di Franco Ferioli – 

Pagine Esteri, 5 maggio 2022 – La morte di George Floyd, un uomo afroamericano di 46 anni, avvenuta il 25 maggio 2020 a Minneapolis, dopo che un agente gli ha tenuto premuto il ginocchio sul collo per quasi nove minuti in seguito a un fermo di polizia, ha provocato la nascita e la diffusione di uno dei più grandi movimenti di protesta di massa della storia degli USA che ha contagiato il mondo intero al grido di Black Lives Matter e con lo slogan Defund the Police.

Questo orribile e ingiustificato omicidio ha scatenato un’ondata di reazioni di protesta contro la brutalità della polizia, contro le discriminazioni, le diseguaglianze, il razzismo istituzionale e immediatamente, negli USA e nel resto del mondo, sono state poste al centro delle proteste anche questioni di natura storico/sociale, oltre che di carattere politico e legislativo.

I memoriali, i monumenti e le statue inneggianti a fatti storici e a personaggi legati ai temi del razzismo e del colonialismo sono divenuti “simboli” da colpire, da abbattere e da redimere.

È stato questo episodio a spingere decine di migliaia di persone a scendere in piazza in tutti gli Stati Uniti, innescando talvolta violenti scontri con la polizia e a suscitare manifestazioni di solidarietà in tutta Europa. Ma il riconoscimento formale dei neri come cittadini alla pari è un concetto particolarmente scomodo e ostico sia per le Americhe se guardiamo alla schiavitù e alla segregazione, sia per l’Europa se guardiamo al colonialismo. L’esercizio del diritto all’indignazione di fronte a crimini come quello commesso a Minneapolis dall’agente Derek Chauvin, condannato a 22 anni e mezzo di carcere e in tanti altri episodi analoghi, non è “ribellismo” ma radicata e motivata protesta. Quanto alla sua organizzazione, non si tratta certamente di un movimento con strutture e leader classici, ma questo non significa che non abbia una storia, solidi punti di riferimento, continuità ed efficacia anche attraverso l’aumento delle petizioni rivolte ai governi centrali o alle amministrazioni locali per richiedere la rimozione delle statue controverse.

Gruppi spontanei, organizzazioni di base, musei, artisti, ricercatori e autorità hanno portato avanti il dibattito in modi creativi e con toni spesso polemici. Commissioni in città e paesi di tutto il mondo stanno cercando di riequilibrare le narrazioni selettive che vengono raccontate sul passato e a farsi strada è una domanda: cosa fare con le statue abbattute o da rimuovere? Vanno ricollocate in altro luogo o nascoste? Dovrebbero essere esposte nei musei e se sì, come?

E da cosa dovrebbero essere sostituite? Dovremmo lasciare vuoti i piedistalli, creare spazi per installazioni mutevoli e performance dal vivo o commissionare nuove statue di figure che tutti possano celebrare?

A dare una risposta a queste domande è stato Banksy, subito dopo l’abbattimento e il lancio nelle acque del porto di Bristol della statua in bronzo alta cinque metri e mezzo del mercante e commerciante di schiavi Edward Colston che si trovava in Colston Avenue dal 1895: “Cosa ci facciamo con un piedistallo vuoto nel centro di Bristol?” si è chiesto lo street artist sul proprio profilo Instagram per poi lanciare la sua idea per riciclare la statua in una nuova installazione commemorativa.

Come commemorare la manifestazione del suo abbattimento e al contempo riciclare la statua abbattuta? «Ecco un’idea che si rivolge sia a chi sente la mancanza della statua di Colston sia a chi non la sente. Tiriamola fuori dall’acqua, rimettiamola sul piedistallo, leghiamole una corda al collo che facciamo tirare dalla replica in bronzo a grandezza naturale dei manifestanti che l’hanno tirata giù quel girono. Così saranno tutti contenti».

Indubbiamente Banksy ha colto nel segno, perché se l’erezione di una statua è un fatto storico, non lo è da meno la sua rimozione.

E rimuoverla può aumentare la conoscenza della storia: molte più persone, e in particolare coloro che pretendono che si insegni di più sul colonialismo e sulla schiavitù nelle scuole, potrebbero meglio imparare a conoscere Edward Colston in seguito all’abbattimento della sua statua che non a causa del suo innalzamento.

Quanto ai piedistalli e ai basamenti vuoti, che invitano ogni spettatore a immaginare ciò che non c’è più o che potrebbe essere collocato lì, sì è iniziato a parlare dell’avvento di una Nuova Era delle Rovine, portatrice di un’estetica postmoderna nella quale le differenti declinazioni di immagine, ritratto, icona, suggerite dal prefisso in eikon -iconoclastia, iconoclasmo, iconodulia, iconofilia- evidenzierebbero l’immenso fossato che separa l’uomo dalla vicenda dell’umanità, la società dalla civiltà, la forma dal contenuto, giacché l’apparenza, in virtù di una comunicazione che la tecnologia attuale rende istantanea, si diffonde senza alcun tramite, senza il filtro d’una personale preparazione o capacità di interpretazione, mentre la sostanza ha tempi lunghi, richiede riflessione, analisi, confronto e dialogo: requisiti oggi relegati nelle terre bruciate delle perdite di tempo dei tempi perduti.

Un’altra risposta è venuta dal Muzeon Art Park o Fallen Monument Park (Parco dei Monumenti Caduti o Cimitero delle Statue di Mosca), un museo gratuito a cielo aperto sorto nel 1992, dove sono state portate molte statue abbattute dalla furia distruttiva della caduta dell’URSS.

Le recensioni dei membri di Tripadvisor descrivono una passeggiata che può iniziare nelle vicinanze dell’ingresso principale di Gorky Park per proseguire lungo la Moscova tra sculture e installazioni moderne e celeberrime statue fatte sparire subito dopo la caduta del vecchio regime sovietico che qui hanno trovato una seconda vita e che possono suscitare nostalgia, disprezzo e tanti altri sentimenti nei visitatori occasionali o nei frequentatori abituali. Oltre alla statua di Stalin che si trovava esposta nel padiglione sovietico dell’Esposizione Universale del 1939 a New York, il pezzo forte è la statua di Felix Dzerszinsky, fondatore della temuta polizia segreta dell’Unione Sovietica, che per più di trent’anni ha soggiornato davanti al quartier generale del KGB in piazza Lubjanka a Mosca.

La caduta del regime comunista ha comportato una vera e propria ecatombe di statue di tutti i personaggi simbolo dell’ex Unione Sovietica e a detenere il record assoluto di cancellazioni subìte è il fondatore Vladimir Lenin con oltre cinquemila statue e busti rimossi in patria o nelle capitali dell’Est Europeo.

Stessa sorte, ritualizzata dal regista Sergei Eisenstein che fece cominciare Ottobre, il suo film capolavoro sull’avvento della Rivoluzione Russa con le immagini della folla che fa cadere una grande statua dello zar Alessandro III, è toccata alla memoria su pietra di Josif Stalin, (distrutta anche nel 1956 dagli insorti di Bucarest), di Leonid Breznev, Karl Marx, Georgy Zhukov, Anatoly Lunacharsky, Rosa Luxemburg, Semyon Budyonny, Kliment Voroshilov, Friedrich Engels, Georgy Zhukov, Aleksandr Zasyadko, Vasily Kikvidze, Nadezhda Krupskaya, Anatoly Lunacharsky, Sergo Ordzhonikidze, Mikhail Frunze, Vasily Chapaev.

Dopo che nell’aprile 2015 il governo ucraino ha approvato le leggi che vietano i simboli sovietici, sono state abbattute tutte le vestigia una dopo l’altra, e oggi rimane in piedi solo una statua di Lenin a Chernobyl. Buttare giù Lenin è diventata una pratica così abituale da meritare un nome, Leninopad. Nel 2017 il fotografo Niels Ackermann e il giornalista Sébastien Gobert, autori del libro Looking for Lenin, sono andati alla ricerca dei resti di quelle opere distrutte. La più famosa l’hanno ritrovata a Odessa: Lenin è diventato Dart Fener, il cattivo della saga cinematografica hollywoodiana Star Wars.

A Kalyny, villaggio ucraino di cinquemila abitanti al confine con la Romania, una strada intitolata a Lenin è stata ribattezzata John Lennon. L’iniziativa, ha spiegato il governatore regionale Gennadi Moskal, è rientrata nell’ambito della campagna del governo filo europeo di Kiev per rimuovere ogni traccia del passato comunista.

Moskal ha detto di aver preso la decisione a sua discrezione, senza consultare i cittadini, in onore del co-fondatore dei Beatles e senza far caso a quanto disse lo stesso Lennon quando era ancora in vita e cioè che Imagine, la sua canzone più famosa diventata inno dei pacifisti di tutto il mondo, era da considerare, per i contenuti del testo, più “il manifesto del partito comunista” che non un inno alla pace. Questa sorta di autogol sancito arbitrariamente, senza cioè che fosse richiesto da nessuno, supportato dall’addio a Ded Moroz, il Babbo Natale russo-sovietico, alla proibizione della vendita dello “champagne russo” e al divieto di proiezione di film russi prodotti dopo il 2014, ha riportato alla memoria, come conferma ironica di questa regola storica della cancellazione ad uso demagogico, quando nel 2003 le truppe statunitensi, con la complicità di molte emittenti televisive, inscenarono la caduta di una statua di Saddam Hussein nel centro di Baghdad, nel tentativo di mascherare la loro invasione militare in acclamata rivolta popolare.

Anche la proposta del collezionista Andrei Filatov, fondatore della Art Russe Foundation, di portare a San Pietroburgo le statue di Roosevelt e Baranov, “uomini che hanno lasciato un segno positivo sulla Russia” ha fatto discutere e riflettere sulla sorte delle statue controverse. “Abbiamo profondo rispetto e apprezzamento per le persone che hanno contribuito allo sviluppo della Russia e sono state associate alla storia del nostro paese”, ha dichiarato un portavoce della Art Russe Foundation alla CNN. “Sia il 26esimo presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt, sia il governatore degli insediamenti russi nel Nord America Alexander Baranov sono stati statisti che hanno lasciato un segno positivo nella storia della Russia. Vediamo quindi la necessità di preservare la loro memoria per le generazioni future”. In particolare, Roosevelt avrebbe un posto importante nella storia russa per aver fatto da intermediario tra Cina e Russia per il Trattato di Portsmouth, azione che gli valse il premio Nobel per la pace nel 1906. Alexander Baranov invece era un commerciante che governava l’America russa. Una sua scultura in bronzo si trova nella città di Sitka, ma le comunità di nativi americani ne hanno chiesto l’abbattimento: Baranov è un “colono che è venuto a Sitka, in Alaska, senza un invito, per arricchire sè stesso, la sua compagnia e il suo paese”, si legge su una petizione, che inoltre lo accusa di aver guidato “l’assalto contro la popolazione locale dei Tlingit”.

STORIE di PIETRA.

Noi occidentali sembriamo avere una fissazione particolare con le statue, poiché cerchiamo di pietrificare il discorso storico, issarlo in alto e insistere su di esso come un’affermazione permanente di fatti, culture, verità e tradizioni che non possono mai più essere messe in discussione, toccate, rimosse o rifuse.

Questa ossessione per le statue confonde l’adulazione con la storia, la storia con il patrimonio e il patrimonio con la memoria.

Tenta di staccare il passato dal presente, il presente dalla moralità e la moralità dalla responsabilità del passato.

In breve, tenta di fissare la nostra comprensione di ciò che è accaduto nella pietra, al di là dell’interpretazione, dell’indagine o della critica.

Ma la storia non è solo epigrafia da scolpire nella pietra o nel marmo. È una disciplina viva, soggetta a scavo, evoluzione e maturazione. Mentre il nostro senso di chi siamo, cosa è accettabile essere e cosa è possibile cambiare, cambia con il tempo, le statue no. Rimangono in piedi, indifferenti al gioco degli eventi, impermeabili alle maree del pensiero che potrebbero travolgerle e ai venti di cambiamento che turbinano intorno a loro – o almeno lo fanno finché non decidiamo di eliminarle, di sostituirle o di innalzarne di nuove.

Le statue contano davvero?

Uno dei più grandi equivoci di fondo quando si tratta di rimuovere le statue è l’argomento che rimuovere una statua è cancellare la storia.

Le statue non sono la storia: sono la rappresentazione selettiva di alcuni personaggi storici.

Sono state istituite per celebrare e tramandare l’operato e il contributo storico di una persona, ma non sono esse stesse storia. Le statue sono simboli di riverenza che elevano un individuo da un momento storico e lo celebrano issandolo in alto e insistendo su un’affermazione permanente di fatti, culture, verità e tradizioni che non possono più essere messe in discussione, toccate e rimosse.

I moti di iconoclastia antirazzista che hanno colpito le statue rappresentano una battaglia sulla memoria che mira a spazzolare il passato contropelo, ripensandolo dal punto di vista del governato, del sottomesso, dello sfruttato e del vinto, non sempre e solo attraverso gli occhi del vincitore. Non vogliono cancellare il passato, si battono per leggerlo anche con lo sguardo degli altri, attraverso la visione degli esclusi, o anche solo per controbilanciare lo sproposito di una narrazione in gran parte maschile e maschilista.

Dopo il cosiddetto caso della sexy-Spigolatrice di Sapri, una polemica scaturita dall’inaugurazione di un’opera pubblica dello scultore Emanuele Stifano avvenuta nella cittadina campana alla presenza dell’ex premier Giuseppe Conte, evento che ha riaperto il dibattito sulla rappresentazione della donna -qui proposta come sensuale, avvolta da una leggerissima veste che ne risalta le forme e che avrebbe in tal modo  confermato la tendenza sessista di oggettivazione del corpo femminile- il censimento dell’Associazione Mi Riconosci ha contato in appena centoquarantotto, quasi assenti nelle grandi città, il numero complessivo di statue e monumenti “al femminile” presenti in Italia.

Ben lungi dall’essere un fenomeno nazionale, anche nel resto del mondo le sculture di donne che vengono riconosciute per aver contribuito a forgiare la storia moderna si contano sulle dita di una mano, ed è in questo senso che le proteste mosse dai movimenti internazionali Black Lives Matter e le conseguenti cancellazioni o rivisitazioni devono essere considerate mobilitazioni femministe antimaschiliste, oltre che antirazziste.

In Italia, il lancio di vernice rosa e la scritta ‘stupratore razzista’ sul monumento a Indro Montanelli, realizzato in bronzo dorato dallo scultore Vito Tongiani e posto nei giardini pubblici di Milano intitolati a Montanelli stesso, è stato condannato all’unanimità come atto «barbaro» da quasi tutti i giornali e i media. Ferito negli anni Settanta da terroristi di sinistra, Montanelli è stato canonizzato come un eroico difensore della democrazia, della libertà e dell’antiberlusconismo. Dopo l’attacco alla sua statua, il coro sostenuto da coloro che lo riconoscono come maestro è che l’anacronismo, cioè la pretesa di giudicare fatti del passato col metro della mentalità contemporanea, sia un errore madornale.

Ma sostenere a oltranza che le azioni compiute all’epoca possano risultare comprensibili e giustificabili solo alla luce del contesto storico di quei tempi è la base dell’ideologia revisionista di destra e tuttavia, questo atto «barbaro» e anacronistico è servito a rivelare a molti italiani quali fossero i valori di Montanelli: negli anni Trenta, quando era un giovane giornalista, celebrava l’Impero fascista; inviato in Etiopia comprò una ragazza eritrea di dodici anni per soddisfare i suoi bisogni sessuali e domestici. Per molti commentatori, questi erano i «costumi del tempo» e quindi qualsiasi accusa di sostegno al colonialismo, al razzismo e al sessismo è ingiusta e ingiustificata.

Contro ogni prova, il padre spirituale di due generazioni di giornalismo italiano negava ostinatamente che l’esercito fascista avesse condotto bombardamenti con gas nervini durante la guerra etiopica. I «barbari» milanesi avevano intenzione di ricordarci questi semplici fatti. Così come siano anche state emesse numerose sentenze dei tribunali italiani nelle colonie in cui si riportarono i casi di nostri connazionali processati perché avevano abusato di dodicenni e tredicenni, poi assolti perché secondo “le usanze locali” le bambine di quell’età erano già pronte per il matrimonio. «Qui sta l’ipocrisia di fondo perché se all’epoca un italiano avesse stuprato una bambina di 12 anni in Italia, in carcere ci sarebbe andato eccome, ma con la scusa dell’usanza locale si chiudeva un occhio», chiarisce Emanuele Ertola, autore di “In terra d’Africa. Gli italiani che colonizzarono l’impero” (Laterza).

Visibile on line su Youtube https://youtu.be/PYgSwluzYxs si trova l’estratto della celebre intervista a Montanelli riguardo il suo matrimonio con la bambina eritrea ai tempi dell’avventura coloniale fascista in Etiopia, raccolta  dal programma “L’ora della verità” RAI 1969, e dove, oltre alle sue esternazioni, anche l’insieme delle argomentazioni che gli vengono direttamente sottoposte dall’attivista femminista Elvira Banotti, consentono un libero giudizio personale anche sul proseguo dei fatti legati alla ben nota vicenda di cronaca recente.

Poco tempo dopo che il movimento dei “Sentinelli di Milano” ne avesse chiesto la rimozione al Sindaco Sala e immediatamente dopo l’imbrattamento e conseguente pulizia/ripristino della scultura contestata, ha preso il via la campagna Decolonize the City, avviata con l’obiettivo di aprire un dibattito pubblico sul colonialismo, sul suprematismo, sul razzismo e sulla violenza, promossa da gruppi di immigrati e da militanti dei centri sociali milanesi.

Una prima azione, documentata attraverso una diretta Facebook, ha visto gli attivisti posizionare nello stesso luogo, accanto a quella di Montanelli, una nuova statua in ferro, creata dall’artista senegalese Mor Talla Seck, raffigurante l’ex presidente del Burkina Faso Thomas Sankara.

“Da oggi Milano ha un monumento pubblico realizzato da un artista africano, da oggi i giardini di porta Venezia hanno una statua dedicata a Thomas Sankara, rivoluzionario della Resistenza e della Liberazione al colonialismo”, ha spiegato il Centro Sociale Cantiere.

Per il collettivo, Sankara è un “simbolo che parla della realtà dello sfruttamento coloniale e neocoloniale europeo in Africa, ma anche della resistenza e della liberazione del Burkina Faso e dell’intero continente. Questa statua è un atto di condivisione di sapere, un modo per affermare che non esiste un’unica memoria, un’unica storia e un’unica verità”. La targa posta dall’autore sotto alla statua recitava: “Dobbiamo decolonizzare la nostra mentalità e raggiungere la felicità”.

Primo risultato: immediata rimozione/sequestro dell’opera, così giustificata dall’assessore regionale all’Immigrazione e alla Sicurezza, Riccardo De Corato, “questa statua celebra un leader africano che nulla ha a che fare con la nostra storia”, screditando l’operazione come “atto folle e fuori da qualsiasi regola”.

Secondo risultato: controrisposta su Twitter da parte degli organizzatori: Appuntamento Sabato 24 ottobre 2020, ore 17.00 alla Statua Che Non C’è. Nuova inaugurazione pubblica e vernissage. Oggi sabato 24 ottobre abbiamo inaugurato la Statua che Non C’è. Rimuovendo la statua hanno realizzato una nuova opera: il monumento alla rimozione del colonialismo, involontariamente realizzato da chi ha rimosso la statua di Sankara, ai giardini pubblici di Porta Venezia.

Terzo risultato: dopo poco più di una anno la statua di bronzo raffigurante Indro Montanelli intento a scrivere, è divenuta oggetto di una ulteriore “incursione artistica” della street artist Cristina Donati Meyer, la quale, ponendo sulle braccia del giornalista il fantoccio di una bambina al posto dell’iconica macchina da scrivere, denunciava quel matrimonio con una dodicenne eritrea del quale lo stesso Montanelli aveva parlato in tv, trasformandola di fatto in una nuova e sovversiva installazione artistica o, per meglio dire, artivistica. “Il monumento a Indro Montanelli”, ha affermato l’artista “così è completo. Non occorreva colorare la statua, era sufficiente aggiungere, sulle ginocchia del vecchio, la bambina eritrea di 12 anni della quale abusò da soldato colonialista e fascista”.

La riproduzione di quella installazione, intitolata “Il vecchio e la Bambina” con in braccio lo stesso fantoccio apparso nel parco, è ora esposta in forma permanente nella quarta sala della sezione dedicata alla decolonizzazione, presso il Mudec Museo Pubblico delle Culture di Milano,  nell’ambito dell’esposizione “Milano globale: il mondo visto da qui”, un racconto in cui le storie dei singoli si intrecciano ai grandi processi storici globali tra passato e presente dell’eredità coloniale.

Walter Benjamin sosteneva il concetto che la storia del progresso è valutata e vista da una prospettiva distorta, in quanto definita dalla narrazione fatta dai vincitori e che, di conseguenza, la nostra vera missione nel presente è redimere il passato. Quando lo facciamo, cambiamo la nostra intera visione della storia dal nostro punto di vista. In tal modo, ci stiamo impegnando in uno strano tipo di viaggio nel tempo, in cui il tempo stesso si ferma, il passato balza in avanti nel presente e viene redento.

Questo è esattamente ciò che accade, ad esempio, quando una statua che commemora coloro che hanno sfruttato la schiavitù, costruita con le ricchezze rubate attraverso lo sfruttamento della schiavitù, viene trasformata in uno spazio di comunità e gioia dai discendenti degli schiavi in ​​una sola notte. C’è chi diceva che solo nell’immediata sconfitta di un sistema si può godere la vera libertà: nei momenti di distruzione e appropriazione di questa tipologia di monumenti, ogni momento del passato viene richiamato all’istante, per essere redento nel presente.

Valutato sotto quest’ottica, eliminare i simboli di un monumento allo scopo di ridefinirli o di riappropriarsene, può essere considerata una delle massime forme di libertà raggiungibili dal diritto alla trascrizione della memoria pubblica e sociale.

Forse è a conferma e a garanzia di tutto ciò che con il consenso unanime è stata trovata una soluzione definitiva e collocata una nuova statua in cima al piedistallo vacante di Bristol: è una copia a grandezza naturale, un calco 3D realizzato dall’artista Marc Quinn che riproduce e imita la figura, il volto e il gesto di una giovane donna, ritta, ferma, con il braccio alzato e lo sguardo determinato a guardare lontano.

La statua è stata chiamata A Surge of Power -Un’Ondata, Una Sollevazione, Un Impeto di Forza, Potenza ed Energia; lei, donna simbolo di una irremovibile responsabilità è chiamata e conosciuta con il nome di Jen Reid, prima cittadina e manifestante inglese nera a salire sul basamento vuoto subito dopo l’abbattimento di Colston alzando il pugno in segno di vittoria e di presa di posizione permanete nella coscienza antirrazista della nostra civiltà europea.

Alcuni sostengono che le statue non influiscano direttamente sulla vita delle persone; rappresentano solo qualcosa di simbolico e che liberarsi delle statue non ha un guadagno concreto per gli individui. Questo sarebbe probabilmente vero se le statue fossero autonome, se non venissero accoppiate con le storie che invocano cancellandone altre o per raggiungere determinati obiettivi ideologici.

Invece le statue, nella presenza fisica e nelle storie che occupano, rivendicano spazi e tempi, servono come capsule del tempo, ossessionate dal passato, e portano alla luce degli spettatori nel presente una visione riduttiva, parziale e di parte.

Tutti hanno notato che le statue non sono una registrazione neutrale della storia. Sono spesso celebrazioni di personaggi le cui opinioni e azioni erano oltraggiose e crudeli anche per gli standard morali del loro tempo. Ma oltre a ciò, quando molte statue furono erette c’era già una notevole opposizione alle gesta che avevano reso questi uomini (e sono quasi tutti uomini) ricchi e famosi.

Non stiamo parlando di opere d’arte: nessuno vuole rovesciare la Venere di Milo o il David di Michelangelo. Tali oggetti artistici rappresentano idee o astrazioni che possono arricchire la nostra vita, farci pensare. Nessuno vuole abbattere il Vietnam Veterans Memorial a Washington DC, il Memoriale dell’Olocausto a Berlino o il Memoriale della Carestia a Dublino. Queste opere svolgono l’importante doppia funzione di commemorazione pubblica e di pubblica denuncia.

Ma la statua di uno schiavista o di un conquistatore militare sono inaccettabili in quanto incoraggiano un’idolatria insidiosa e corruttrice. A chi strilla che “il passato non si cancella”, bisogna ribattere che un nome, un monumento o una statua, se stanno in strada non sono il passato, bensì il presente. E se ci restano, sono pure il futuro.

 

DI SEGUITO GLI ARTICOLI PRECEDENTI DI FRANCO FERIOLI SULLA CANCEL CULTURE

CANCEL CULTURE. La cultura della cancellazione della cultura

 

La cultura della cancellazione della pace – seconda parte

https://pagineesteri.it/2022/03/31/mondo/la-cultura-della-cancellazione-della-storia-terza-parte/

https://pagineesteri.it/2022/04/22/primo-piano/cancel-culture-la-cultura-della-cancellazione-della-democrazia-quarta-parte/