di Pietro Figuera*

Pagine Esteri, 11 marzo 2022 – Vladimir Putin è sempre stato considerato un freddo scacchista, e sicuramente qualcosa di vero c’è in questa narrazione. Chi scrive qui non ha mai avuto (ovviamente) il “piacere” di incontrarlo e conoscerlo personalmente, ma si basa su anni di studi e resoconti di terzi, sia sulla sua persona che sul suo operato. A partire ad esempio dall’illuminante saggio di Hubert Seipel[1], che ha avuto la possibilità di intervistare più volte il presidente russo, incontrandone in certa misura la fiducia.

Del resto non serve un’indagine più approfondita, dato che qui non si cercherà certo di ricostruire la psicologia di Putin e le possibili patologie cui (senza ironia) può pur sempre essere incorso. Si cercherà piuttosto di capire se i gravi eventi di questi giorni non siano stati previsti (almeno dalla stragrande maggioranza degli analisti al di fuori dei circuiti dell’intelligence statunitense) per generale incapacità di lettura della Russia oppure perché rispondono a logiche diverse da quelle solitamente prese in considerazione.

Chiarirlo non serve solo agli analisti, e alla loro autostima colpita dalla distanza tra pronostici e realtà. Serve a chiunque voglia collocare questi e i prossimi eventi. La Russia ha agito “irrazionalmente”? Facendo male i conti o con un disegno più ampio di quanto possiamo vedere? E quanto di tutto ciò dipende dalle specifiche scelte di Putin, o del suo cerchio magico? Andiamo per ordine, ovvero dalle ragioni che avevano portato gli analisti a non credere nella possibilità di un conflitto armato su vasta scala.

Possiamo individuarne almeno tre. In senso strettamente militare, le forze russe ammassate ai confini ucraini erano ritenute insufficienti per un’invasione vera e propria, e al di là delle stime fatte a priori lo dimostrano anche le difficoltà logistiche incontrate da Mosca in questi giorni. Inoltre, le perplessità legate allo sviluppo di un simile scenario erano diffuse, oltre che tra gli analisti, da diversi servizi di intelligence europei (Francia, Germania e Italia su tutti), ma soprattutto da quelli ucraini direttamente interessati. Le esplicite e ripetute richieste di Zelenskij, che invocava una condivisione d’informazioni con Washington, erano cadute nel vuoto: un punto che prima o poi dovrà essere chiarito. Terzo e ultimo punto, il più importante di tutti: non si comprendevano gli eventuali vantaggi derivanti da una simile mossa.

Né tuttora si comprendono. La Russia ha quasi solo da perdere, nella sua guerra in Ucraina, a prescindere dall’andamento delle operazioni belliche in senso stretto. Certo, interessi e priorità vanno sempre definiti in forma soggettiva, specie quando si parla di un Paese in cui prevale un modo di pensare differente dal nostro. Ma su alcuni punti non può praticamente esistere dibattito. L’accerchiamento della Russia, ovvero ciò contro cui Mosca ha combattuto con ogni forza negli ultimi vent’anni, è definitivamente e drammaticamente compiuto. E non basterebbe la conquista dell’intera Ucraina a compensarne gli effetti: ammesso che la NATO esca dalla porta del Mar Nero, può rientrare in poco tempo dalla finestra del Baltico, agevolata dalle crescenti paure di Stoccolma ed Helsinki. Passare dalla finlandizzazione dell’Ucraina all’“ucrainizzazione” della Finlandia non sarebbe un grande salto di qualità.

Poi ci sono le sanzioni. Di intensità inedita, risposta corale di un’Europa che sa unirsi solo di fronte a un conclamato pericolo. Il Cremlino certamente se le aspettava, tanto da aver predisposto per tempo contromisure attive e riserve di valore: sono anni che la Russia rinforza il proprio fondo sovrano e prepara una rete internet indipendente, la Runet. Anche lo scollegamento del sistema Swift, paventato per la prima volta nel 2014 e parzialmente realizzato oggi, è in parte tamponato dalla preventiva adozione del sistema di pagamento alternativo Mir[2]. Eppure non basta. Il valore del rublo è crollato di oltre il 40%, la contrazione dei redditi è dietro l’angolo e le perdite miliardarie degli oligarchi sono già realtà. Oltre a fare molto male, le sanzioni vanificano anni di sacrifici per tenere a galla il sistema russo, con buona pace di chi – come il premier Mishustin, molto defilato nell’attuale crisi – è stato a suo tempo chiamato proprio per tale scopo.

Infine, e tornando in Ucraina: con questa guerra, la Russia perde la sacralità del suo spazio, di una simbolica comunione tra tutti gli Stati ex sovietici che – a prescindere dalle singole traiettorie geopolitiche, sempre più spesso confliggenti – ne aveva in qualche modo associato i destini. Checché ne dica il suo patriarca Kirill[3], non c’è nulla di spirituale in una riunificazione forzata con la vecchia capitale Kiev. E a prescindere dalla qualità degli attuali governanti di quest’ultima, non v’è dubbio che un’azione così ostile rinforzerà il senso di appartenenza a un’identità alternativa, non per forza ucrainofona ma sempre più distinta dall’abbraccio letale di Mosca. La guerra lascerà – anzi sta già lasciando – pesanti cicatrici, che per moltissimo tempo non si rimargineranno.

Il riconoscimento definitivo della Crimea, quello del Donbass, oppure una neutralizzazione (sia “costituzionale” che militare) dell’Ucraina possono valere tutto questo? Seguendo la logica non lineare dei negoziatori russi, attualmente impegnati a rassicurare le controparti ucraine della loro legittimità – dopo gli improvvidi incitamenti al golpe del secondo giorno di guerra – sì. Anzi, varrebbero pure la minaccia di un’escalation nucleare, già evocata nei giorni scorsi a fronte di una possibile “overreaction” occidentale.

Da qui l’idea che Putin sia vittima di qualche cortocircuito mentale, per dirla con un eufemismo. L’ipotesi, strisciante tra gli addetti ai lavori già dai primissimi giorni del conflitto, ha preso sempre più piede tra chi non riesce a interpretare altrimenti l’attuale piega. Finora il presidente russo era stato considerato – e non solo dai suoi estimatori – un abile stratega, la mente raffinata che aveva consentito a Mosca di riprendersi con una certa “classe” la scena che le era mancata dalla fine dell’URSS. Adesso la scena è totalmente sua, ma lo “stile” (se così si può definire) è ben lontano da quello visto in altri contesti. Da scacchista Vladimir Putin sembra essersi trasformato in un disperato giocatore di poker, pronto a giocarsi tutto per una mano che forse non valeva l’all-in.

Come osservato all’inizio, non possiamo in questa sede escludere che qualcosa sia andato “storto” nei ragionamenti del presidente russo. Del resto la senilità arriva per tutti, e ancor di più per chi si è impermeabilizzato a ogni influenza esterna: vuoi per isolamento sanitario, vuoi per oggettivo arroccamento personale dopo un ventennio al potere (negli ultimi anni incontrarlo è diventato sempre più difficile, assicurano fonti del Cremlino). Persino la propaganda made in Russia, confezionata per essere spedita in ben altri lidi, sembrerebbe aver fatto presa su Vladimir Vladimirovich, a giudicare dall’enfasi con cui ha espresso la necessità di “ripulire” l’Ucraina da “drogati” e “neonazisti”.

Tuttavia è difficile credere che una simile decisione sia giunta unilateralmente e come un fulmine a ciel sereno, raggelando una nomenclatura altrimenti disposta a perpetuare all’infinito i compromessi con l’Occidente. Perplessità o vere e proprie opposizioni all’operazione, pur celate, sono sicuramente diffuse nell’establishment. A partire dagli oligarchi che in questa prima fase sono certamente i maggiori sconfitti della partita economica, e forse persino tra alcuni siloviki. Ma da qui a credere che la guerra sia volontà esclusiva dell’uomo solo al comando ce ne passa, e significa non capire che i poteri attorno a Putin sono tutt’altro che immobili, influenzano e vengono influenzati. Nessuna lealtà è infinita.

Altrettanto semplicistica è l’idea che il presidente russo sia mosso da mero risentimento nei confronti dell’Occidente, o addirittura – si sente pure questo – da bruta e banale malvagità. Certo, leggere la Arendt può aiutare a formulare quest’ultima diagnosi, ma la reductio ad hitlerum sembra più che altro il refrain di una propaganda russofoba mai in forma come oggi, o al massimo l’esplicita rinuncia a comprendere i meccanismi di una macchina da guerra apparentemente fuori controllo.

Di certo non ci aiuta a comprendere i pericoli incombenti: non la conquista di mezza Europa, né l’Armageddon nucleare, bensì – più banalmente, stavolta sì – il protrarsi della guerra oltre ogni ragionevole limite, se di ragionevolezza si può parlare a fronte di così drammatici eventi. Rinunciare a capire non ci aiuta, tantomeno, a definire i termini di una possibile trattativa. Perché una trattativa, o un compromesso se così preferiamo chiamarlo, prima o poi si dovrà raggiungere. E sarà meglio arrivarci senza credere che la controparte sia governata da folli. Pena la perdita di ogni misura, e dell’utilità di qualsivoglia analisi.

Tornando dunque coi piedi per terra, e nell’alveo del ponderabile, occorre liberarsi degli estremi e ricordarsi che i conti si possono pur sempre sbagliare, anche quando si ha una grande esperienza alle spalle. Anzi, soprattutto quando la si ha, come dimostrano tanti casi storici che non v’è bisogno di citare. Razionalità non significa infallibilità. E Vladimir Putin a dire il vero l’aveva già dimostrato più volte, a dispetto dei suoi più accaniti fan (e speculari detrattori). Bruciato il suo appeal internazionale, in gioco resta l’eredità interna, forse la cosa a cui tiene di più. Per salvarla, dovrà forse scendere a compromessi con il sistema che lui stesso ha creato. E per ironia suprema della sorte, anche con un’Ucraina che non ha voluto arrendersi al suo volere.

[1] Hubert Seipel, “Putin. Ora parla lui”, Piemme editore (2017)

[2] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/la-guerra-dei-sistemi-di-pagamento-33401

[3] https://www.osservatoriorussia.com/2022/03/09/il-patriarca-indossa-elmetto-difende-guerra/

 

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*Laureato in Relazioni Internazionali presso l’Alma Mater di Bologna e in seguito borsista di ricerca con l’Istituto di Studi Politici S.Pio V, si è specializzato in storia e politica estera russa, con particolare riferimento all’area mediorientale. Autore de “La Russia nel Mediterraneo: Ambizioni, Limiti, Opportunità”, collabora con diverse realtà, tra cui la rivista Limes, il Groupe d’études géopolitiques e il programma di Rai Storia Passato e Presente. Ha fondato e dirige Osservatorio Russia, progetto di approfondimento sulla geopolitica dello spazio post sovietico.