di Valeria Cagnazzo – 

Pagine Esteri, lunedì 30 maggio 2022 – Qualcuno in India dice che già per il fatto di essere un invalido al 90% in sedia a rotelle avrebbe diritto alla libertà. Per i suoi giudici e il governo, si tratta, invece, di un attivista pericoloso per lo Stato e meritevole dell’ergastolo al quale è stato condannato. G.N. Saibaba è probabilmente prima di tutto un poeta, che affronta quello che la vita gli assegna in sorte, ovvero la disabilità, l’impegno politico, la persecuzione da parte del governo e, infine, l’incarcerazione, facendo quello che gli riesce meglio e a cui tiene di più: scrivere. Anche dalla cella di un carcere di massima sicurezza in India chiamata “anda”, “uovo”, per la forma oblunga delle sue pareti. Il suo ultimo libro, una raccolta di poesie, saggi e lettere pubblicata da Speaking Tiger, si intitola “Perché temi così tanto le mie idee?” (“Why do you fear my way so much?”).

Nato da una famiglia di contadini dello stato indiano dell’Andhra Pradesh, a cinque anni ha perso l’uso degli arti inferiori a causa della poliomielite. Ha insegnato inglese all’Università di Delhi per diversi anni. Il titolo di Assistant Professor gli è stato ufficialmente ritirato nel 2021, quando era rinchiuso già da sei anni in carcere. La condanna alla reclusione a vita è stata pronunciata contro Saibaba nel 2017, secondo la Legge indiana per la prevenzione delle attività illegali (UAPA): l’accusa erano i suoi legami con il Fronte Democratico Rivoluzionario, un partito bandito dal 2012 perché considerato un’organizzazione maoista.

Quella di Saibaba è una vita di poesia e di impegno politico. Nel 2004, fu tra gli organizzatori della Mumbai Revolution, un forum di oltre 310 movimenti politici che si tenne nella città parallelamente al World Social Forum. Erano gli anni dell’invasione dell’Iraq, della lotta al terrorismo, del dibattito sulla globalizzazione, gli anni in cui l’Occidente portava la guerra in Medio Oriente ossessionato dalla paura di avercela in casa. Lo slogan del World Social Forum, “Un altro mondo è possibile”, secondo gli attivisti riuniti alla Mumbai Revolution non era abbastanza. Erano intellettuali provenienti da tutta l’India e dall’estero. Nei due giorni di forum, discussero dell’insensatezza della guerra, degli effetti dell’imperialismo e dei governi fascisti sulla vita dei contadini e della classe operaia, della marginalizzazione delle popolazioni indigene e dell’isolamento delle minoranze nel Paese e nel mondo. Nessun altro mondo sarebbe stato possibile senza la resistenza attiva di ciascuno.

Nel 2009, Saibaba levò la sua voce contro l’Operazione Caccia Verde (Green Hunt), lanciata dall’allora ministro dell’interno Palaniappan Chidambaram ufficialmente con lo scopo di reprimere la resistenza maoista naxalita nelle foreste centrali dell’India. Decine di migliaia di militari e paramilitari furono dispiegati nelle regioni di Chattisgarh and Jharkhand, un’area che il governo battezzò “corridoio rosso”. Quella zona, tuttavia, corrispondeva esattamente alla “cintura tribale”, una larga striscia di foreste e villaggi abitati dal gruppo etnico degli Adivasi e con un sottosuolo estremamente ricco di minerali. Un dato che non sfuggì a Saibaba e ad altri intellettuali di sinistra che manifestarono contro l’operazione militare del governo indiano.

Gridavano al genocidio della popolazione indigena degli Adivasi e al suo dislocamento operato dal governo per impadronirsi delle materie prime della zona. Denunciavano che la repressione del pericolo terroristico rappresentato dai maoisti fosse soltanto il pretesto per militarizzare un territorio da rivendere alle multinazionali. Una cara amica di GN Saibaba, la scrittrice Arundhati Roy, accusava in quel periodo il governo di aver già siglato diversi memorandum di intesa con molte multinazionali che avevano per oggetto proprio le miniere della “cintura tribale”: “C’ è un Memorandum d’intesa su ogni montagna, foresta o fiume in quest’area”, ripeteva l’autrice. Nel 2011, la Corte Suprema dichiarò incostituzionale l’utilizzo di forze paramilitari e di “guardiani locali” al quale il governo stava ricorrendo per la sua Operazione Caccia Verde: la soluzione fu quella di assorbirli nella polizia civile. Un altro tassello a supporto della tesi, sostenuta da Saibaba e dagli altri attivisti, della progressiva militarizzazione di uno Stato ufficialmente democratico. La posizione del poeta contro l’operazione militare a danno degli indigeni lo mise definitivamente in pessima luce agli occhi del governo indiano.

Fu arrestato per la prima volta nel 2014, per presunti legami coi Maoisti. Era il pomeriggio del 9 maggio quando la sua macchina è stata fermata a Delhi sulla strada di ritorno dal lavoro da un gruppo di poliziotti, è stato trascinato fuori dal veicolo e trasferito in aereo a Nagpur, in carcere. La sua carrozzina fu danneggiata durante l’arresto. Secondo l’UAPA, il suo attivismo e i supposti legami politici costituivano una minaccia terroristica. Era un poeta, si diceva, che “faceva la guerra alla nazione”. Nel 2015 e nel 2016 due brevi periodi di libertà per motivi medici, poi nel 2017 la condanna definitiva all’ergastolo.

In un’intervista disponibile in rete, il poeta afferma: “La polizia mi diceva che sapeva che le accuse contro di me non stavano in piedi, ma che avevano già raggiunto il loro obiettivo, che è quello di tenermi dietro le sbarre il più a lungo possibile. [Mi dicevano:] abbiamo silenziato la tua voce. La finirai di manifestare contro l’Operazione Caccia Verde, ti terremo dietro le sbarre per impedirtelo”.

“Perché temi così tanto le mie idee?” (abbiamo tradotto “way” come idee, ma la parola ha sicuramente un significato più ampio che si riferisce al modo di agire, di pensare e di vivere del poeta attivista) è una raccolta di poesie, di saggi, di lettere rivolte a personaggi reali o immaginari, collezionati durante i suoi anni di carcere. Il destinatario principale di Saibaba è sua moglie Vasantha. Con lei, Saibaba non può più comunicare nella lingua madre, il Telugu, perché considerata sediziosa e perché difficile da decifrare per il sistema di censura del carcere. La poetessa Meena Kandasamy nella prefazione del libro scrive che vietare a qualcuno di parlare finanche con il suo coniuge nella sua lingua è “una punizione come nessun’altra”, “un brutale silenziamento simile al taglio della lingua alla radice”.

Nonostante la privazione della libertà e le sofferenze della sua disabilità acuita dai trattamenti subiti in carcere, la poesia di Saibaba è colma di un’incrollabile forza e un’indistruttibile fiducia nella parola e nella vita. Un testamento raccolto in pochi versi:

 

Ancora rifiuto

testardamente di morire.

La cosa triste è che non sanno

come uccidermi

perché io amo così tanto

il suono

dell’erba che cresce.

Nelle sue parole, si legge l’amore per la moglie e per qualsiasi essere umano, l’entusiasmo e la convinzione che lottare contro le barbarie e le ingiustizie sia il solo modo possibile di stare al mondo. Esprime persino compassione per il secondino posto a vigilare sulla sua cella, che è prigioniero del suo lavoro, non può trascorrere il tempo coi suoi cari ma solo a controllare “quelle quattro mura”:

E’ un amico

un cugino e un

compagno.

È la guardia

e il guardiano

della sentenza* della mia vita,

frasi, parole e

sillabe.

*”sentence” in inglese è sia “frase” che “sentenza, condanna”, nella traduzione abbiamo cercato di preservare l’ambiguità della parola scelta dal poeta.

L’isolamento in una cella in un carcere di massima sicurezza non sembra aver indebolito l’animo vigoroso di Saibaba: “Aforismi della nostra epoca”, nel libro, è una sequenza di aforismi di sorprendente ironia politica:

Se commetti un piccolo reato,

la legge fa il suo corso.

Lanciati lontano in reati molto più grandi,

finirai per fare le leggi

Più grande è il complesso

militare-bellico,

superiore sarà la tua democrazia

tra le Nazioni del mondo.

Le scorregge di un dittatore

democratico

hanno un dolce odore.

Nella lettera datata 31 agosto 2017, G.N. Saibaba si rivolge ad Anjum, il personaggio del romanzo “Il ministero della Suprema Felicità” scritto dalla sua amica e collega Arundhati Roy. Ad Anjum, destinatario immaginario, scrive: “Mentre i giorni e i mesi scorrono nella mia cella solitaria, scopro che nessuno è più interessato a leggere le mie lettere e a rispondermi… All’improvviso, ho sentito che sei l’unica persona che prenderebbe davvero sul serio le mie lettere e farebbe qualcosa di concreto per la mia libertà”.

Arundhati Roy protesta sin dal 2014 contro l’incarcerazione del professor Saibaba. Di fronte alla notizia del peggioramento delle sue condizioni di salute e dei maltrattamenti in carcere, insieme al rifiuto da parte delle autorità di sprigionarlo per permettergli cure mediche, ha denunciato: “Non è più una questione politica, è una questione patologica”. In un pezzo per il quale è finita sotto processo scriveva che il governo indiano doveva urgentemente liberare un intellettuale “disabile, la cui carrozzina era stata rotta e che era costretto a gattonare a quattro zampe per terra per muoversi nella sua cella”. Correva l’anno 2015.

Il suo vero crimine è stato quello di aver organizzato una campagna contro quella che viene chiamata “Operazione caccia verde”, in cui il governo aveva creato dei gruppi di vigilanti e migliaia di paramilitari nelle foreste dell’India centrale, a circondare villaggi che le popolazioni autoctone furono costrette ad abbandonare per far posto alle miniere. Le persone che hanno protestato contro questo sfratto sono state accusate di anti-nazionalismo e sono state arrestate sulla base della Legge per la prevenzione delle attività illegali”, ha detto Roy. “Ci chiamiamo uno Stato democratico, ma abbiamo una legge come la legge per la prevenzione delle attività illegali: qualsiasi pensiero contro il governo è considerato un’offesa criminale”.

E’ stata proprio Arundhati Roy a presentare il libro di Saibaba in India: “Cosa stiamo facendo qui oggi?” ha chiesto alla platea nel giorno del lancio della raccolta. “Siamo riuniti per parlare di un professore che è paralizzato al 90% ed è in carcere da sette anni. Questo è sufficiente. Non abbiamo bisogno di dire altro. E’ abbastanza per dirvi in che razza di Paese viviamo”. Poi ha descritto l’India come un aereo che voli in retromarcia, partito dai momenti rivoluzionari degli anni ’60 in cui si redistribuivano la terra e la ricchezza alla popolazione per diventare il posto in cui i leader vincono le elezioni regalando 5 chili di riso e un chilo di sale a testa.

Accanto a lei, la moglie di Saibaba, Vasantha Kumari, che proprio in questi giorni sta combattendo con le autorità indiane affinché venga rimossa la telecamera che il 10 maggio è stata posizionata nella cella di Saibaba e che lo segue anche in bagno e mentre fa la doccia. Una violazione alla sua privacy e alla sua dignità, secondo Kumari, che ha scritto una lettera al Ministero dello Stato di Maharashtra: “È intimidazione, insulto e violazione della sua integrità fisica. I detenuti hanno diritto a tutti i diritti costituzionali, tranne il diritto alla mobilità e pochi altri. In queste condizioni di tensione, (Saibaba, ndr) ha deciso di intraprendere uno sciopero della fame a tempo indeterminato fino alla morte o alla rimozione della telecamera”.

Malgrado le sue condizioni critiche di salute e la paralisi che ha colpito quasi interamente il suo corpo, da metà maggio il poeta è quindi in sciopero della fame per proteggere la sua dignità. Fuori dalla sua cella, a poca distanza dal carcere, vengono lette le sue poesie sarcastiche e i suoi delicati versi pervasi di amore per la vita. Saibaba è un poeta che continua a non dubitare nella potenza della poesia e nella sua superiorità davanti a qualsiasi barbarie.

E’ poesia, stupido

E’ stupenda poesia.

Non ha bisogno di armi

per fondere il ferro

dei tacchi rotti della storia.