di Franco Ferioli*

Pagine Esteri, 22aprile 2022 – Per il fatto stesso che ogni tipologia di ordine e di potere si instaura attraverso l’esclusione delle altre possibilità, ogni sistema politico si afferma su un nichilismo di fondo che è impossibile da sradicare, da non comprendere o da non vedere applicato nei paradossi che assumono e presentano le cosiddette “democrazie autoritarie”.  Il potere interpreta ed esercita violenza: le uniche garanzie democratiche all’interno di un sistema di potere autoritario come quello imposto alla nostra realtà sociale, sono fornite dagli strumenti di controllo e di difesa da usargli contro per limitare i danni.

 

Karl Popper, ne “La società aperta e i suoi nemici”(1945), sembra indicare gli strumenti utili per difendersi dalla democrazia come l’essenza della democrazia stessa che consisterebbe nel “mettere sotto controllo il potere politico”. In una “democrazia autoritaria” o per meglio dire in una post-democrazia come la nostra, il problema non è chi viene messo a capo del governo senza essere eletto o chi subentra a chi dopo aver vinto le elezioni amministrative, ma è se esistono gli strumenti per limitare rischi e pericoli, se ci si è organizzati in modo che chi governa possa essere reso innocuo o il meno dannoso possibile, facendo di tutto, cioè, per evitare che la democrazia, dopo essere divenuta nemica della società, diventi nemica di sé stessa.

La narrazione che viene fatta della nostra democrazia è una barzelletta che ridicolizza l’autoritarismo di cui la nostra società è intrisa e il nostro “sistema democratico” abusa a tal punto del concetto di libertà da applicarlo storpiato in ogni declinazione possibile. Tutti i partiti politici si autodefiniscono liberali, liberisti, e il liberalismo è figlio di tutti -destra, sinistra, centro- tranne che della madre legittima. La nozione di libertà che Popper ha in mente è quella ereditata dalla teoria classica che risulta agli antipodi rispetto a quella attuale: “La libertà è la capacità di pensare senza il rischio di essere attaccati, accusati o uccisi. (…) La ragione cresce attraverso la critica reciproca; l’unico modo ragionevole per pianificare la sua crescita è sviluppare quelle istituzioni che salvaguardano la libertà di questa critica, cioè la libertà di pensiero”. Il liberale classico difende la libertà di pensiero come presupposto dell’agire individuale in contesto sociale, perché la libertà di pensiero implica come conseguenza diretta la libertà di parola, di scelta e di azione.

Democrazia, in uno Stato veramente Liberale, è presenza di uno Stato minimo in un sistema di massima apertura che sia capace di mantenere intatta la singola libertà dei cittadini, considerati uguali tra loro, liberi di perseguire le proprie personali inclinazioni e, se non ne dovessero avere, liberissimi di non averne. I liberali classici e il liberismo storico, nel difendere la libertà di pensiero, affermano la forza della ragione e indicano i meccanismi in virtù dei quali dovrebbe essere esercitata in una società aperta, libera e democratica: il ragionamento, le idee e la critica alle idee.

Anche secondo il politologo statunitense Francis Fukuyama -uno dei firmatari della “Lettera sulla giustizia e sul dibattito aperto” (A Letter on Justice and Open Debate) che nel 2020 ha dato il via alla rivolta intellettuale sia contro la minaccia alla democrazia proveniente da destra che contro l’intolleranza della cosiddetta sinistra liberale*- la democrazia liberale sarebbe la più progredita forma di democrazia, quella cioè che rispetta le due aspirazioni universali: l’uguaglianza di diritti e la libertà individuale non disgiunte tra loro.

Ciò che invece in maniera sempre più evidente si sta manifestando nella nostra società, esprime fino in fondo un insieme di concetti antilibertari e antiliberisti di politica autoritaria e post-democratica poichè si tratta di una egemonia basata sull’uso ricattatorio della forza, sull’uso strategico della comunicazione e sulla assoluta mancanza di dialogo, confronto e critica.Risultato: una volta ogni quattro anni ci viene garantito il diritto di scegliere tra esponenti di diversi partiti che portano nomi e simboli differenti, ma che al 99%, hanno la stessa identica agenda politica. Partiti di destra, di sinistra e di centro che, una volta eletti, assumono tutti le stesse ideologie e fanno tutti indifferentemente le stesse identiche scelte.

Tutti liberal. Tutti liberisti. Tutti liberalisti.

Talmente schierati tutti dalla stessa parte da imporre il pensiero unico, da impedire il dialogo, da sotterrare critiche e autocritiche con ogni strategia, tecnica e arma propria del totalitarismo e impropria della democrazia. Quella della politologa belga Chantal Mouffe, nota per essere la coautrice, insieme al collega e compagno di vita Ernesto Laclau, del libro Hegemony and Socialist Strategy  (Egemonia e Strategia Socialista, Il Melangolo 2011) -uno dei testi che ha ispirato la fondazione del partito politico spagnolo Unidas Podemos- è stata tra le prime voci femminili europee a invocare un radicale cambiamento come espressione di un diffuso sentimento di resistenza e opposizione all’egemonia neoliberalista. I punti essenziali di questa visione post-marxista e di chiara ispirazione gramsciana, sono emersi l’8 ottobre 2019 a Napoli, in occasione del Convegno Populismo, neoliberismo e crisi della democrazia, organizzato dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e dall’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa”.

Secondo Chantal Mouffe, docente di Teoria Politica all’Università Londinese di Westminster, in molti Paesi Europei -ma non ancora in Italia se non allo stato embrionale- ci troveremmo in un momento cruciale, poiché “Per un lungo periodo di tempo, per il cittadino non è esistita alcuna vera possibilità di scelta elettorale, poiché i partiti di centro-destra e di centro-sinistra perseguivano sostanzialmente lo stesso tipo di politiche, convinti che non esistessero alternative alla globalizzazione neoliberista. Questa realtà negli ultimi dieci anni, è stata messa in discussione con la conseguente nascita di molti movimenti di resistenza”. I movimenti cui si riferisce l’autrice sono quelli da lei seguiti direttamente prendendone parte attiva come Unidas Podemos in Spagna e Syrzia in Grecia, quelli da lei più tiepidamente appoggiati come il Labour Party inglese e quelli maturati dalla frequentazione da parte di Ernesto Lacau della culla del populismo contemporaneo di Juan Domingo Peron in Argentina e dei movimenti radicali di sinistra nati in America Latina dagli anni Novanta ad oggi, nei decenni indicati come Rinascimento del Populismo Bolivariano. E, in effetti, non si può che concordare sul fatto che questi esempi di movimenti, detti populisti perché mettono in discussione lo status quo, non abbiano potuto trovare altro che minimi riflessi nello scenario della politica italiana.

Ma nella visione congiunta Mouffe – Lacau, il neo populismo sarebbe quindi un modo per resistere al capitalismo, mosso dalla convinzione che l’attuale modello di sviluppo capitalista favorisca il potere di una ristretta oligarchia globale che stronca sul nascere ogni possibilità di cambiamento e trasformazione sociale: “Il problema è che questo tipo di resistenza può articolarsi in modi diversi e si declina in due tipi di populismo: quello di destra e quello di sinistra. Il problema del populismo di destra è che, benché auspichi un ritorno della democrazia, lo fa con il fine ultimo di limitarla, per il cosiddetto “bene della nazione”, e questo porta ad un sistema più autoritario che finirà col limitare la democrazia. Ma esiste un’alternativa all’attuale congiuntura, che consiste nello sviluppo di un populismo di sinistra, che è anche un’articolazione della democrazia per dare voce ai cittadini, ma con il fine, in questo caso, non di limitare la democrazia, bensì di realizzarla pienamente”.

In sintesi si potrebbe concordare che in gran parte del mondo sia visibile un populismo di destra che esprime posizioni corporative e nazionalistiche, e anche che, in parte del mondo latino americano, occidentale ed europeo, sia presente un neonato populismo di sinistra capace di rovesciare i rapporti di forza esistenti e, sostanzialmente, in grado di porsi l’obiettivo di salvare la sinistra stessa…da sé stessa.

In Italia, Benito Mussolini, nel 1931, affermava che “La democrazia è il regime che dà o cerca di dare l’illusione al popolo di essere sovrano”. La narrazione che continua ad essere fatta della nostra democrazia è la dettatura di una nuova forma di dittatura. Una democrazia illiberale, detta anche pseudo democrazia, democrazia parziale, democrazia vuota, regime ibrido, è un sistema di governo nel quale, oltre al fatto che si tengano delle elezioni, i cittadini sono tagliati fuori da tutto ciò che concerne il vero potere decisionale. Vi è una costituzione che limita il potere del governo, ma o è totalmente ignorata o ci si muove rapidamente per riformarla, rendendola inefficace, oppure viene bypassata da delibere e decreti-legge straordinari. Eduardo Galeano fu il primo a coniare la parola “democratura” per descrivere la convivenza di elementi democratici e autoritari all’interno di un modello che potremmo definire “democrazia ristretta” o “dittatura costituzionale”.

Galeano fu instancabile autore di denunce delle diseguaglianze economiche con particolare riferimento al Sudamerica, fino ad assumere toni profetici anche in riferimento al mondo occidentale sostenendo che “l’economia mondiale è la più efficiente espressione del crimine organizzato”. E inoltre che “non dà fastidio a nessuno che la politica sia democratica, basta che non sia democratica l’economia. Quando i voti sono già tutti nelle urne e cala il sipario, la realtà impone la legge del più forte, cioè a dire la legge del denaro”.

E’ qui che Galeano utilizza il termine democratura come il “riciclarsi delle dittature sotto forma di finte democrazie”.

Oggi sarebbe illusorio pensare che le democrature siano derive possibili soltanto lontano da noi, in Sudamerica, in Africa o nell’Est Europeo.

Il termine democratura, come osservava Marino Sinibaldi in un corsivo su 7Corriere, esprime perfettamente la mostruosità dell’intreccio di caratteri democratici e autoritari. E’ dalla crasi delle parole democrazia e dittatura che nasce il termine per indicare, recita il Vocabolario Treccani, “un regime politico improntato alle regole formali della democrazia ma ispirato nei comportamenti a un autoritarismo sostanziale”.

Oltre a Galeano e a Sinibaldi, hanno contribuito ad analizzare e diffondere questo concetto molti altri intellettuali come il saggista croato Pedrag Matvejevic, l’economista, sociologo e politologo svizzero Max Linger Goumaz, autore del saggio “La democrature: dicature camouflee, democratie truquee”, lo storico Andrea Ricciarsi, il giurista Giovanni Sartori, per disegnare una forma anomala di democrazia parlamentare nella quale attraverso una serie di artefizi più o meno surrettizi (come ad esempio premio di maggioranza, liste bloccate, decreti legge), si gettano le basi per instaurare quella che viene comunemente definita “dittatura della maggioranza”.

La democratura è quando il governo si attribuisce poteri speciali a tempo indeterminato, quando non c’è opposizione, quando persiste la convivenza di elementi democratici e autoritari all’interno di un modello che potremmo definire come democrazia ristretta o in altri termini dittatura costituzionale” (Mauro Burato in Visioni Latinoamericane 2010). Al riguardo da qualche tempo circola una riflessione che fa riflettere: è di Bernard Guetta, giornalista francese esperto di geopolitica: ”Non esistono più dittature in America Latina, né paesi comunisti o fascisti in Europa, mentre le libertà e lo stato di diritto fanno piccoli ma significativi passi in avanti in Africa. Insomma non c’è motivo per vedere tutto nero, anche perché il numero crescente di democrature significa che poche dittature accettano di presentarsi come tali”.

Pur evitando il pessimismo, permane il dubbio: basterà il ricorso al camuffamento ad evitare la cancellazione della democrazia?

A quanti di noi, in effetti, sembra di vivere al cospetto di una nuova inquisizione, laica e sinistroide, che sta imponendo la perdita di ogni tipologia di valori, di diritti, di conquiste nel nome della religione sociale del politicamente corretto e nel segno della cultura della cancellazione della cultura? Con il termine politically correct ci si riferiva in origine ai movimenti politici statunitensi che rivendicavano giustizia, riconoscimento e rispetto delle minoranze etniche e dei gruppi socialmente più deboli anche attraverso un uso più rispettoso del linguaggio.

Anche l’espressione Cancel Culture è stata prelevata, distorta e rivolta, in un meccanismo predatorio di culture-appropriation, cioè di appropriazione illecita della cultura altrui, contro le rivendicazioni di libertà e giustizia del Black Lives Matter Movement, per colpevolizzare ogni forma spontanea di attivismo e di contestazione.

Il Politicamente corretto e la Cancellazione della Cultura, come ideologie, non sono mai esistite prima d’ora e da singole parole impiegate per indicare le pratiche di coloro che hanno messo in discussione l’operato di governi, partiti politici, potentati economici, sono divenute prima un’etichetta, poi una vera e propria religione civile e infine un’imperante ortodossia neoliberista che la destra statunitense e, a cascata, sia la destra che il centro sinistra europeo, hanno affibbiato a tutto ciò che riguarda le lotte per i diritti civili.

Dopo essere stata manipolata e asservita, l’imposizione del politicamente corretto e della cancel culture oggi non ammette che vi siano opinioni o idee diverse da quelle neoliberali e vietano, anche con la forza e la forzatura delle leggi, tutto quello che si contrappone all’assolutismo e all’indiscutibilità del livellamento ideologico del “pensiero unico”.

Il risultato è che i gruppi di pressione più aggressivi appoggiati dal grande capitale, che hanno tutto l’interesse macroeconomico ad eliminare quel poco che può ancora ostacolare la mercificazione di ogni ambito vitale e intellettuale, sono ormai in grado di diffondere la loro immagine del mondo e la propria narrazione della realtà senza incontrare nessuna sostanziale “resistenza”, giacché il politicamente corretto sommato alla cultura della cancellazione della cultura, intesi come formula vincente di neo autoritarismo, possono contare sul conformismo e sul timore di essere presi di mira, emarginati ed esclusi se solo si azzarda ad andare controcorrente, ad esercitare il diritto all’analisi critica o ricorrere alle facoltà intellettive del libero pensiero.

In questo senso, tutti coloro che si possono definire neoliberali di destra, neofascisti, razzisti, sovranisti, omofobi, risultano i migliori alleati dei neoliberali di sinistra, gli idioti procarioti -nel senso etimologico e biologico del termine- che contribuiscono a rendere fertile, vivido e fecondo il letto di semina e terreno di coltura di ogni obbrobriosa democratura.

*DI SEGUITO GLI ARTICOLI PRECEDENTI DI FRANCO FERIOLI SULLA CANCEL CULTURE

CANCEL CULTURE. La cultura della cancellazione della cultura

 

 

La cultura della cancellazione della pace – seconda parte

 

La cultura della cancellazione della storia – terza parte