a cura di  COSPE ONLUS*

Pagine Esteri, 10 maggio 2022 – In Palestina ogni voce parla di terra. Terra che è casa, nutrimento, vita. Terra che è passato, presente e futuro. Nelle storie di vita di donne e uomini palestinesi la terra è tanto un elemento ricorrente quanto una variabile effimera ed incerta. La Palestina è la loro terra natìa, il suolo che trattiene le loro radici, dono e tesoro che necessita di estrema cura.

La premura di Fares per la sua terra era incommensurabile. Fares è un insegnante universitario palestinese e vive a Jenin. Fino a Settembre 2020, ogni weekend tornava a Kufr ad-Dik, suo villaggio d’origine situato nel governatorato di Salfit, per far visita alla sua famiglia e lavorare l’appezzamento di terra a pochi chilometri dal centro abitato. Il suo sorriso accoglieva i visitatori, ed i suoi passi, sempre saldi e decisi, guidavano ogni ospite nel percorso impervio e sassoso tra gli ulivi che conduceva in cima alla sua terra. La terra di Fares si trova su una collinetta, ricopre un’area totale di circa 20 dunum[1] e culmina con un piccolo altipiano. Se dai piedi della collina non si scorgono che ulivi, non appena si raggiunge la sommità, un panorama inaspettato coglie il visitatore di sorpresa: la terra di Fares ospita un vero e proprio sito archeologico. Pavimenti mosaicati, mura basse a disegnare stanze intere, pozzi e sezioni di colonne con incisioni e capitelli decorati. L’appezzamento di terra si trova a Deir Sam’an, ad ovest di Salfit, città nella Cisgiordania occupata militarmente da Israele dal 1967, ed in area C, area sotto totale controllo israeliano. DeirSam’an costituisce un sito archeologico che risale al periodo romano. Più di 20 anni fa, gli scavi hanno portato alla luce resti di una fortezza romana, un monastero bizantino e un piccolo frantoio del periodo islamico[2], rovine che rivelano una presenza ininterrotta di diverse civiltà.

Colonie e filo spinato: il controllo di Israele sul sito archeologico di Deir Sam’an

“Questo posto è per tutti, per l’umanità intera, per ogni singola persona nel mondo”. Fares si è impegnato per anni a preservare come meglio ha potuto il sito archeologico di straordinaria bellezza che giace sulla sua terra. Fino a Settembre 2020, quando l’esercito israeliano ha ufficialmente espropriato il terreno.

In realtà, la confisca non è stata altro che l’ultima fase di un processo di espropriazione pianificato ed attuato, giorno dopo giorno, dall’Amministrazione Civile Israeliana (ICA), un’unità militare che amministra le questioni civili nell’Area C della Cisgiordania. Infatti, ancora prima dell’esproprio, né Fares né la sua famiglia avevano libero accesso alla loro proprietà a causa delle misure adottate dalle autorità israeliane, che non solo hanno eretto una recinzione di ferro e filo spinato su tre dei quattro lati della proprietà, ma hanno anche distrutto l’unica strada percorribile quindi necessaria per permettere la lavorazione della terra e degli ulivi. Già un anno prima della confisca, l’appezzamento di terra era di fatto irraggiungibile, soltanto per Fares e la comunità palestinese però.

Foto di Cospe Onlus

Un cancelletto, installato su uno dei tre lati recintati, costituiva, e costituisce ancora oggi, il punto di accesso più comodo e veloce. Collocato dalle autorità israeliane lungo la strada che circonda gli insediamenti vicini, quel punto d’ingresso è, tuttavia, riservato all’utilizzo esclusivo dei coloni israeliani che possiedono il codice per aprirlo, al contrario di Fares che quel codice non lo ha mai avuto nonostante la terra fosse di sua proprietà.  Le colonie ed i loro abitanti stanno rapidamente accerchiando il sito archeologico, in particolare dal 2010 e dalla fondazione della colonia di Leshem, la terza nella zona e la più recente[3]. Costruita sul lato nord-occidentale dell’appezzamento di terra, Leshem confina con Alei Zahav e Peduel, altri due insediamenti illegali[4]israeliani costruiti rispettivamente nel 1982 e 1984[5]. Oggi, le tre colonie, in continua espansione, formano un anello che circonda e strangola la terra di Fares, ormai isolata e distante dalle vallate e dai villaggi palestinesi più vicini. I tre insediamenti sono parte di una striscia di colonie ed aree industriali israeliane nel governatorato di Salfit che connette Israele ad Ariel, uno dei blocchi di colonie che lo stato occupante ha intenzione di annettere[6].

“Dieci anni fa c’erano solo poche unità abitative. Oggi grandi insediamenti circondano la mia terra su ogni lato. La fondazione e creazione delle colonie è chiaramente parte del piano strategico di Israele di frammentare la Cisgiordania. Una lunga striscia di insediamenti, uno dopo l’altro, sta velocemente unendo Israele alla Valle del Giordano”.

 

Espropriazione della terra secondo il Diritto Internazionale

L’ordine di confisca consegnato a Fares nel Settembre 2020 e, ancora prima, l’imposizione di restrizioni all’accesso e alla coltivazione del suo appezzamento di terra rappresentano un’espropriazione de jure e de facto, a beneficio delle comunità di coloni che vivono negli insediamenti circostanti. Fares non gode quindi, in primo luogo, del diritto alla proprietà privata, sancito dall’articolo 17 della Dichiarazione Universale dei diritti umani. Inoltre, il Diritto Internazionale dei Conflitti Armati (DICA), ed in particolare l’articolo 46 dei Regolamenti dell’Aja del 1907, vietano l’espropriazione della terra e la confisca della proprietà privata[7]. Il divieto è ancora più categorico se la proprietà in esame costituisce un bene culturale, secondo quanto stabilito dalla Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato adottata a l’Aia nel 1954 e dal suo Primo protocollo, i quali definiscono protezioni specifiche per i beni culturali e pongono le basi per l’attribuzione di responsabilità penale individuale[8].

Gli insediamenti hanno avuto ed hanno tutt’oggi un impatto serio e multiforme sulla preservazione del sito e sul suo stato attuale. L’utilizzo di bombe e bulldozer nei lavori di costruzione della colonia, andati avanti senza interruzione dal 2010 fino ad oggi per la costruzione di nuove unità abitative, secondo quanto riporta Fares, ha danneggiato parte del sito archeologico e delle rovine.

Inoltre, la rapida espansione delle colonie circostanti, ed in particolare di Leshem, che ha contato, solo nel 2018, l’aggiunta di oltre 200 unità abitative[9], ha comportato un aumento esponenziale della popolazione di coloni nell’area: tutto ciò ha inevitabilmente ed ulteriormente alterato il sito archeologico, impedendone la conservazione, e ne ha modificato l’effettiva proprietà. Infatti, l’accesso agevolato dei coloni alla terra ne rende di fatto i maggiori fruitori. Il sito archeologico è ormai divenuto per loro un luogo ricreativo, con i resti che fanno da sfondo ai picnic dello Shabbat e gli antichi pozzi e le grandi vasche che diventano piscine in cui tuffarsi. Quasi come non fossero consapevoli di trovarsi in un luogo d’importanza storica oltre che in una proprietà privata, la loro diffusa disattenzione e poca premura ha già provocato danni irreparabili a parte delle rovine.

“Solo poche settimane fa un gruppo di coloni ha danneggiato un’antica roccia che apparteneva al castello romano.” Oltre alla noncuranza e disattenzione dei coloni israeliani, gli scavi ed il vero e proprio saccheggio, documentato da Fares sulla sua proprietà, non hanno di certo contribuito alla doverosa conservazione di un tale sito archeologico, parte dell’eredità storica e culturale della Palestina. Infatti secondo quanto ricorda e racconta il palestinese, nel 1996 le autorità israeliane chiusero l’intera proprietà per due anni consecutivi per condurre degli scavi archeologici. Alla fine dei due anni, Fares notò che “mentre alcuni resti erano stati danneggiati durante i lavori, altri non erano più lì. Le autorità avevano portato via alcune componenti del sito”. Anche dopo quei due anni di scavi, le autorità israeliane hanno continuato a confiscare artefatti, spostandoli poi “in qualche museo in Israele dove oggi sono esposti”, secondo quanto testimoniato da Fares.

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“Portando via pezzi dal sito, gli Israeliani ci stanno rubando pezzi della nostra storia e del nostro patrimonio culturale”.

Le pratiche autorizzate ed adottate dalle autorità israeliane ed il comportamento e le attività dei coloni hanno danneggiato il sito di Deir Sam’an in modo permanente. Alcune delle sue parti sono andate del tutto perdute. In definitiva, il danneggiamento e l’alterazione del sito contribuiscono al graduale deterioramento ed alla perdita del legame del popolo palestinese con la loro terra e la loro storia.

Il diritto internazionale e la protezione dei beni culturali

La tutela dei beni culturali

I trattati e le norme consuetudinarie del Diritto Internazionale dei Conflitti Armati (DICA) il cui ambito di applicazione si estende ad una situazione di occupazione militare, come nel caso dei territori palestinesi occupati, contemplano protezioni legali a tutela dei beni culturali. I principi di distinzione, proporzionalità e necessità militare salvaguardano da attacchi indiscriminati qualsiasi obiettivo civile tra cui beni culturali non utilizzati a scopi militari. L’articolo 56 dei Regolamenti dell’Aja del 1907 garantisce protezione alla proprietà culturale specificamente in un contesto di occupazione militare, conferendole lo stato di proprietà privata[10]. Inoltre, l’articolo 53 della IV Convenzione di Ginevra relativa alla protezione delle persone civili in tempo di guerra del 1949 proibisce la distruzione della proprietà privata a meno che tale distruzione non sia resa assolutamente necessaria dalle operazioni militari[11]. Norme consuetudinarie del DICA vietano la confisca, la distruzione, il danneggiamento intenzionale, il furto, il saccheggio e l’appropriazione indebita di ogni proprietà culturale o di suoi elementi, contro cui è vietato anche qualsiasi atto vandalico.

Il danneggiamento intenzionale e gli atti vandalici

Gli ininterrotti lavori di costruzione nell’insediamento di Leshem ed i ripetuti atti vandalici dei coloni a Deir Sam’an, documentati da Fares negli ultimi anni, hanno danneggiato il sito e ne hanno alterato lo stato e la preservazione, già compromessi dagli scavi che le autorità israeliane condussero tra il 1996 e il 1998. Anche volendo concedere che i danneggiamenti provocati dalle opere edilizie non siano stati intenzionali, l’Amministrazione Civile Israeliana (ICA) è quantomeno colpevole sotto il profilo della negligenza per non aver mai adottato alcuna misura volta a limitare il deterioramento del sito ed impedire ulteriori danni. Lo stato di Israele viola una norma consuetudinaria di diritto internazionale la quale vieta la confisca, la distruzione o il danneggiamento intenzionale di monumenti storici e ogni atto vandalico diretto contro proprietà di grande importanza per l’eredità culturale di ogni popolo[12]. La Convenzione per la protezione di beni culturali in caso di conflitto armato (1954) ed il suo Protocollo I pongono ulteriormente l’accento su questo divieto[13]. Israele è parte contraente della suddetta convenzione e del suo primo protocollo, i quali sono, pertanto, entrambi applicabili. Di contro, Israele non ha mai firmato né ratificato il secondo protocollo il quale non solo prevede ulteriori tutele, ancor più specifiche, per i beni culturali in una situazione di occupazione militare, ma istituisce altresì una responsabilità penale individuale in caso di gravi violazioni.

Scavi illegali

Le attività di scavo del 1996-1998 ed il loro impatto sul sito archeologico di Deir Sam’an sollevano serie questioni sulle responsabilità e sui divieti istituiti nelle pertinenti norme di Diritto Internazionale. I lavori di scavo per un verso e le loro ripercussioni sul sito archeologico per un altro costituiscono due questioni da affrontare separatamente. Quanto agli scavi, questi violano l’articolo 32 delle Raccomandazioni sui principi internazionali applicabili agli scavi archeologici in forza del quale gli Stati Membri UNESCO non dovrebbero condurre scavi in territorio occupato. Sebbene tale disposizione non sia vincolante né si applichi allo stato di Israele (ormai non più stato membro di UNESCO dal 2019[14]), l’obbligo di supportare le autorità nazionali del territorio occupato nel condurre gli scavi è una norma di Diritto Internazionale consuetudinario in quanto deriva dalla responsabilità dello Stato Occupante di supportare le stesse in linea generale. Essa stessa, quindi è norma consuetudinaria e vincolante per Israele[15] così come per tutti gli stati. Nel caso di Deir Sam’an, Israele non si è attenuto al suo dovere ed ha gestito i lavori di scavo senza nemmeno coinvolgere le autorità nazionali, come in tutti gli altri siti in Area C della Cisgiordania, secondo quanto riportato più avanti.

La confisca e l’appropriazione indebita di artefatti

Al termine degli scavi, Fares ha constatato la sottrazione di diversi reperti. La confisca di diverse componenti del sito archeologico ed il loro trasferimento in Israele violano diverse norme di DICA ed altre regole più specifiche relative alla protezione dei beni culturali. In primo luogo, Israele ha agito in violazione del già menzionato art. 40 relativo all’appropriazione indebita e alla confisca dei beni culturali[16]. Inoltre, la rimozione di alcuni dei resti da Deir Sam’an infrange l’articolo 52 dei Regolamenti dell’Aja il quale vieta l’appropriazione di beni mobili ed immobili ed è vincolante per Israele. La Regola 41 del diritto consuetudinario affida allo stato occupante la responsabilità di impedire l’esportazione di beni culturali dal territorio occupato e di “restituire la proprietà illecitamente esportata alle competenti autorità nazionali del territorio occupato”[17]. Nonostante la Convenzione UNESCO concernente le misure da adottare per interdire e impedire l’illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà di beni culturali del 1970 vieti il trasferimento di proprietà di beni culturali, garantendone ulteriori protezioni, Israele non è Stato membro della Convenzione che, di conseguenza, non è né applicabile né tantomeno vincolante. Lo stato occupante non è comunque riuscito ad adempiere ai propri doveri, nel caso in esame così come in altri siti archeologici nei territori occupati[18], e l’Ordine Militare n. 1166 permette formalmente alle autorità israeliane (lo Staff Officer per l’archeologia, come spiegato poi di seguito) di “prendere in prestito” gli artefatti, dando loro il via libera alla confisca ed al trasferimento di artefatti dalla Cisgiordania ad Israele[19].

Il danneggiamento provocato al sito di Deir Sam’an attraverso i lavori nella vicina colonia di Leshem, il vandalismo dei coloni, così come pure gli scavi e la conseguente appropriazione indebita di artefatti costituiscono tutti quanti danni alla storia materiale del popolo palestinese. Israele sta violando le responsabilità derivanti dalla consuetudine del diritto internazionale, non rispettando le tradizioni della popolazione protetta[20], ossia la popolazione del territorio occupato, e negando ai palestinesi il loro diritto di partecipare alla vita culturale e, soprattutto, il loro sacrosanto diritto all’autodeterminazione, come approfondito nell’ultimo box legale.

Sebbene sia importante sottolineare e denunciare l’impatto negativo di coloni ed insediamenti sul sito archeologico, Fares, così come decine di migliaia di proprietari terrieri palestinesi in tutta la Cisgiordania occupata, subisce tutti gli effetti devastanti dell’espansione delle colonie e le attività negli insediamenti, i quali non risparmiano i suoi olivi secolari. Infatti, le polveri che provengono dai cantieri nelle colonie, specialmente da Leshem, hanno compromesso la salute delle piante e della terra, contaminata anche dalle acque scure di Alei Zahav scaricate su terra di palestinesi, una pratica abbastanza comune nei territori occupati[21].

Igiene ambientale

Lo scarico delle acque reflue degli insediamenti israeliani su terra palestinese è una pratica abbastanza comune e diffusa nei territori occupati ed ha pesanti effetti su alcuni diritti fondamentali della popolazione locale. Attraverso questa pratica sistematica, Israele viola il diritto dei palestinesi al cibo e all’acqua. Quest’ultimo è declinazione, a sua volta, sia del diritto ad uno standard di vita adeguato ex articolo 11 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (ICESCR), sia del diritto di ogni individuo a godere delle migliori condizioni di salute fisica e mentale ex articolo 12(1) dello stesso trattato[22]. Per tutelare il diritto dei palestinesi alla salute e ad uno standard di vita adeguato, Israele dovrebbe assicurare che le riserve d’acqua non vengano contaminate, misura fondamentale per garantire l’igiene ambientale. Al contrario, lo stato occupante non ha adottato misure efficaci per evitare la contaminazione delle falde acquifere, in violazione dei suo obblighi definiti nel dettaglio dal Comitato per i diritti economici, sociali e culturali (CESCR) nel Commento Generale numero 15[23]. Inoltre Israele permette ad interi insediamenti, di solito situati sulle alture, di continuare a scolare le acque scure su terre palestinesi, quasi sempre situate a valle. Ciò costituisce una pratica illecita che provoca l’inquinamento della terra e delle falde acquifere ed ha un enorme impatto sui prodotti agricoli e sugli animali e, di conseguenza, sulla salute dei palestinesi. Attraverso questa pratica Israele non adempie a una delle responsabilità cardine del potere occupante in territorio occupato, ossia il dovere di proteggere la popolazione indigena, definita anche “popolazione protetta” dal DICA, e di assicurare la loro sicurezza, come stabilito dall’articolo 43 nei Regolamenti dell’Aja[24].

Foto di Cospe Onlus

Occupare, espropriare, dominare: l’archeologia che diviene strumento di oppressione

“Ho costruito la strada e loro l’hanno demolita. Hanno costruito poi una recinzione ed hanno chiuso l’unico cancello. Questo per me significa che, molto presto, come molti altri palestinesi in Cisgiordania, avrò bisogno di un permesso per entrare nella mia stessa terra.”

Fares aveva previsto l’espropriazione della sua terra, una pratica comune nei territori occupati sebbene illegale[25], mesi prima della consegna da parte delle Autorità Israeliane dell’ordine di confisca. Da Settembre 2020 è riuscito ad accedere alla sua proprietà solamente una volta ed in quell’occasione ha comunque dovuto richiedere un permesso speciale all’Amministrazione Civile Israeliana ed è stato costretto e coordinare il suo ingresso con l’esercito Israeliano. Al contrario, i coloni continuano ad accedere al sito archeologico liberamente. Questi doppi standard, oltre a rappresentare una grave forma di discriminazione, confermano la volontà delle autorità israeliane di rendere il sito parte integrante del blocco di insediamenti e luogo ricreativo per i coloni dell’intera zona. Israele ha ormai acquisito il controllo totale su Deir Sam’an. In realtà, guadagnare totale controllo ed appropriarsi dei siti archeologici e del patrimonio storico e culturale nella Cisgiordania occupata, ed ancora di più in Area C, è una pratica comune e sistematica dello stato occupante, così come un suo obiettivo strategico ed esplicito sin dagli inizi dell’occupazione.

Lo Staff Officer per l’archeologia (SOA) è la figura istituita dall’ICA per l’amministrazione dell’archeologia e delle rovine nei territori palestinesi occupati ed è responsabile di tutti i siti d’interesse storico in Cisgiordania, circa 2300[26], insieme all’unità per l’archeologia guidata proprio dall’SOA. Le responsabilità dello Staff Officer includono, inter alia, il rilascio delle licenze necessarie per condurre scavi archeologici, la supervisione degli scavi, e la preservazione e gestione dei siti archeologici. L’unità per l’archeologia conduce poi la maggior parte degli scavi[27]. Sebbene gli accordi di Oslo prevedano il trasferimento graduale delle responsabilità nell’ambito dell’archeologia dal potere occupante all’Autorità Palestinese, oggi è ancora l’amministrazione civile israeliana, tramite l’SOA, a gestire il patrimonio culturale e storico in Cisgiordania ed in particolare in Area C[28]. Non vi è alcun tipo di rappresentanza palestinese nelle maggiori istituzioni o organi decisionali israeliani che operano nell’ambito dell’archeologia; inoltre, le istituzioni palestinesi sono totalmente escluse da qualsiasi questione riguardante i siti archeologici in Area C, dalla fase degli scavi all’esposizione delle rovine e degli artefatti ed alla gestione dei siti. Lo stesso vale per i proprietari terrieri palestinesi sulle cui terre giacciono i siti archeologici. Israele nega all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) perfino l’accesso ai siti archeologici; l’ANP di conseguenza, non può condurre scavi, lavori di restauro o conservazione, né può monitorare eventuali furti di artefatti[29].

Nell’Area C della Cisgiordania, l’archeologia è quindi nelle mani d’Israele che l’ha resa uno strumento di oppressione ed espropriazione, ed un mezzo attraverso cui manipolare e riscrivere la storia con l’obiettivo di legittimare la presenza e l’ulteriore insediamento del popolo ebraico nei territori palestinesi. Guadagnare il controllo fisico dei siti archeologici in terra palestinese rappresenta, in primo luogo, una strategia di Israele per appropriarsi di appezzamenti di terra sempre più vasti da destinare all’espansione degli insediamenti illegali. L’SOA assicura il controllo sui siti archeologici principalmente attraverso la concessione di licenze che autorizzano gli scavi. Tra il 2007 e il 2014, il 90% delle richieste di licenze sono state avanzate per i soli interessi dei coloni e dello stato di Israele. Questi dati dimostrano come gli scavi siano più uno strumento di appropriazione della terra per la costruzione e l’espansione degli insediamenti piuttosto che delle misure con fini di ricerca, o mirate alla conservazione o al restauro degli stessi siti archeologici[30].

Allo stesso tempo, il controllo fisico contribuisce ad un secondo obiettivo del potere occupante: impadronirsi della storia del territorio per riaffermare e rafforzare “l’affinità storica, religiosa e culturale del popolo ebraico e dello stato di Israele alla Cisgiordania”, consolidando ulteriormente le “rivendicazioni sioniste sulla terra di Israele in quanto patria legittima degli ebrei”[31]. L’assegnazione della gestione dei maggiori siti da parte dell’SOA all’Autorità Israeliana della Natura e dei Parchi (Israel Nature and Parks Authority, INPA) o ad organi legati alle colonie, istituzioni con un’ideologia a favore degli insediamenti in Cisgiordania, diventa strumentale alla promozione della narrativa nazionalista in tutti i luoghi d’interesse storico e culturale[32]. Infatti l’allestimento e la presentazione dei siti favorisce quasi sempre il carattere ebraico del luogo e non menziona deliberatamente qualsiasi tipo di legame del posto con il popolo Palestinese e la sua storia, omettendo, e quindi ignorando, la molteplicità degli strati che comproverebbero la presenza di diverse e numerose popolazioni e culture oltre a quella ebraica[33]. È importante sottolineare che la maggior parte dei siti d’interesse storico e culturale in Cisgiordania abbiano oggi nomi ebraici[34]. Inoltre, la sempre più stretta collaborazione tra ICA e SOA, che operano nei territori occupati, con l’Autorità delle Antichità Israeliana (IAA) e l’INPA, le quali lavorano sull’archeologia in Israele, mostra l’intenzione dello Stato Occupante di compiere una graduale integrazione ed annessione di fatto dell’Area C della Cisgiordania ad Israele anche attraverso l’archeologia[35].

Includere i siti archeologici nei confini degli insediamenti si rivela un obiettivo sempre più chiaro di Israele. Questo tipo di espropriazione avviene a livello individuale, colpendo il legittimo proprietario della terra, ed a livello collettivo, in quanto l’intero popolo palestinese viene privato in questo modo dell’accesso e della libera fruibilità dei propri siti storici. Una tale strategia, infine, oltre ad avere un impatto sulla geografia e sul controllo del territorio, ha conseguenze significative anche su un piano psicologico e storico. Ogni sito viene presentato e descritto ai visitatori ed ai turisti attraverso la narrativa unilaterale proposta da Israele, sulla quale i Palestinesi non hanno alcun tipo di controllo[36] mentre il popolo palestinese, separato fisicamente e psicologicamente dal proprio patrimonio storico e culturale, viene lentamente privato della sua stessa storia impotente di fronte alla situazione attuale: quella di un’occupazione militare che si protrae da più di cinque decenni.

L’archeologia nei territori palestinesi occupati ed il Diritto Internazionale

L’illegalità delle misure di Israele nell’ambito dell’archeologia

Il totale controllo sulla gestione delle attività archeologiche in Cisgiordania permette ad Israele di appropriarsi dei siti archeologici nell’Area C dei territori occupati, appropriazione intenzionale che viola diverse norme del DICA. In primo luogo, in un contesto di occupazione militare lo Stato Occupante ha il dovere di supportare le autorità nazionali nella gestione dell’archeologia e dei beni culturali, ex Articolo 5 della Convenzione dell’Ajadel 1954[37]. Di contro, Israele ha assunto, in maniera unilaterale, il totale controllo sulla gestione dell’archeologia in Area C della Cisgiordania ed ha escluso qualsiasi forma di partecipazione dei Palestinesi. A tal fine, lo stato occupante ha modificato la legislazione nazionale in materia di archeologia vigente nei territori occupati, ossia la legge giordana sulle antichità (Jordanian Antiquities Law) del 1966, violando l’articolo 43 dei Regolamenti dell’Aja che vieta la modifica della legislazione interna a meno che non sia una misura strettamente necessaria per garantire la sicurezza, adempiere ad altre responsabilità dettate del DICA, o provvedere ad un’amministrazione efficiente[38]. Queste eccezioni non si applicano al caso in questione, pertanto le modifiche apportate alla legislazione nazionale non sono lecite e non solo non servono gli interessi della “popolazione protetta” ma comportano anche ulteriori violazioni del DICA e del DIDU (Diritto Internazionale dei Diritti Umani).

Le attuali misure amministrative in materia di archeologia nell’Area C della Cisgiordania violano, inoltre, l’articolo 27 della Quarta Convenzione di Ginevra secondo il quale Israele dovrebbe rispettare le consuetudini ed i costumi delle persone protette[39], e non si attengono alla responsabilità dello Stato Occupante di assicurare la vita civile, ex articolo 43 dei Regolamenti dell’Aja[40]. Le politiche di Israele sull’archeologia nei territori occupati rappresentano, quindi, una forma di interferenza non necessaria oltre a costituire un’ingerenza negli affari interni della popolazione protetta. Tale ingerenza diviene poi uno strumento attraverso il quale Israele promuove una narrativa unica che, come già spiegato sopra, mira, a sua volta, a rafforzare il legame degli israeliani con i territori palestinesi. Pertanto Israele sta intenzionalmente negando al popolo Palestinese il diritto di partecipare alla vita pubblica così come anche i diritti culturali, protetti dal Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, quali il diritto a prendere parte alla vita culturale di un paese, ex Articolo 15 del suddetto Patto[41].

Perpetuare una situazione di illegalità attraverso l’archeologia

Se da un lato la modalità di gestione dell’archeologia non è conforme a diverse norme e principi del Diritto Internazionale, il fatto che l’archeologia venga strumentalizzata al fine di creare o perpetuare realtà esse stesse illecite aggiunge un ulteriore livello di illegalità. L’utilizzo dell’archeologia per espropriare terra ed impedire lo sviluppo dei villaggi palestinesi contribuisce ulteriormente al trasferimento forzato della popolazione protetta, vietato dal DICA[42] e crimine contro l’umanità secondo l’articolo 7 dello Statuto di Roma[43]. L’archeologia diviene inoltre strumentale alla fondazione di nuovi insediamenti, ad esempio attraverso scavi archeologici che aprono la strada alla costruzione di unità abitative. In più, l’apertura di musei dentro gli insediamenti e la crescente tendenza a delegare la gestione di siti archeologici in Cisgiordania ad organizzazioni di coloni legittima ulteriormente gli insediamenti. In questo senso l’archeologia perpetua una situazione di illegalità, ossia l’attività di colonizzazione nei territori occupati, vietata dall’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra[44]. Infine la graduale integrazione di Israele e Area C della Cisgiordania, attraverso la crescente collaborazione tra ICA e SOA – autorità responsabili dell’archeologia nei territori occupati – con l’IAA e INPA – preposti all’archeologia in Israele –, dimostra che lo stato occupante non ha alcuna intenzione di cedere il controllo all’autorità palestinese, né adesso né in futuro[45]. Al contrario, anche questo rappresenta un ulteriore passo verso l’annessione dell’Area C della Cisgiordania ad Israele, una grave violazione di una norma perentoria di Diritto Internazionale: l’acquisizione della terra con la forza, vietata dall’articolo 2(4) della Carta delle Nazioni Unite.

L’archeologia ed il diritto inalienabile del popolo palestinese all’autodeterminazione

In ultima analisi, l’archeologia rappresenta un ulteriore mezzo di espropriazione ed oppressione attraverso il quale Israele viola il diritto dei Palestinesi all’autodeterminazione. Secondo la Carta del consiglio internazionale sui monumenti ed i siti per la protezione e la gestione dell’eredità archeologica, (Carta ICOMOS) i siti archeologici sono parte integrante delle tradizioni viventi dei popoli indigeni, pertanto la loro partecipazione attiva al loro patrimonio ed eredità culturale è essenziale nella definizione ed affermazione della loro stessa identità[46]. Negando alla popolazione protetta l’accesso, la proprietà e la gestione dei siti culturali situati in territorio palestinese, Israele vuole cancellare l’identità palestinese e la loro abilità di perseguire “liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale”, ex Articolo 1 comune ad entrambi i Patti Internazionali (ICCPR e ICESCR). Il diritto all’autodeterminazione è un principio centrale del diritto internazionale ed ha effetti erga omnes, ossia implica una responsabilità generale di tutti gli stati di assicurare che il suddetto diritto fondamentale sia rispettato.

Un futuro prevedibile

Il futuro della terra di Fares è cupo ed incerto. A pochi metri dal castello romano, ai piedi della collinetta, tra i tanti ulivi secolari, le autorità israeliane hanno affisso un’enorme insegna di ferro e legno che dà il benvenuto ai visitatori a Leshem e contrassegna il luogo come parco per i bambini, parte integrante dell’insediamento. Fares non ha avuto alcuna voce in capitolo sulla decisione di installare l’insegna proprio sulla sua terra. Fares non ha alcuna voce in capitolo sul destino della sua proprietà, luogo molto significativo per lui, per sua madre, che proprio a Deir Sam’an ha trascorso tutta la sua vita, e per tutta la famiglia. Fares piange, e racconta del padre che proprio a Deir Sam’an è morto.

“Dopo l’insegna, verranno a mettere panchine e tavoli per trasformare la mia terra in una zona ricreativa per coloni e turisti”.

Fares è disilluso. L’occupazione israeliana della Palestina ha stravolto la sua vita passata e presente, così come il carattere della sua terra. Nonostante tutto, ha uno sguardo sereno.

“Invito tutti quanti a visitare Deir Sam’an, luogo meraviglioso che, tuttavia, mostra l’impatto dell’occupazione militare israeliana della Palestina, affronto al popolo palestinese ed all’umanità intera”.

Raccomandazioni

In conformità alla responsabilità degli Stati terzi di rispettare e garantire il rispetto del Diritto Internazionale dei Conflitti Armati, sancita dall’articolo 1 comune alle Quattro Convenzioni di Ginevra del 1949, COSPE invita gli Stati terzi, ed in particolare l’Italia e gli Stati Europei a:

  • Condannare pubblicamente e chiedere ad Israele di cessare immediatamente gli illeciti commessi nell’amministrazione e nella gestione dei beni culturali nei territori palestinesi occupati, e di attenersi ai propri obblighi in materia di archeologia secondo quanto definito dal Diritto Internazionale;
  • Fare pressione su Israele affinché ponga fine alle violazioni del Diritto Internazionale risultanti dalle attività archeologiche nell’Area C della Cisgiordania, e protegga, rispetti e realizzi a pieno i diritti della popolazione palestinese, “popolazione protetta” secondo il DICA;
  • Richiamare Israele a trasferire il controllo e la gestione delle attività archeologiche in Cisgiordania alle competenti autorità nazionali Palestinesi, misura necessaria per la piena realizzazione dell’inalienabile e sacrosanto diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese;
  • Esortare Israele ad interrompere immediatamente le gravi violazioni del Diritto Internazionale che gli illeciti nella gestione dell’archeologia facilitano e perpetuano, in particolare l’attività di colonizzazione, il trasferimento forzato della popolazione palestinese e l’acquisizione di terra con la forza;
  • Interrompere forme di collaborazione con Israele nelle attività archeologiche che conduce nei territori occupati, rifiutando, ad esempio, il trasferimento di artefatti provenienti dalla Cisgiordania nel proprio stato;
  • Promuovere il controllo delle autorità palestinesi sulle attività archeologiche e sui beni culturali in Cisgiordania, supportando iniziative a livello internazionale;
  • Supportare le azioni legali di fronte ad organi giuridici regionali ed internazionali che mirano a garantire i diritti e la sicurezza dei palestinesi e ad impedire l’impunità dei responsabili di gravi crimini internazionali;
  • Spingere Israele a stabilire un piano con scadenza per porre fine all’occupazione del territorio palestinese, inclusa Gerusalemme Est.

*COSPE nasce nel 1983 ed è un’associazione privata, laica e senza scopo di lucro. Opera in 25 Paesi del mondo con circa 70 progetti a fianco di migliaia di donne e di uomini per un cambiamento che assicuri lo sviluppo equo e sostenibile, il rispetto dei diritti umani, la pace e la giustizia tra i popoli. Lavora per la costruzione di un mondo in cui la diversità sia considerata un valore, un mondo a tante voci, dove nell’incontro ci si arricchisca e dove la giustizia sociale passi innanzitutto attraverso l’accesso di tutti a uguali diritti e opportunità.

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[1]1 dunum equivale a circa 1000m2.

[2]Emek Shaveh, 2016. “Archaeology and people in the West Bank. Have you heard of Deir Sam’an?” Video disponibile (in lingua inglese) a https://alt-arch.org/en/deir-saman/

[3]Israele continua con l’espansione di Colonie e avamposti illegali nella Cisgiordania occupata, in violazione all’Articolo 49 della IV Convenzione di Ginevra

[4] Secondo il Diritto Internazionale dei conflitti armati ed in particolare l’Articolo 49 della IV Convenzione di Ginevra.

[5]Dal sito di Peace Now. Informazioni disponibili a:https://peacenow.org.il/en/settlements/settlement101-en e https://peacenow.org.il/en/settlements/settlement108-en

[6]Vedi “Ariel Bloc Bill 5775-2018”, disponibile a https://www.yesh-din.org/en/legislation/

[7] IV Convenzione dell’Aja concernente le leggi e gli usi della guerra terrestre e regolamento annesso (1907). L’Aja, 18 Ottobre 1907. Articolo 46: “[…] Private property cannot be confiscated”. Disponibile (lingua inglese) al link https://ihl-databases.icrc.org/applic/ihl/ihl.nsf/0/1d1726425f6955aec125641e0038bfd6

[8]Diakonia, 2015. “Occupation Remains. A legal analysis of the Israeli archeology policies in the West Bank: an international law perspective”. Disponibile (in lingua inglese) a https://www.diakonia.se/en/IHL/News-List/occupation-remains/

[9] International Solidarity Movement, 2018. “Insidious colonial strategy”.Disponibile (in lingua inglese) a https://palsolidarity.org/2018/12/insidious-colonial-strategy/

[10] “I beni dei comuni, quelli degli istituti consacrati ai culti, alla beneficenza e all’istruzione, alle arti e alle scienze, anche se appartenenti allo Stato, saranno trattati come la proprietà privata.” Disponibile a https://unipd-centrodirittiumani.it/it/strumenti_internazionali/IV-Convenzione-dellAja-concernente-le-leggi-e-gli-usi-della-guerra-terrestre-e-regolamento-annesso-1907/112

[11] “È vietato alla potenza occupante di distruggere beni mobili o immobili appartenenti individualmente o collettivamente a persone private, allo Stato o a enti pubblici, a organizzazioni sociali o a cooperative, salvo nel caso in cui tali distruzioni fossero rese assolutamente necessarie dalle operazioni militari.” Disponibile a https://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/19490188/index.html

[12] Si veda la Regola 40 del Commentario di ICRC. Tradotta dall’inglese, disponibile a https://ihl-databases.icrc.org/customary-ihl/eng/docs/v1_rul_rule40 ;Diakonia, 2015. “OccupationRemains”.

[13] UNESCO, 1954. Convenzione per la protezione di beni culturali in caso di conflitto armato. Articolo 4(3)- in lingua inglese-: “The High Contracting Parties further undertake to prohibit, prevent and, if necessary, put a stop to any form of theft, pillage or misappropriation of, and any acts of vandalism directed against, cultural property. They shall refrain from requisitioning movable cultural property situated in the territory of another High Contracting Party.” Disponibile  a http://portal.unesco.org/en/ev.php-URL_ID=13637&URL_DO=DO_TOPIC&URL_SECTION=201.html

[14] Al Jazeera, 2019. “US and Israel formally quit UNESCO”. Disponibile (in lingua inglese) a https://www.aljazeera.com/news/2019/01/israel-formally-quit-unesco-190101094104787.html

[15]Diakonia, 2015. “Occupation Remains”.

[16] ICRC. IHL Database, Customary IHL: Rule 40. Rule 40. “Each party to the conflict must protect cultural property: (a). All seizure of or destruction or wilful damage done to institutions dedicated to religion, charity, education, the arts and sciences, historic monuments and works of art and science is prohibited. (b) Any form of theft, pillage or misappropriation of, and any acts of vandalism directed against, property of great importance to the cultural heritage of every people is prohibited.” Disponibile (in lingua inglese) a https://ihl-databases.icrc.org/customary-ihl/eng/docs/v1_rul_rule40

[17] ICRC. IHL Database, Customary IHL: Rule 41. Rule 41. “The occupying power must prevent the illicit export of cultural property from occupied territory and must return illicitly exported property to the competent authorities of the occupied territory.” Disponibile (in lingua inglese) a https://ihl-databases.icrc.org/customary-ihl/eng/docs/v1_rul_rule41

[18]Diakonia, 2015. “Occupation Remains”.

[19]Ibidem.

[20]Ibidem.

[21]Vedi, per esempiohttps://www.haaretz.com/israel-news/new-west-bank-settlement-s-sewage-overflowing-into-palestinian-fields-1.6225848 , https://www.aljazeera.com/indepth/features/2017/09/drowning-waste-israeli-settlers-170916120027885.html , e https://www.middleeastmonitor.com/20181102-israel-settlers-dump-sewage-on-palestinian-school-in-qalqiliya/

[22] Disponibile a https://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/19660259/201503130000/0.103.1.pdf

[23] Comitato per i diritti economici, sociali e culturali (CESCR), 2003. “General Comment No. 15 (2002). The right to water (arts. 11 and 12 of the International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights)”. Disponibile (in lingua inglese) a https://www.refworld.org/pdfid/4538838d11.pdf

[24]“Quando l’autorità del potere legittimo sia effettivamente passata nelle mani dell’occupante, questi prenderà tutte le misure che dipendano da lui per ristabilire ed assicurare, per quanto è possibile, l’ordine pubblico e la vita pubblica, rispettando, salvo impedimento assoluto, le leggi vigenti nel paese.” Disponibile a https://unipd-centrodirittiumani.it/it/strumenti_internazionali/IV-Convenzione-dellAja-concernente-le-leggi-e-gli-usi-della-guerra-terrestre-e-regolamento-annesso-1907/112

[25] B’tselem. “Access Denied: Israeli measures to deny Palestinians access to land around settlements”. Disponibile (in lingua inglese) a https://www.btselem.org/publications/summaries/200809_access_denied

[26]Emek Shaveh, 2017. “Appropriating the Past. Israel’s Archaeological Practices in the West Bank”. Disponibile a http://alt-arch.org/en/wp-content/uploads/2017/12/Menachsim-Eng-Web.pdf

[27]Ibidem.

[28]Diakonia, 2015. “Occupation Remains. A legal analysis of the Israeli archeology policies in the West Ban: an international law perspective”. Disponibile a https://www.diakonia.se/en/IHL/News-List/occupation-remains/

[29]Melhem A., 2015. “Settlements threaten Palestine’s historic sites”. Al Monitor. Disponibile a https://www.al-monitor.com/pulse/originals/2015/04/palestine-israel-settlements-historic-sites-heritage-culture.html

[30]Emek Shaveh, 2017. “’Salvage Excavations’ in the West Bank (almost entirely) for settlers only”. Disponibile a https://alt-arch.org/en/press-release-0817-salvage-excavations/

[31]Ibidem.

[32]Ibidem.

[33]Shiff, C. and Mizrachi, Y., 2019. “Using archeology in the service of nationalism”. +972 Magazine. Disponibile a https://972mag.com/pilgrimage-road-archeology-nationalism-east-jerusalem/142181/

[34]Diakonia, 2015. “Occupation remains”.

[35]Ibidem.

[36]Emek Shaveh, 2017. “Appropriating the Past”.

[37] UNESCO, 1954. Convenzione per la protezione dei beni culturali. Articolo 5: Articolo 5 (Occupazione): “

Le Alte Parti contraenti, che occupano totalmente o parzialmente il territorio di un’altra Alta Parte contraente, sono tenute ad appoggiare, nella misura del possibile, l’azione delle autorità nazionali competenti del territorio occupato, intesa ad assicurare la salvaguardia e la conservazione dei propri beni culturali.

.”  Disponibile a https://unipd-centrodirittiumani.it/it/strumenti_internazionali/Convenzione-per-la-protezione-dei-beni-culturali-in-caso-di-conflitto-armato-1954/138

[38]Diakonia, 2015. “Occupation Remains”.

[39] Articolo 27: «Le persone protette hanno diritto, in ogni circostanza, al rispetto della loro personalità, del loro onore, dei loro diritti familiari, delle loro convinzioni e pratiche religiose, delle loro consuetudini e dei loro costumi.» Disponibile a https://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/19490188/index.html

[40]Vedi nota 24.

[41] Articolo 15(1): “Gli Stati parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo: (a) a partecipare alla vita culturale”. Disponibile a https://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/19660259/201503130000/0.103.1.pdf

[42]Quarta Convenzione di Ginevra, 1949. Articolo 49: “I trasferimenti forzati, in massa o individuali, come pure le deportazioni di persone protette, fuori del territorio occupato e a destinazione del territorio della Potenza occupante o di quello di qualsiasi altro Stato, occupato o no, sono vietati, qualunque ne sia il motivo.” Disponibile a https://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/19490188/index.html

[43] Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, 1998. Articolo 7: “Ai fini del presente Statuto, per crimine contro l’umanità s’intende uno degli atti di seguito elencati, se commesso nell’ambito di un esteso o sistematico attacco contro popolazioni civili, e con la consapevolezza dell’attacco: (d) Deportazione o trasferimento forzato della popolazione”. Disponibile a http://www.cirpac.it/pdf/testi/Statuto%20di%20Roma%20della%20Corte%20Penale%20Internazionale.pdf

[44] Vedi sopra nota 2.

[45]Diakonia, 2015. “Occupation Remains”.

[46]Ibidem.