Di Valeria Cagnazzo

Pagine Esteri, 2 marzo 2022 – Potrà durare fino a tre anni il periodo di transizione in Burkina Faso prima che si ripristini l’ordine costituzionale. E’ quello che sancisce la “carta costituente della transizione” firmata nella notte tra il 28 febbraio e l’ 1 marzo al termine di diverse ore di lavoro delle assise nazionali, che hanno visto riuniti gli uomini della giunta militare e le “forze vive” del Paese. Il capo della nuova giunta, il colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba, salito al potere con il colpo di stato del 24 gennaio, potrà quindi governare ancora per i prossimi 36 mesi, prima che i burkinabé siano convocati alle urne per nuove elezioni presidenziali.

Oltre agli uomini di Damiba, a comporre le assise che hanno redatto la nuova carta costituente sono stati i partiti, i sindacati e le organizzazioni della società civile in rappresentanza dei giovani e delle donne del Paese e degli sfollati interni a causa del terrorismo jihadista. Saranno le assise stesse a investire il 2 marzo il colonnello Paul-Henri Damiba come Presidente del governo di transizione dei prossimi tre anni. Al termine di questo periodo, né il colonnello né i 25 membri del suo governo saranno più eleggibili per altri incarichi politici.

Insieme alla giunta militare, la transizione sarà guidata dal “Consiglio per l’orientamento e il monitoraggio della transizione” e dall’”Assemblea legislativa della transizione”, composta da 75 membri. Tutti i membri del nuovo esecutivo riceveranno un compenso per il loro nuovo incarico, contrariamente rispetto a quanto annunciato all’indomani del golpe.

Lo statuto firmato la notte scorsa ha, infatti, corretto il tiro ad alcune promesse di Damiba: oltre allo stipendio assicurato a tutti i suoi uomini, è stata anche estesa da 30 a 36 mesi la durata della transizione e sono stati gonfiati i numeri dei membri di governo e assemblee incaricati di condurla.

 

A pretendere una scadenza della fase di transizione era stato soprattutto l’Ecowas, la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale, e se ne attende a questo punto la reazione. L’organismo, fondato nel 1975, riunisce quindici Paesi africani impegnati in accordi di cooperazione economica e in intese di reciproca difesa per la sicurezza e la stabilità della regione. Dopo il colpo di stato del 24 gennaio scorso, il Burkina Faso ne era stato espulso, e l’Ecowas aveva chiesto al nuovo governo di presentare in tempi brevi un “calendario ragionevole per il ritorno all’ordine costituzionale”.

Molto più che un invito, la richiesta aveva i toni di un ultimatum: pesava sul nuovo Burkina Faso di Damiba la minaccia delle sanzioni economiche che l’Ecowas avrebbe potuto imporre al Paese. Una sorte già spettata ai vicini Mali e Guinea, anch’essi protagonisti di due colpi di stato, rispettivamente nel maggio e nel settembre 2021, ed espulsi dall’Ecowas come il Burkina Faso. Su di loro, però, l’Ecowas ha già abbattuto la scure delle sue sanzioni.

Alla richiesta di definire i tempi dei rispettivi esecutivi di transizione e di un calendario per nuove elezioni democratiche, infatti, la giunta del Mali ha risposto fissando un termine del suo potere a cinque anni, una durata inaccettabile secondo l’Ecowas, e il nuovo regime della Guinea si è finora semplicemente rifiutato di accondiscendere alla domanda dell’organizzazione. Su Ouagadougou pendevano le stesse prescrizioni, per il momento congelate alla luce dell’apparente disponibilità al dialogo da parte di Damiba, che in effetti in tempi brevi ha presentato uno statuto con la scadenza del suo mandato.

Resta da vedere adesso quale sarà la reazione dell’Ecowas. Se approverà le condizioni di Damiba, il Burkina Faso sarà quantomeno salvo dalla spada delle sanzioni che pende pericolosamente sulla sua economia e che provocherebbe un disastro in un Paese già in profonda crisi. A spingere probabilmente la nuova giunta e le opposizioni ad accelerare i tempi per la firma degli accordi della transizione è stato, infatti, proprio l’esempio del vicino Mali, sprofondato nella catastrofe a causa dell’embargo economico imposto dall’Ecowas.

In Mali sono sospese le importazioni, e in assenza di cemento le imprese edilizie sono ferme e centinaia di lavoratori maliani hanno già perso il lavoro. Congelate sono anche le esportazioni: il cotone e l’oro, le principali materie prime sulle quali si fonda l’economia del Paese, restano bloccati alla frontiera. Un Paese paralizzato che sta già perdendo la fiducia nella giunta golpista, responsabile, con le sue irragionevoli condizioni, delle sanzioni subite.

In attesa della sua investitura ufficiale e della reazione della Comunità economica dell’Africa occidentale, il colonnello Damiba lancia intanto le promesse del suo programma di governo, forse troppo denso e ambizioso per sembrare quello di una semplice e momentanea fase di transizione verso una nuova legislatura democratica. Nell’agenda del nuovo Presidente, il rafforzamento della governance e la lotta alla corruzione. Tra le sue missioni, la lotta al terrorismo, il ripristino dell’integrità del territorio nazionale e “fornire una risposta efficace e urgente alla crisi umanitaria” e ai “drammi economici e comunitari causati dall’insicurezza” nel Paese. Un piano impegnativo, in uno Stato lacerato dal 2015 dal terrorismo jihadista che ha progressivamente esteso il proprio controllo sulle regioni intorno a Ouagadougou, causato almeno 2.000 morti e migliaia di sfollati.

Un progetto, quello di Damiba, che sembrerebbe dover richiedere almeno i 36 mesi di governo prefissati dallo statuto, non uno di meno. Le battaglie annunciate dal nuovo Presidente, del resto, sono proprio quelle nelle quali l’ex capo di Stato, Roch Marc Christian Kaboré, è accusato di essersi mostrato sempre troppo debole e inefficace. All’investitura di Damiba, mercoledì, Kaboré assisterà da detenuto, dalla villa a Ouagadougou dove si trova agli arresti domiciliari dai giorni del colpo di stato.