di Ilaria De Bonis* –

(Le foto si riferiscono alla manifestazione della scorsa settimana a favore del governo Hamdok, precedente al colpo di stato).

Pagine Esteri, 30 ottobre 2021 – «Il discorso pubblico del capo dell’esercito Buhran ha diviso gli animi, e forse questa è stata la sua mossa più furba. Adesso in molti a Khartoum dicono: “vediamo che governo propongono i militari e poi eventualmente scendiamo in piazza”. L’esercito in queste ore sta cercando di forzare il ritorno alla normalità, costringendo anche le scuole a riaprire e la gente a tornate al lavoro come sempre, perlomeno in periferia». Al-Buhran è voluto apparire rassicurante durante la conferenza stampa del 26 ottobre scorso, dicendo che i militari avrebbero solo evitato di trascinare il Paese diviso in una guerra civile. L’impressione di chi vive in Sudan, invece, è proprio l’opposto: «i militari hanno per mesi accentuato il divario tra civili e militari, trascinando in piazza quelli che definiscono loro sostenitori» solo per poter gridare al rischio guerra civile. Eppure la ferita aperta dai golpisti lo scorso 24 ottobre resta: la società civile democratica (la maggioranza della popolazione del Sudan) non è intenzionata a subire passivamente l’azione violenta dell’esercito.

Questo è quanto in sintesi ci racconta (internet ha funzionato fino a ieri, oggi le comunicazioni sembrano di nuovo bloccate, per cui non c’è stato un nuovo contatto) una fonte che vive da anni a Khartoum. Questi giorni di tensione ed incertezza precedono la grande manifestazione di oggi, quando un milione di persone dovrebbe scendere in piazza per opporsi al golpe militare e chiedere il ripristino del governo di transizione.

Il primo ministro Abdalla Hamdok, prelevato con forza da casa sua assieme alla moglie la notte del 24 ottobre scorso, è stato ricondotto ieri nella sua abitazione, ma è ancora agli “arresti domiciliari”. E non ha pronunciato parola. Arresti domiciliari è in realtà una espressione impropria, se si considera che i militari stanno tenendo in ostaggio un premier (e diversi ministri) a capo di una coalizione civile democratica che dal 2019 è incaricata (assieme ai rappresentanti dell’esercito) di trainare il Paese verso libere elezioni. Nonostante il tentativo da parte dei generali di ‘normalizzare’ la crisi e di ridimensionarne la portata, l’atto violento resta. E brucia.

«Si cerca di tornare alla normalità, ma continuano chiusure di ponti, strade, telefoni, internet», dice la fonte. Una ‘normalizzazione’ da parte dei militari che sa più di negazione del Colpo di Stato che non di una presa di coscienza della propria responsabilità; e che serve a rassicurare la comunità internazionale (in primis gli Usa) e ad evitare l’isolamento e le sanzioni economiche. Peraltro queste sono già arrivate.

La Banca Mondiale ha sospesi i suoi prestiti al Paese e gli Stati Uniti hanno messo in stand by il prestito di 600 milioni di euro che stanno elargendo a Khartoum. Le sanzioni economiche però non bastano, a fronte di un Consiglio di Sicurezza che non si è espresso all’unanimità. L’Unione Africana ha sospeso la membership del Sudan dal suo interno, condannando “fortemente” lo scippo di potere ritenuto anticostituzionale.

Le voci che abbiamo raccolto nei giorni scorsi dalla capitale (l’anonimato viene garantito a queste persone per motivi di sicurezza) parlano di un grave impatto della violenza sulla vita della gente comune: si tratta di una vicenda – preceduta da mesi e mesi di minacce ad Hamdok e di tensione – per la quale il Colpo di Stato rappresenta solo l’atto finale. Ed ha in ogni caso profondamente scosso e destabilizzato il Paese alla vigilia del cambio di presidenza. Ricordiamo che il 16 novembre prossimo sarebbe dovuta scattare l’alternanza alla guida del governo di transizione: i militari, cioè, avrebbero dovuto lasciare la presidenza per cederla ai civili, seguendo quella che è ormai una prassi, ossia un’alternanza alla guida prevista dall’accordo stipulato tra le due fazioni nel 2019, quando venne deposto il dittatore al-Bashir.

Eppure il caso sudanese, con la reazione della gente dopo il golpe (centinaia di persone sono scese in strada per protesta) e l’uccisione di una decina di oppositori non ha indignato più di tanto la comunità internazionale. O meglio: ha provocato una blanda reazione delle Nazioni Unite che hanno pubblicato ieri un comunicato; e della delegazione dell’Unione Europea a Khartoum (con il sostegno delle ambasciate di Francia, Germania, Italia, Olanda, Norvegia, Svezia, Svizzera, Regno Unito e Usa) che ha emesso un comunicato. Dove dice: «abbiamo preso nota del rientro del primo ministro Hamdok a casa, ma chiediamo l’immediata scarcerazione di tutti i detenuti politici». Restano nelle mani dei militari alcuni rappresentanti del governo. Parole, quelle dell’Europa, molto tiepide, anche laddove si dice: «confermiamo ancora una volta l’appello al ritorno immediato alla roadmap per la transizione democratica del Sudan, come indicato nel Constitutional Document e Juba Peace Agreement». Ma la società civile e il popolo libero del Sudan non sono ancora sufficientemente sostenuti dalle istituzioni internazionali, che preferiscono in generale confrontarsi direttamente ed indirettamente con interlocutori illegittimi (come sono i golpisti) che non con i rappresentanti del popolo. Pagine Esteri

*Giornalista professionista dal 2005, ha lavorato per dieci anni nelle agenzie di stampa, specializzandosi in economia internazionale e cooperazione allo sviluppo. Ha vissuto e lavorato a Bruxelles, New York e Gerusalemme. Da diversi anni si occupa di Africa, Medio Oriente e missione, scrivendo per testate cattoliche.