società civile che contesta le modalità e i rischi insiti in una presa del potere militare. E che non ha digerito il tentato golpe di un mese fa.

«L’obiettivo di questa marcia è proteggere la transizione democratica del Sudan e non c’è altro modo per farlo se non mettendo fine alla partnership con il Consiglio dei militari», dichiarava in quell’occasione un rappresentante dell’Associazione dei professionisti del Sudan.

Sta di fatto che nella ricorrenza della rivoluzione del 21 ottobre 1964, che vide la caduta del regime militare di allora, guidato da Abbud, il Paese vive uno dei periodi più bui degli ultimi anni. «La peggior crisi mai attraversata», così l’ha definita il primo ministro Abdalla Hamdok. E ha ben sintetizzato: «L’essenza di questa crisi è l’incapacità di raggiungere un consenso su un progetto di unità nazionale». Questo è dovuto – ha detto Hamdok – alle forti divergenze in corso «sia tra il blocco dei civili e quelli dei militari, che all’interno di ciascuna di queste compagini». Pagine Esteri

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*Giornalista professionista dal 2005, ha lavorato per dieci anni nelle agenzie di stampa, specializzandosi in economia internazionale e cooperazione allo sviluppo. Ha vissuto e lavorato a Bruxelles, New York e Gerusalemme. Da diversi anni si occupa di Africa, Medio Oriente e missione, scrivendo per testate cattoliche.