di Giovanna Gasparello –

Pagine Esteri, 18 febbraio 2022 – L’asteroide che, circa 65 milioni di anni fa, impattò sulla superficie terrestre nel nord della penisola dello Yucatan, oltre a provocare cambiamenti climatici che portarono all’estinzione dei dinosauri, causò una trasformazione profonda del suolo circostante al cratere, un avvallamento di circa 180 km. di diametro il cui centro si trova nei pressi del villaggio di Chicxulub. Nelle ere successive, proprio sul bordo del cratere, nel suolo carsico si formarono migliaia di cenotes, grotte sotterranee e profonde doline, aperte o chiuse, collegate alla falda acquifera e che contengono acqua dolce: si tratta del Gran Anello di Cenotes, che disegna un semicerchio perfetto nella geografia della selva maya. Fenomeno geologico unico al mondo, i cenotes costellano tutta la penisola dello Yucatan, ma solo nel Gran Anello se ne contano migliaia; per tal motivo la regione é stata dichiarata nel 2013 come Riserva Geoidrologica Statale e area naturale protetta.

In un territorio completamente privo di corsi d’acqua superficiale, i cenotes sono stati storicamente l’unica fonte di approvvigionamento d’acqua dolce per il consumo umano e per uso agricolo. La loro caratteristica liminale, che unisce la superficie terrestre con l’inframondo, e l’elemento acquatico che, sorgendo dal ventre della terra, rappresenta la fertilità e la vita stessa, fanno sì che i cenotes siano considerati luoghi sacri nella cultura maya antica ed in quella attuale. Ogni cenote è abitato da uno spirito guardiano, il suo dueño, a cui è necessario chiedere permesso per entrarvi o attingere acqua. “Ci entriamo con rispetto, con reverenza, come quando entriamo nella casa di una persona importante. Fino a qualche decennio fa potevano acceder ai cenotes solo i sacerdoti e medici tradizionali”, spiega José May, fondatore del collettivo K’anan Ts’onot, Guardiani dei Cenotes in lingua maya. La maggior parte dei cenotes custodisce nel fondo i resti di offerte votive risalenti all’epoca della cultura maya antica e tuttora vi si svolgono cerimonie come il ch’a’ cháak, rituale propiziatorio celebrato poco prima dell’inizio della stagione delle piogge.

“I cenotes sono fonte di vita, però mai avremmo pensato di vivere letteralmente grazie ai cenotes, fino a quando abbiamo scoperto l’opportunità dell’ecoturismo”, afferma Doroteo Hau, dirigente di K’anan Ts’onot e abitante del villaggio di Homún. Gli indigeni maya dello stato dello Yucatan ormai da più di un secolo hanno abbandonato la tradizionale agricoltura di autoconsumo; a principio del XX secolo sono stati incorporati massivamente come braccianti agricoli nella produzione dell’henequén, agave da cui si ricavavano fibre per cordami industriali. L’avvento delle fibre sintetiche provocò il declino della produzione, con due importanti conseguenze: i grandi latifondi divennero improduttivi e i braccianti abbandonarono la comunità e cercarono occupazione nelle nascenti fabbriche e nel settore della costruzione, o migrarono verso gli Stati Uniti. Uno dei settori verso cui si orientò la riconversione produttiva fu l’agroindustria, ed in particolare gli allevamenti di pollame, di bovini e di suini.

I villaggi di Homún e Cutzamá si trovano proprio sul “perimetro” del Gran Anello di Cenotes: sul territorio gli abitanti ne hanno contati più di 500. Dopo la crisi dell’henequén l’economia locale languiva, fino a quando, verso la metà degli anni 2000, ad un contadino di Cutzamá venne in mente di promuovere il cenote che sorge nel suo terreno come un’attrazione per i turisti interessati alle bellezze naturali. La cosa funzionò ed in poco tempo vennero aperti al pubblico vari cenotes, creando un interessante modello di turismo autorganizzato su base comunitaria che presto venne ripreso dal vicino villaggio di Homún. Per meno di tre euro, quota unica per l’ingresso ad un cenote, il visitatore accede ad un’esperienza magica: nuotare nell’acqua cristallina all’interno di grotte con enormi formazioni di stallatiti e stalagmiti. “Direttamente o indirettamente più del 50% della comunità vive del turismo, circa 5000 persone. C’è chi ha aperto un ristorante, chi affitta stanze, chi vende artigianato. E poi i ragazzi con i mototaxi che ricevono i turisti all’entrata del paese e li portano a conoscere i vari cenotes, ne spiegano la storia ed il significato”, racconta José May.

 

Le fabbriche di carne

Era il 2016 quando gli abitanti di Homún appresero dai giornali che un terreno nel municipio era stato venduto a PAPO, Produzione Agropecuaria Porcina, sussidiaria della multinazionale Kekén e primo produttore di carne di maiale in Messico, per installarvi un mega-allevamento. “Nei municipi vicini ce ne sono altri, ma questo sarebbe stato il più grande nella zona”, spiega José May, proprietario del cenote Santa Cruz. Secondo Greenpeace, nello stato dello Yucatan operano 222 mega-allevamenti di maiali, che producono per il mercato nazionale e, in misura crescente, per l’esportazione, principalmente verso il Nordamerica ed i paesi asiatici. Di tutti gli allevamenti solo 18 hanno ricevuto l’autorizzazione in materia di impatto ambientale; gli altri operano in modo informale, favoriti dalla corruzione ed il lassismo delle autorità competenti. Un esempio calzante è che all’interno dell’area protetta operano, in barba alla normativa, 36 allevamenti, sempre secondo i dati di Greenpeace. I numeri dell’industria sono sorprendenti: vengono “prodotti” all’anno circa due milioni di maiali, in “fabbriche” che ne contengono dai 20 ai 60.000. In quella di Homun ce ne sarebbero stati 45.000. Si tratta di un’attività altamente inquinante, per l’aria e soprattutto per l’acqua, che viene consumata in enormi quantità nella pulizia degli escrementi; le acque reflue nella maggior parte dei casi non vengono trattate ma scaricate direttamente sui terreni agricoli circostanti.  Non è un caso, del resto, che l’attività prosperi proprio in questa regione: il sottosuolo alberga il Gran Acquifero Maya, una delle più grandi riserve d’acqua dolce sotterranea del mondo, che ha la caratteristica di trovarsi ad appena pochi metri dalla superficie e quindi essere di facile accesso.

 

I guardiani dell’acqua

Proprio questa è stata la miccia della mobilitazione degli abitanti di Homún: il suolo carsico, costellato di fenditure, provoca la filtrazione immediata dell’acqua dalla superficie direttamente una falda e, pertanto, nei cenotes, che sarebbero stati immediatamente inquinati. La presenza della “fabbrica di carne” metteva in pericolo non solo un elemento fondamentale della cultura maya, ma la stessa fonte di sussistenza della comunità, l’ecoturismo. “Convocammo un’assemblea comunitaria, era la prima volta che si realizzava un evento del genere: si riunirono in piazza più di mille persone, vennero anche dei biologi, il sacerdote… Presentammo delle denunce alle autorità ambientali competenti, ma non successe nulla”, spiega José May. In ottemperanza della legislazione internazionale che riconosce speciali diritti ai popoli indigeni, come quello di essere consultati rispetto allo sviluppo di opere o progetti che potrebbero alterare i loro territori, la comunità decise di applicare un’auto-consulta. Nell’ottobre del 2017, 732 persone votarono NO alla domanda “sei d’ accordo che si installi un mega-allevamento di maiali nel municipio di Homún?”, e solo 53 manifestarono il Sì. Circa 800 cittadini conformarono il Comitato Guardiani dei Cenotes e, con l’aiuto del Centro per i Diritti Umani Indignación, presentarono i risultati della consulta alle autorità giudiziarie competenti. Ma non successe nulla, e continuava la costruzione dell’allevamento.

“Dovevamo agire, quando ci sarebbero stati i maiali nell’allevamento la nostra lotta avrebbe perso forza, per la gente sarebbe stato oramai inevitabile. Realizzammo allora un sit-in che rappresentava la chiusura simbolica della fabbrica di carne. La risposta delle autorità fu paradossale: mandarono decine di poliziotti antisommossa mente gli ispettori ambientali mettevano i sigilli ai nostri cenotes. I media nazionali diffusero la notizia, però non successe niente e ormai l’allevamento aveva cominciato a funzionare”, denuncia Doroteo Hau, il primo cenotero di Homún.

Il passo successivo fu dunque un ricorso costituzionale presentato nel 2018 da un gruppo di bambini e giovani della comunità, fondato sul diritto ad un ambiente sano, all’acqua ed alla vita degna. E finalmente successe qualcosa. Il giudice accolse il ricorso e all’allevamento vennero messi i sigilli. Nel giugno 2021 la sentenza definitiva confermò la vittoria di Davide contro Golia: i cenotes di Homún sono, per il momento, in salvo.

Il processo organizzativo di Homún ha trovato risonanza nelle comunità di Kinchil e Celestún, anch’esse in lotta dal 2015 contro un mega-allevamento di Kekén. Anche in questo caso le autorità hanno ignorato le denunce sporte dagli abitanti, organizzati nel Consiglio Maya del Ponente dello Yucatan. Qui a rischio c’è il cenote che alimenta l’acquedotto, in cui sono stati rilevati livelli altissimi di batteri coliformi (che si trovano nelle feci suine); e la Riserva Naturale di Celestún, sistema lagunare costiero e meta turistica perché vi svernano migliaia di fenicotteri rosa, ma in cui sfocia la corrente sotterranea proveniente dall’allevamento. I danni all’economia locale sono già evidenti: la puzza e l’inquinamento dell’aria ha provocato la fuga dalle arnie delle api mellifere, specie endemica che sostiene la produzione di miele, principale sostegno delle comunità maya che si dedicano alle attività agricole e che, per le sue particolari caratteristiche, veniva richiesta a livello internazionale.

Nel 2019 i contadini di Kinchil scoprirono che il loro terreno, prossimo all’allevamento, si era trasformato in un pantano verde e pestilenziale: dei tubi vi scaricavano direttamente le acque reflue, nonostante l’azienda affermava di operare con depuratori super moderni.

Le comunità presero esempio da Homún e, nel luglio del 20121, realizzarono un’auto-consulta che rivelò l’opposizione all’allevamento a Celestún, ma invece il favore degli abitanti di Kinchil, impiegati nella fabbrica e dove l’azienda si è spesa nei classici trucchi messicani per comperare volontà: “installazione di consultori medici gratuiti, doni agli abitanti e promesse d’ogni tipo”, denuncia Alberto Rodríguez del Consiglio Maya.

Anche se con esito diverso, entrambe le esperienze hanno contribuito a sviluppare l’organizzazione collettiva e la costruzione del consenso: “si è instaurata ad Homún l’abitudine di realizzare assemblee pubbliche per trattare i temi importanti, e questa pratica non esisteva”, racconta José May. Il processo ha anche sviluppato la coscienza civica degli abitanti della regione: “adesso pensiamo in modo diverso.  Credevamo che ogni cosa andasse chiesta al governo, e che questo l’avrebbe risolta. Abbiamo capito che non è così e abbiamo imparato a non avere paura del governo. Ora sappiamo che abbiamo dei diritti e che dobbiamo reclamarli, lottare per una vita degna”, conclude il dirigente di K’anan Ts’onot.