di Valeria Cagnazzo*

Pagine Esteri, 7 febbraio, 2022 – E’ un golpe militare l’esito di un lungo periodo di malcontento e di rivolte popolari nel “Paese degli uomini integri”. Nella notte del 24 gennaio scorso l’esercito burkinabé ha occupato il palazzo presidenziale di Ouagadougou e deposto il Presidente Roch Marc Kaboré, in carica dal 2015. A guidare il golpe il “Movimento Patriottico per la Salvaguardia e la Restaurazione”, il cui leader, il colonnello Paul Henri Sandaogo Damiba, è diventato Presidente del Burkina Faso e capo delle forze armate del Paese. Nelle ore frenetiche del colpo di Stato, tra arresti violenti e colpi di arma da fuoco per le strade e sui veicoli presidenziali, anche Kaboré è stato prelevato e condotto in arresto in un luogo segreto. Secondo fonti interne al suo partito, il Movimento del popolo per il progresso, sarebbe in buone condizioni di salute sorvegliato da un gruppo di militari in una villa presidenziale.  Si è conclusa insieme a lui la prima esperienza democratica del Burkina Faso dopo la dittatura quasi trentennale di Kompaoré.

Paul Henri Sandaogo Damiba

Solo un giorno prima, sul suo account Twitter l’ex Presidente si era congratulato con la nazionale di calcio del Paese per essersi qualificata ai quarti di finale della Coppa d’Africa. I festeggiamenti dei tifosi nelle piazze erano stati tuttavia l’ennesima occasione per chiedere le sue dimissioni. Due giorni prima, ancora una volta, una manifestazione di protesta era stata repressa violentemente dall’esercito. Il 13 gennaio, un tentativo di colpo di stato era stato arginato insieme alla repressione delle proteste e al transitorio oscuramento, non il primo negli ultimi mesi, dei social media. Il “bravò” di Kaboré alla squadra del Burkina Faso non poteva mascherare una tensione nel Paese che era ormai diventata incendiaria. Non ha destato troppo stupore quindi che in una domenica di gennaio quello che sembrava inizialmente l’ammutinamento di un manipolo di militari si sia trasformato nel golpe definitivo per la sua presidenza. Da mesi il Paese versava in un’instabilità e un’insofferenza che Kaboré non riusciva più a trattenere, se non a colpi di promesse e di repressioni violente. Quando i confini del Burkina Faso sono stati chiusi ed è stato annunciato il coprifuoco dalle 21.00 alle 5.00, a gran parte dei burkinabé la presa di potere da parte dei militari è apparsa come la naturale evoluzione politica di una situazione che non era più sostenibile.

Tra le principali accuse all’ex Presidente ci sono l’incapacità di arrestare la crescente minaccia jihadista nel Paese e di difendere la popolazione dal terrorismo, soprattutto nelle aree più lontane dalla capitale. Gli uomini dello Stato Islamico e di Al-Qaeda hanno, infatti, assunto crescente potere a partire dal 2015 e né il governo burkinabé né la Francia, che nel Sahel ha lasciato un suo contingente militare proprio in chiave anti-terroristica, sono stati in grado di frenarli. Oltre 2.000 persone hanno perso la vita in attacchi terroristici e più di 1,2 milioni sono gli sfollati a causa delle violenze jihadiste. “Abbiamo bisogno di un uomo forte con le idee chiare”, ha dichiarato ai media un ufficiale dell’antiterrorismo all’indomani del golpe militare.

Vittime del jihadismo non sono solo i civili burkinabé, e qui subentra l’altro motivo fondamentale della rabbia portata nelle strade del Paese negli ultimi mesi: l’altra colpa di Kaboré sarebbe quella di non aver tutelato l’esercito. Salari insufficienti, condizioni poco dignitose nelle caserme ed equipaggiamenti inadeguati per combattere contro la vasta e imprevedibile minaccia jihadista nel Sahel: la strage del campo militare di Inata, dove almeno 49 militari sono stati uccisi lo scorso 14 novembre, ha dimostrato in maniera definitiva la fragilità dell’esercito e il rischio costante al quale è costantemente esposto. Le rivolte che hanno infiammato le strade del Burkina Faso da quel giorno chiedevano le dimissioni del Presidente anche in nome della tutela della dignità e della salvaguardia dei soldati burkinabé.

A peggiorare le cose, il caro prezzi in un Paese al 179° posto nel mondo per PIL pro capite, la corruzione in tutti i settori economici e politici, eredità del governo precedente, e la repressione del malcontento espresso dal popolo non solo con la violenza nelle strade ma anche con ciclici episodi di oscuramento dei social e interruzioni sospette della connessione a internet. Dopo mesi di proteste e anni di malcontento popolare, la corda doveva inevitabilmente spezzarsi.

Con il colpo di Stato del 24 gennaio, la Costituzione è stata momentaneamente sospesa ed è stata sciolta l’Assemblea nazionale, ma già una settimana dopo, la sera del 31 gennaio, in diretta nazionale un militare del “Movimento Patriottico per la Salvaguardia e la Restaurazione” ha annunciato il ripristino dell’ordine costituzionale, della presunzione d’innocenza e dell’indipendenza della magistratura nel Paese. Con un “atto fondamentale” costituito da 37 articoli, il nuovo governo si è posto in continuità con il governo democratico precedente, proponendosi come un ponte di transizione verso un nuovo governo da eleggere con libere elezioni, più forte e più autorevole nella lotta al terrorismo. Anche le accuse avanzate nei confronti della nuova giunta di una vicinanza con l’ex dittatore Kompaoré e col suo Capo di Stato Maggiore Gilbert Dienderé, tra gli imputati per l’omicidio di Thomas Sankara, sono state respinte dal nuovo governo militare. E’ stata anzi annunciata la ripresa del processo per l’uccisione di Sankara, avviato nel 2021 a trentaquattro anni dalla morte dell’ex presidente ed eroe nazionale, momentaneamente sospeso a causa dell’instabilità politica.

Il Segretario Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha intanto condannato il colpo di Stato e invitato la nuova giunta militare a salvaguardare “la protezione e l’integrità fisica” del presidente Kaboré. L’alto commissariato Onu per i diritti umani ha, inoltre, richiesto, all’indomani del golpe, la liberazione immediata di Kaboré. “Di fronte alle minacce alla sicurezza e alle enormi sfide umanitarie che il Paese affronta, è più importante che mai garantire il pieno rispetto dello stato di diritto”, ha dichiarato Ravina Shamdasani, portavoce dell’alto commissariato per i diritti umani.

Anche l’Ecowas ha condannato il golpe. La Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale, nata nel 1975, che unisce quindici Stati dell’Africa dell’ovest, tra i quali Mali, Niger, Senegal, ha dichiarato il suo supporto all’ex presidente Kaboré. Il 28 gennaio scorso il Burkina Faso è stato ufficialmente espulso dall’organizzazione. Lo stesso trattamento avevano già ricevuto negli scorsi mesi il Mali, il 30 maggio del 2021, e la Guinea, l’8 settembre dello stesso anno. Quello in Burkina Faso, infatti, è già il terzo golpe militare nella regione nell’arco di nove mesi. Già Mali e Guinea sono stati sottoposti a sanzioni economiche da parte degli altri Paesi dell’Ecowaas e lo stesso destino si prospetta per il Burkina Faso. Secondo molti commentatori, tuttavia, le sanzioni non farebbero che rafforzare il sostegno popolare nei confronti del nuovo governo militare, oltre che colpire ulteriormente una popolazione già allo stremo.

Il Paese sta già attraversando, infatti, una crisi umanitaria che un cambio di governo e una sospensione delle sue recenti e ancora immature conquiste democratiche potrebbero ulteriormente peggiorare. Come denunciato anche da Medici Senza Frontiere, in uno Stato in cui gran parte della popolazione vive con meno di un dollaro e mezzo pro capite, ci si deve già costantemente confrontare con la siccità e la mancanza di cibo, oltre che con la costante minaccia terroristica e il dramma degli sfollati interni ed esterni sempre in aumento, con la difficoltà nell’accesso alle cure e la carenza di medici nel Paese. La delegittimazione del governo e una nuova fase di transizione in mano ai militari verso un governo ignoto potrebbero ulteriormente indebolire il Paese e offrire il fianco al jihadismo, che sull’instabilità politica della regione ha costruito buona parte del suo potere. La definitiva frattura con la Francia, l’ex potenza coloniale della zona, potrebbe tra l’altro aprire la strada a nuovi Paesi come la Cina e la Turchia per espandere la propria influenza nell’area, ricca di giacimenti, tra i quali la via dell’oro saheliana. I burkinabé, intanto, applaudono alla caduta del Presidente e a una nuova speranza di riscatto contro il terrorismo. Non resta che aspettare insieme a loro, accanto a loro, quello che questo incerto futuro prossimo avrà da mostrare. Pagine Esteri

*Valeria Cagnazzo (Galatina, 1993) è medico in formazione specialistica in Pediatria a Bologna. Come medico volontario è stata in Grecia, Libano ed Etiopia.  Ha scritto di Palestina su agenzie online, tra cui Nena News Agency, anche sotto pseudonimo. Sue poesie sono comparse nella plaquette “Quando un letto si svuota in questa stanza” per il progetto “Le parole necessarie”, nella rivista “Poesia” (Crocetti editore) e su alcune riviste online. Ha collaborato con il Centro di Poesia Contemporanea di Bologna. Per la sezione inediti, nel 2018 ha vinto il premio di poesia “Elena Violani Landi” dell’Università di Bologna e il premio “Le stanze del Tempo” della Fondazione Claudi, mediante il quale nel 2019 ha pubblicato la sua prima silloge poetica, “Inondazioni” (Capire Editore). Nel 2020, il libro è stato selezionato nella triade finalista del premio “Pordenone legge – I poeti di vent’anni”.