Basil al-Adraa +972 Magazine

traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti*

Raggiungo il checkpoint di Meitar nel sud della Cisgiordania alle cinque del mattino di domenica, poco prima dell’alba. Centinaia di lavoratori palestinesi stanno camminando in fretta, comprando falafel o pane da decine di bancarelle di fortuna nel mercato che è sorto intorno al valico. Incontro insegnanti, laureati, avvocati e ingegneri, tutti con un permesso di lavoro e tutti in fila per andare a lavorare nelle fabbriche in Israele.

A cento metri dal checkpoint custodito c’è un passaggio non ufficiale: una breccia nel muro di separazione dove ogni giorno centinaia di palestinesi senza permesso entrano ed escono da Israele. Tra i due valichi ci sono le jeep della polizia di frontiera israeliana e i soldati possono vedere tutto. Da qui è chiaro che la barriera che serpeggia attraverso la Cisgiordania occupata è lì solo per imporre la segregazione razziale, non per la sicurezza, dal momento che chiunque può andare e venire a suo piacimento. L’esercito ne è pienamente consapevole, ma sceglie di chiudere un occhio.

La società palestinese si è aggrappata per generazioni all’istruzione come mezzo per mantenere la propria identità collettiva, nonché per resistere all’occupazione israeliana. Si tratta di una società relativamente molto istruita, con alti tassi di laureati sia in Cisgiordania che nella striscia di Gaza.

Ma tra le decine di giovani istruiti con cui ho parlato a Meitar e altrove c’è la sensazione diffusa che perseguire un’istruzione superiore sia inutile. Dopo aver dedicato anni e denaro per diventare economisti, ingegneri o medici hanno scoperto che l’unico modo per guadagnarsi da vivere è lavorare come operai nei cantieri edili israeliani.

Gli amici con cui parlo si sentono in colpa per il fatto che lavorano in Israele, anche nelle colonie in Cisgiordania dove abitano i vigilanti mascherati che ci attaccano regolarmente. Cercano di gestire questo senso di colpa dandosi varie spiegazioni. “Non abbiamo molte altre opzioni,” mi dice uno di loro. “Mi sentirei in colpa se fossi disoccupato e me ne stessi seduto a casa”, dice un altro. “Viviamo in una terra occupata. Tutto ciò ci è imposto. Persino la mia carta d’identità palestinese ha un timbro ebraico. Perché dovrei sentirmi in colpa?” dice un terzo.

Saleh Abu Jundeya, 22 anni, vive nel villaggio di Tuba tra le colline a sud di Hebron. Fin dalla prima elementare i soldati israeliani lo hanno accompagnato lungo il percorso verso la scuola, un percorso che richiede l’attraversamento dell’avamposto di Havat Ma’on dove i coloni attaccano regolarmente gli scolari. La casa di Abu Jundeya, come il resto del villaggio, è minacciata di demolizione. Tuba è completamente scollegato dalle reti di qualsiasi infrastruttura idriche e elettriche, servizi forniti invece dalle autorità israeliane ai numerosi avamposti sulle colline a sud di Hebron. Ma Abu Jundeya è molto volenteroso e ce l’ha fatta nonostante tutte le difficoltà.

“I miei genitori erano orgogliosi di me,” dice. “Ho fatto bene agli esami per l’iscrizione all’università, quindi hanno organizzato una grande festa per me. A 18 anni sono andato a studiare legge all’università. Sognavo di diventare un avvocato per difendere i diritti dei miei genitori e quelli di tutti i miei vicini di Masafer Yatta che affrontano demolizioni di case, arresti e che sono senza acqua ed elettricità. Questo è particolarmente importante per me, forse perché ero un bambino che doveva aspettare che i soldati lo accompagnassero a scuola ogni giorno fino a 18 anni o altrimenti essere attaccato dai coloni: è stata dura. Ho studiato legge per quattro anni. Andare all’università ogni mattina è stata una sfida perché a Tuba l’esercito ci impedisce di asfaltare le strade e la mia famiglia è povera. Studiare legge in Cisgiordania costa circa 10.000 NIS [circa 2.800 €] all’anno e mia madre e mio padre, entrambi pastori, hanno dovuto vendere le pecore per finanziare i miei studi. E oggi? Lavoro nell’edilizia in Israele, come tutti i miei compagni di classe. Non c’è nessun altro lavoro. Non abbiamo nemmeno un posto dove fare il praticantato”.

La nostra dipendenza dal lavoro in Israele è politica

Le autorità israeliane hanno proibito per anni la costruzione di scuole a Masafer Yatta con l’intenzione di espellerci dalla zona. A quel tempo  i bambini semplicemente non studiavano. I genitori di mio padre Saleh e il resto della generazione prima di noi non hanno avuto la possibilità di studiare. Pochi hanno fatto il lungo viaggio verso le grandi città dove si trovavano la maggior parte delle scuole e la campagna non offriva luoghi di apprendimento.

Nel 1998, grazie a una lotta guidata da mia madre e mio padre, nel mio villaggio natale di a-Tuwani è stata costruita la prima scuola a Masafer Yatta. Quando è iniziata la costruzione l’esercito israeliano è venuto ad arrestare gli uomini del villaggio mentre stavano lavorando e ha confiscato i materiali da costruzione. Pochi mesi dopo mia madre ebbe un’idea: lasciare che le donne costruissero, dato che l’esercito non le avrebbe arrestate. Ed è proprio quello che è successo: le donne lavoravano di giorno per allestire la scuola e gli uomini continuavano di notte.

Humza Rabi ha frequentato la scuola in a-Tuwani e si è diplomato con lode. “Poi  sono andato all’università per completare un corso di laurea in storia”, ha detto. “Sognavo di essere uno storico o forse una guida turistica. Ho lavorato senza sosta durante le vacanze estive per mantenermi agli studi. Anche mio padre mi ha aiutato. È costato 50.000 NIS  (circa 14.000 €) in quattro anni. Non è stato affatto facile. Ma oggi, dopo la laurea, mi sento come se avessi perso tempo. Mi guardo intorno e, come tutti gli altri laureati, non ho modo di trovare un lavoro. Così sono diventato un  piastrellista in Israele. Le condizioni sono difficili. Non c’è sicurezza: un mese fa sono caduto dalla secondo piano mentre lavoravo, mi sono rotto le costole e ho riportato uno strappo muscolare. Oggi sono  a casa disoccupato”.

Rabi non è solo. Secondo l’Ufficio centrale di statistica palestinese, i palestinesi tra i 20 e i 29 anni con un diploma di laurea registrano tassi di disoccupazione particolarmente alti: il 35% in Cisgiordania e il 78% a Gaza, che subisce il blocco totale da parte di Israele ed Egitto.

La nostra dipendenza dal lavoro in Israele è politica. Mezzo secolo di governo militare israeliano ha devastato l’economia palestinese. Israele controlla tutti i nostri valichi di frontiera e impedisce le importazioni o le esportazioni palestinesi indipendenti. Tutte le nostre risorse naturali,  come i minerali del Mar Morto, le cave, le aree agricole e i bacini idrici  si trovano nell’Area C, sotto il pieno controllo militare israeliano: ci è proibito accedervi, svilupparli o prendercene cura. Uno studio condotto dalla Banca Mondiale ha rilevato come queste restrizioni siano la principale barriera alla prosperità e alla creazione di posti di lavoro per i giovani palestinesi. Senza sovranità sugli spazi non urbanizzati la contiguità territoriale palestinese è stata spezzettata in 169 enclave, senza lasciare spazio nemmeno alla creazione di zone industriali.

La terra nell’Area C è assegnata esclusivamente ai coloni israeliani che vi mantengono un’economia vivace e redditizia. Con il sostegno degli enti governativi, i coloni continuano a creare zone industriali e complessi agricoli che sono collegati a quelle stesse reti idriche negate ai contadini palestinesi in luoghi come Masafer Yatta. I soldati israeliani sigillano regolarmente le nostre cisterne d’acqua con il cemento. Senza acqua o strade di accesso gli agricoltori non possono più guadagnarsi da vivere sulla loro terra e molti sono invece costretti a lavorare come braccianti in Israele. A causa delle politiche di occupazione anche i pastori palestinesi si stanno lentamente rivolgendo ai lavori di costruzione in Israele Negli anni ’80 Israele ha espropriato tutti i pascoli dei pastori dichiarandoli “terre demaniali”. Ma negli ultimi cinque anni le autorità israeliane hanno stabilito e autorizzato dozzine di avamposti e fattorie su queste terre, concedendole come pascoli ai coloni che praticano la pastorizia. In questa realtà di apartheid i nuovi signori della terra aiutano ad espellere i palestinesi che sono qui da secoli.

“Mi sveglio alle 3 del mattino e vado a costruire case in Israele”

Lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interna di Israele, usa i permessi di ingresso come mezzo per fare pressione sui giovani palestinesi affinché tengano la testa bassa. Gli attivisti che come me sono sulla lista nera dello Shin Bet non riceveranno mai un permesso. Temendo per il loro benessere molte persone della mia età scelgono di tacere sulle loro opinioni politiche e costruiscono case nelle colonie israeliane per guadagnarsi da vivere.

Eppure molti, se non la maggior parte, dei giovani laureati non riescono a ottenere il permesso. Secondo le autorità israeliane solo gli uomini palestinesi sposati di età superiore ai 22 anni possono ottenerlo. In pratica i giovani palestinesi entrano continuamente in Israele illegalmente, nel disperato tentativo di racimolare abbastanza soldi per sposarsi e mettere su famiglia.

L’esercito israeliano sa che ci sono dozzine di varchi lungo il muro di separazione. Ma la sua inazione è deliberata: è una politica redditizia che permette ai palestinesi di raggiungere i datori di lavoro israeliani che, per i propri interessi, possono negare ai lavoratori i loro diritti mantenendo bassi i salari.

Salem al-Halis ha studiato legge con me all’Università di Hebron e lo ricordo come uno degli studenti migliori della classe. Ora però sta lavorando nell’edilizia. “È come una prigione,” mi ha detto al telefono. “Mi sveglio alle 3 del mattino e vado a costruire case in Israele. Ricordo i nostri studi e rido di me stesso e di quello che pensavo. Mangio e dormo al lavoro, nel cantiere. Lontano dalla vita. Lontano dalla famiglia.”

Come Salem, anch’io non riesco a trovare lavoro in Cisgiordania, mentre la mia laurea in legge è coperta di polvere nell’armadio. Ho paura di diventare, come lui, un altro giovane palestinese che eccelle all’università solo per diventare un operaio edile, soffrendo sotto un datore di lavoro israeliano che non ha mai studiato un giorno in vita sua.

*Zeitun.info https://zeitun.info/2021/11/12/avrebbero-dovuto-essere-avvocati-invece-lavorano-nei-cantieri-edili-israeliani/