di Michele Giorgio

Pagine Esteri, 15 novembre 2021 – Un vortice di reazioni e commenti continua ad accompagnare il faccia a faccia che il presidente siriano Bashar Assad ha avuto il 9 novembre con il ministro degli esteri degli Emirati, Abdullah bin Zayed al Nahyan. È stata la prima missione ufficiale di un alto rappresentante di Abu Dhabi a Damasco dal 2011, anno di inizio della guerra in Siria. La visita segue il colloquio telefonico del 20 ottobre tra Mohamed bin Zayed al Nahyan, principe ereditario di Abu Dhabi, e Assad, in cui i due leader avevano parlato di relazioni bilaterali, delle aree di cooperazione tra Siria ed Emirati e degli sforzi per rafforzare il legame tra i due paesi e i due «popoli fratelli». Le due parti hanno già firmato un accordo per la realizzazione di un impianto fotovoltaico dalla capacità di 300 megawatt vicino a Damasco. L’aiuto, non solo diplomatico, offerto da Abu Dhabi è ossigeno puro per la Siria stretta nella morsa delle sanzioni approvate nel 2020 da Washington (Caesar Act) e della crisi economica che devasta il paese, sempre alle prese con la pandemia e dove la ricostruzione non è cominciata a causa dell’opposizione degli Stati uniti e dell’Europa.

Dopo la ripresa di pieni rapporti tra Siria e Giordania avvenuta tra settembre ed ottobre, il passo degli Emirati è visto dalle parti schierate con la Siria come un via libera al rientro di Damasco nella Lega araba e una legittimazione della leadership di Assad che per anni ha vacillato sotto i colpi del conflitto nel paese. Per chi ha lavorato negli anni passati proprio alla caduta di Assad, l’attivismo diplomatico di Abu Dhabi, alleata di ferro degli Stati Uniti e di Israele, rappresenta una sorta di piano B. Riabbracciando la Siria, il fronte arabo anti-Iran pensa di poter strappare Assad dalle braccia di Tehran. Una possibilità che, scrivono alcuni commentatori arabi, non dispiacerebbe al presidente siriano: l’allentamento del rapporto con l’Iran potrebbe vedere un alleggerimento delle sanzioni occidentali contro il suo paese. Anche Mosca alleata di Assad gradirebbe relazioni meno strette tra Damasco e Tehran. In questi giorni circola nei media arabi (e israeliani) la storia secondo la quale Assad avrebbe espulso il comandante in Siria dei Guardiani della rivoluzione iraniana, Jawad Ghafari, a causa dell’«iperattività» militare della Forza Quds che starebbe aggravando il conflitto con Israele.

Ma sono solo voci. Ai più appare impossibile che Assad, soggetto a sanzioni durissime e all’isolamento internazionale, possa rinunciare, senza avere alcuna certezza in tasca, al patto strategico con l’Iran che, nel bene e nel male, tiene in vita la Siria. A dirlo sono indirettamente gli Stati uniti che hanno espresso preoccupazione e non certo soddisfazione per la ripresa dei rapporti tra Abu Dhabi e Damasco. «Siamo preoccupati per il segnale che invia questo incontro (Siria-Emirati), ha detto il portavoce del Dipartimento di Stato, Ned Price «questa Amministrazione non esprimerà alcun sostegno agli sforzi per normalizzare o riabilitare Bashar al Assad». Altrettanto «preoccupato» dalle mosse fatte dagli alleati emiratini è anche Israele che sta intensificando i raid aerei contro la Siria. Preoccupazioni che non scuotono più di tanto gli Emirati. Attraverso i giornali, Abu Dhabi fa capire di essere decisa a diventare la protagonista della diplomazia mediorientale, a svantaggio dei cugini sauditi.

A Tehran sono divisi sul giudizio da dare alla normalizzazione tra Emirati e Siria. I moderati che sono più prudenti nelle valutazioni. I falchi invece descrivono questo sviluppo come una vittoria per «l’Asse della Resistenza» che comprende Iran, formazioni militanti sciite irachene e yemenite, Hezbollah libanese e la leadership di Bashar Assad. Credono che se l’isolamento economico e politico di Damasco finisse, Tehran potrebbe usare la Siria per aggirare le sanzioni statunitensi. Ciò che, in effetti, temono a Washington e Tel Aviv. Pagine Esteri