di Caterina Maggi* –

Pagine Esteri, 13 dicembre 2021“Bedoon jinsiyya”, li chiamano, letteralmente, “senza”; nel senso che non hanno una nazionalità e un posto da chiamare patria, non hanno una terra di provenienza da mostrare su un documento. Ma i Bedoon non sono sempre stati così, persi in un limbo politico e storico. E ora chiedono di essere riconosciuti cittadini di uno stato, il Kuwait, che fin dalla sua indipendenza li ha condannati al destino indefinito e incerto dei popoli senza terra o nome.

La minoranza dei Bedoon è in realtà ben poco minoranza, soprattutto se paragonata al complesso degli apolidi in tutto il mondo e soprattutto considerando che rappresenta un terzo della popolazione del Kuwait, la monarchia del Golfo resasi indipendente dalla Gran Bretagna nel 1961 e governata in modo anomalo – non è stata infatti rispettata la tradizionale alternanza tra i due rami della dinastia Al-Sabah – dal casato Al Jaber Al-Sabah. Si tratta infatti del maggior gruppo di cittadini senza un luogo sulla carta di identità, circa 150/200 mila persone dislocate in parte (circa 100 mila) in campi profughi nel deserto al confine con l’Iraq, mentre i restanti vivono tra i cittadini del Kuwait ma senza godere a loro volta dei diritti civili, come cittadini di serie Z.

In realtà i Bedoon della diaspora dispersi in tutta l’area Mena (Medio Oriente e Nord Africa) sono circa 500 mila, di cui alcuni hanno trovato asilo anche negli Emirati Arabi e in Arabia Saudita, ma sempre senza un documento di identità che possa attestare la loro cittadinanza e, quindi, con cui possano far valere i loro diritti civili. Il problema dei Bedoon, come quello di tante popolazioni autoctone dell’area, nasce con la decolonizzazione e la spartizione del territorio, un tempo sotto il controllo britannico, in entità statali studiate a tavolino, dai confini perfettamente geometrici che non rispecchiano il pullulare di minoranze e diversità. I bedoon hanno più volte, soprattutto dal 1986 (anno della promulgazione dell’Atto sui cittadini stranieri che li ha resi “residenti illegali”) ad oggi, chiesto al governo del Kuwait di ricevere per lo meno la cittadinanza. Lo staterello ha risposto che solo 34 mila dei 100 mila bedoon di cui ha notizia potrebbero ottenerla, mentre gli altri non possono essere considerati tali visto che, agli occhi di Al Kuwait, sono immigrati da aree limitrofe o loro discendenti. Ha inoltre iniziato una pesante campagna di ghettizzazione, pulizia etnica e diffamazione, come nel caso dell’invasione irachena del Kuwait, quando l’emiro incolpo della capitolazione del reame i volontari bedoon che si erano arruolati nell’esercito.

Il documento di identità è un problema particolarmente serio, perché consente l’accesso a tutta una serie di diritti fondamentali: l’istruzione, il matrimonio, la successione di beni, l’apertura di attività – ma anche l’accesso ai servizi sanitari. Immaginate quante cose riuscite a fare, ogni giorno, grazie a un documento: viaggiare, accedere a servizi pubblici (anche una comunissima biblioteca), studiare. Immaginate ora come sarebbe la vostra vita, se non aveste un pezzo di carta che vi permettesse di fare tutto questo. È per questo che, esasperato dalla frustrazione per non poter accedere ad uno dei più preziosi diritti umani e civili, quello allo studio, un giovane bedoon di vent’anni di nome Ayed Hamad Moudath si è suicidato, a inizio luglio 2019. Non era la prima volta che avveniva un evento di così tragica portata: nel 2017 un altro uomo bedoon si diede fuoco in segno di protesta. La risposta della corona al gesto estremo di Ayed e all’ondata di proteste che hanno travolto l’esecutivo è stato l’arresto, tra l’11 e il 14 luglio 2019, di decine di dissidenti e sostenitori dei diritti dei bedoon, cui è stata mossa l’accusa di diffondere false notizie, attentare alla sicurezza di paesi alleati e chiamata all’adunanza pubblica.

In due anni poco o nulla è cambiato, almeno nei fatti. La pandemia ha anzi peggiorato la situazione di questa minoranza, costretta per forza di cose all’economia sommersa (proprio uno dei settori più colpiti da restrizioni come il lockdown) e impossibilitata ad accedere ai servizi di assistenza sanitaria. Non solo. La stragrande maggioranza dei bedoon ancora presenti in Kuwait vive nelle città di Taima e Sulaibiyah, in quartieri popolari fantasma, poco o nulla collegati al resto della città, in appartamenti fatiscenti dove possono risiedere anche due o tre gruppi famigliari. Una situazione di sovraffollamento che amplifica il contagio da SarsCoV2, cui va a sommarsi la difficoltà di raggiungere strutture sanitarie, centri di test e di accedere alle procedure vaccinali. Inoltre, la loro condizione senza documenti, quindi con un difficile accesso a lavori che prevedano una forma minima di tutela  li ha gettati nelle fauci di strozzini e sfruttatori, spesso nel settore dell’edilizia dove vengono assunti da appaltatori a salario ridotto rispetto agli altri kuwaitiani e in condizioni decisamente peggiori. Anche sul piano della salute mentale hanno risentito più di altri l’impatto della pandemia, aumentando a dismisura il tasso di suicidi soprattutto tra giovani e giovanissimi. Nel febbraio 2021 un ragazzo bedoon di appena 12 anni, Ali Khaled, è morto suicidandosi in casa sua; un mese dopo un ventiseienne, Yaqoub Abdullah, ha fatto lo stesso.

Una cosa però il Covid ha permesso: ha aperto ai Bedoon una breccia nel cuore del rifiuto kuwaitiano delle loro richieste. Con il propagarsi della pandemia nel regno – si stima che in Kuwait siano morti almeno 2466 cittadini ma si tratta di dati spesso approssimati per difetto – decine di bedoon hanno accolto l’appello del ministero della Sanità e si sono candidati come infermieri e medici volontari. Un gesto che ha messo a rischio le loro vite, ma che ha anche promosso le loro idee agli occhi dell’opinione pubblica locale e globale. Dopo un altro picco di contagi conseguente alla variante delta, nel luglio 2021, hanno iniziato a diffondersi sui social hashtag in arabo che invitavano il governo di Al Jaber a riconoscere loro la cittadinanza in virtù dei servizi offerti allo stato – ad esempio “Assumete infermieri e medici bedoon” come richiamo a non lasciare di nuovo per strada ma offrire invece un impiego pubblico ai sanitari. Questa volta, dopo anni di repressione del dissenso, diversi esponenti politici – come Thamer al-Suwait portavoce dei deputati all’Assemblea Nazionale – hanno chiesto un riconoscimento ufficiale di questa minoranza, cui ha risposto per via traversa l’account Twitter dell’istituzione che ha confermato che l’Assemblea è al lavoro e dovrebbe presentare i risultati entro il termine delle prossime legislative. Forse, anche grazie al Covid, c’è un barlume di speranza per un popolo “senza” tante illusioni. Pagine Esteri

*Laureata in Lettere all’Università di Genova e diplomanda alla Scuola di Giornalismo di Bologna, giornalista praticante presso l’Istituto Affari Internazionali, si appassionata fin da giovanissima alla questione palestinese e al Medio oriente. Scrive per il sito online Affarinternazionali.