di Sara Alawia*

Pagine Esteri, 4 novembre 2021 – La recente designazione fatta dal ministero della difesa israeliano che classifica sei sei ong palestinesi umanitarie e di difesa dei diritti fondamentali come ‘organizzazioni terroristiche”, si inserisce in un modello più ampio di censure che contempla anche la comunicazione digitale e che coinvolge colossi quali Facebook, Twitter, Google e Amazon.  Oltre al costante lavoro di monitoraggio condotto dalle ong – tra i motivi per cui Israele ha deciso di ascrivere nella blacklist delle organizzazioni terroristiche – le politiche discriminatorie delle multinazionali del digitale sono state evidenziate dagli stessi dipendenti.

E’ il caso dei dipendenti di Google e Amazon, che lo scorso ottobre hanno indirizzato una lettera anonima al quotidiano The Guardian, evidenziando le ripercussioni del progetto multimiliardario Nimblus sulla popolazione palestinese. Il contratto, siglato a maggio, durante i bombardamenti da parte di Israele sulla Striscia di Gaza, prevede la fornitura di servizi di servizi cloud al governo israeliano. Secondo la denuncia, questa tecnologia rappresenterebbe una variante pericolosa dei normali servizi cloud, poiché permetterebbe un’ulteriore sorveglianza e una raccolta illegale di dati sui palestinesi, facilitando, ad esempio, l’espansione degli insediamenti coloniali israeliani in terra palestinese, illegali per il diritto internazionale. Il piano di espansione che solo pochi giorni fa ha visto l’approvazione da parte del ministero della giustizia israeliana di oltre 3mila alloggi nelle colonie.

All’inizio di quest’anno, diversi dipendenti di Facebook hanno espresso perplessità rispetto alle restrizioni sull’account Instagram del noto attivista palestinese Mohammed El-Kurd, durante l’escalation di violenza nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est. Secondo quanto riportato da Human Rights Watch, Facebook ha oscurato deliberatamente i contenuti pubblicati dai palestinesi che documentavano le violenze dei coloni e della polizia israeliana. Accusa che ha trovato conferma anche dalla decisione del Comitato per il controllo di Facebook, una commissione indipendente che si occupa di revisionare i casi di oscuramento all’interno del social network. Nonostante il colosso digitale dichiari di non avere ricevuto richiesta legale di censura dall’autorità governativa israeliana, la multinazionale si è rifiutata di fornire le altre informazioni richieste.

Per quanto la replica di Facebook sembri chiarire ogni dubbio sull’implicazione del governo israeliano, va considerato il ruolo della Cyber Unit all’interno del ministero della giustizia israeliano. Istituita nel 2015, la Cyber Unit è un’unità informatica volta ad affrontare le sfide del cyberspazio, con particolare attenzione ai social media. Le procedure del programma di sorveglianza, prevedono la stretta collaborazione con le piattaforme social, inclusi i colossi statunitensi Facebook e Twitter e si occupa di inviare richieste di rimozione dei contenuti aggiunti dagli utenti, limitare l’accesso a determinati siti Web e bloccare l’accesso degli utenti a questi siti. Al contrario dei tanti paesi in cui sono presenti queste unità (conosciute come Internet Referral Unit), in Israele il potere della Cyber Unit, stando alle informazioni disponibili, appare incontrollato e senza alcuna autorità legale. Il 26 novembre 2019 gli avvocati del centro legale Adalah, Fady Khoury e Rabea Eghbariah, hanno presentato alla Corte suprema israeliana la petizione contro la Cyber Unit, sottolineando che il meccanismo di “applicazione alternativa” della Cyber Unit viola i diritti costituzionali della libertà di espressione. Nella sua decisione, il tribunale ha autorizzato lo Stato di Israele ad utilizzare la sua Cyber Unit, privatizzando il processo giudiziario e consentendo alle società private di decidere sulla censura dei contenuti dei social media, sulla base di richieste apparentemente non vincolanti delle autorità statali israeliane.

La portata delle operazioni della Cyber Unit è aumentata da poche centinaia di richieste di rimozione durante il primo anno di attività a circa 15 mila nel 2018, secondo le relazioni annuali dell’Ufficio del Procuratore di Stato israeliano. Nella stragrande maggioranza dei casi, la Cyber Unit, scavalca le procedure legislative, facendo appello alle politiche di moderazione dei contenuti dei social media, bypassando così il tribunale e il diritto penale israeliano. Questo meccanismo alternativo permette all’unità di cyber sicurezza di agire nell’ombra, segnalando post e contenuti, senza che l’utente in questione ne sia a conoscenza. Secondo un rapporto del 2020 redatto dalla ngo 7amleh sulla cancellazione sistematica dei contenuti palestinesi, Il ministro della Giustizia israeliano, Ayelet Shaked, ha dichiarato che “Facebook, Google e YouTube stanno soddisfacendo fino al 95% delle richieste di Israele di eliminare i contenuti che secondo il governo israeliano incitano alla violenza palestinese”.

Tra le politiche di moderazione di Facebook vi è quella di considerare il termine “sionista” una minaccia per il popolo ebraico, ascrivendo il movimento sionista nella lista delle minoranze globalmente protette. Questa procedura consente al social network di sopprimere le critiche alle politiche che attua lo Israele nei confronti dei palestinesi sotto occupazione. Benché Facebook neghi ogni discriminazione tra palestinesi ed israeliani, questo non coincide con l’opinione degli utenti palestinesi, i quali hanno riportato interruzioni degli account personali. L’organizzazione per i diritti digitali Sada Social, nel solo mese di maggio, ha documentato più di 700 casi di censura da parte di Facebook, Twitter e Instagram. Le autorità israeliane sembrano giocare una partita a più livelli: da una parte utilizzano la censura come strumento di sorveglianza portando gli utenti anche ad autocensurarsi – il dispositivo di autodisciplina descritto da Foucault – dall’altro avanza, sotto gli occhi della comunità internazionale, piani di annessioni coloniali, modelli di apartheid in collaborazione con le multinazionali e, come se non bastasse, mette al bando organizzazioni non governative che si occupano di diritti umani. Davanti a un elenco di violazioni e abusi resta da capire se e come la comunità internazionale reagirà, in particolare per quanto concerne i meccanismi di enforcement che la stessa comunità si è data. Pagine Esteri.

*Laureata in Comunicazione con una tesi di ricerca sulla sorveglianza e le violazioni dei diritti digitali in Libano e in Palestina. Attivista internazionalista, appassionata di Medio Oriente, diritti umani e di tutto ciò che concerne il sociale