di Franco Ferioli

Pagine Esteri, 15 luglio 2022 – Nato dalla Cancel Culture, cresciuto dal Black Lives Matter Movement, adottato dal Politicamente Corretto, qualificato come processo di de-colonizzazione, quantificato come procedura di post-musealizzazione, l’emergente fenomeno “Rivisitazione dell’Arte Coloniale” appare come una precipitosa fuga dell’Occidente attraverso l’uscita di sicurezza della storia, a rotta di collo giù per scala di emergenza del proprio passato colonialista.

Visto il grande successo ottenuto, con più di 100.000 visitatori dal 21 febbraio al 22 maggio, la mostra “Arte del Benin di ieri e di oggi: dalla restituzione alla rivelazione” verrà riaperta il giorno 16 luglio 2022 presso le sale provvisorie del palazzo Presidenziale della Marina di Cotonou per altri due mesi. La prima parte di questa esposizione, chiamata “Arte contemporanea del Benin”, raccoglie cento opere di trentaquattro artisti beninesi contemporanei; la seconda, “Tesori Reali del Benin” presenta ventisei opere restituite dopo centotrenta anni trascorsi nei musei francesi, da quando cioè,nel 1892, la Francia attaccò il Regno del Dahomey con il pretesto di condurre la lotta al cannibalismo, ai sacrifici umani e alla poligamia attribuite alle popolazioni autoctone, mentre in realtà stava procedendo per completare l’occupazione di quella che sarebbe divenuta l’Africa Equatoriale Francese, una federazione di possedimenti di 2.349.651 km² che si estendeva dal fiume Congo fino al deserto del Sahara. Il colonnello franco-senegalese Alfred Amédée Dodds, alla testa di oltre tremila uomini, partì da Cotonou e, dal 26 ottobre al 17 novembre, dovette affrontare la resistenza all’ultimo sangue di un esercito composto da sole donne guerriere divenute leggendarie come Amazzoni del Dahomey, prima di conquistare e saccheggiare la capitale Abomey.

Dodds, tra il 1893 e il 1895, restituì al museo etnografico del Trocadéro ventisei tesori reali sequestrati nella reggia di Abomey, tra i quali spiccano il trono di Re Béhanzin, quattro porte del palazzo del re Glélé, tre statue reali antropomorfe metà uomo-metà pesce di Béhanzin, metà uomo metà leone del re Glélé e metà uomo metà uccello del re Ghézo, attribuite al grande intagliatore Likohin Kankanhau Sossa Dede, oltre a tre scettri, monete d’oro, gioielli in avorio e metalli preziosi, sculture sacre, arredi, tessuti e oggetti di uso quotidiano.

All’epoca non esisteva una legge internazionale sul saccheggio delle opere d’arte, gli ufficiali francesi poterono agire liberamente a titolo personale e non si saprà mai con esattezza quanti oggetti preziosi siano stati prelevati e quanti altri senza dubbio siano ancora oggi nelle mani dei loro discendenti. Secondo stime accertabili in Francia si troverebbero 90.000 manufatti artistici di inestimabile valore, dei quali 46.000 -meno 26- sottratti durante il periodo coloniale.

A partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento il saccheggio, seguito da spedizioni punitive, invasioni e guerre coloniali, è stato una miniera di oggetti d’arte, documenti, reliquie e capolavori non solo per i musei francesi, ma per tutti i principali musei europei. L’Impero Britannico mise gli occhi sulla ricca Costa d’Oro e sul fiorente regno degli Ashanti, oggi appartenente alla Repubblica del Ghana, e nel corso della terza campagna militare, (1873-1874), le truppe inglesi irruppero nel cuore del regno e distrussero la capitale Kumasi dopo aver sottratto dall’Alban, il palazzo reale, tutto quanto vi era conservato, oltre a quello che viene oggi chiamato l’Oro degli Ashanti: ornamenti, maschere e oggetti d’oro massiccio e d’argento che trovarono una nuova patria a Londra, nelle collezioni espositive del British Museum e della Wallace Collection.

Qualche anno dopo, nel febbraio 1897, il momento culminante di una serie di attacchi ai reami dell’Africa Occidentale che portò alla conquista inglese di quella che è oggi la Nigeria, coincise con la spedizione punitiva contro il Regno del Benin o Regno Edo condotta da un battaglione agli ordini dell’ammiraglio Harry Rawson che distrusse l’antica città di Benin e fruttò l’enorme bottino dei Bronzi del Benin: oltre duemila bassorilievi che furono venduti all’asta dall’Ammiragliato per ripagare il costo della spedizione e che vennero dispersi in varie collezioni di oltre centosessanta musei internazionali sparsi in tutto il mondo: novecentoventotto pezzi si trovano nel British Museum di Londra; cinquecentoventi nel  Museo Etnologico di Berlino; centosessanta nel Weltmuseum di Vienna, altrettanti nelle sale del Metropolitan Museum of Art di New York, quantità inferiori nel Pitt Rivers di Oxford, nel MARKK di Amburgo, nelloSmithsonian Museum of African Art di Washington, nel Fowlwe Museum dell’Università della California.

Circa vent’anni dopo gli inglesi inviarono una compagnia al comando del maggiore Robert Stephenson Smyth Baden Powell (che sarebbe divenuto celebre per avere fondato il movimento dei Boy Scouts), che descrisse la missione in un libro, raccontando che, una volta ottenuta la sottomissione, le truppe inglesi entrarono nel palazzo reale e si diedero a “collezionare” gli oggetti di valore che vi si trovavano. Scrive Baden Powell: “non vi potrebbe essere lavoro più interessante e più invitante di questo. Fu sufficiente a renderlo tale il rovistare nel palazzo di un re barbaro la cui ricchezza fu detta essere molto grande. Forse uno degli aspetti più straordinari fu che il lavoro di raccogliere i tesori fu affidato a una compagnia di soldati britannici, ed eseguito con la più grande onestà e attenzione, senza un solo caso di saccheggio. Qui vi era un uomo con una bracciata di spade dall’impugnatura d’oro, là ve ne era uno con una scatola piena di ninnoli e di anelli d’oro, un altro con una cassa piena di bottiglie di brandy. Cionondimeno in nessun caso vi fu un tentativo di furto”. È evidente, scrive il filosofo Kwame Anthony Appiah, che “Baden Powell era seriamente convinto che l’inventariare e il rimuovere questi tesori per ordine di un ufficiale britannico fosse un legittimo trasferimento di proprietà. Non era saccheggio; era collezionismo”.

I sottili limiti esistiti ed esistenti da secoli fra saccheggio, collezionismo e vandalismo da un lato, e mercato, schiavismo e colonialismo dall’altro, continueranno ad essere di stretta attualità anche dopo la primavera-estate di quella che si presenta a tutti gli effetti come una inaugurale stagione africana di straordinari appuntamenti fortemente simbolici e chiaramente rivelatori del rapporto che l’arte intrattiene con gli splendori e gli orrori della storia coloniale.

La Repubblica del Benin è il primo Stato dell’Africa subsahariana rientrato in possesso di una parte del proprio patrimonio culturale sottratto da una potenza coloniale europea.

La Repubblica Francese è il primo Paese al mondo a restituire a un Paese africano colonizzato una simbolica parte maltolta del suo patrimonio.

Nel confronto tra primati e primatisti, a manifestarsi è però un crollo seguìto da un deficit insanabile.

Le prime richieste di restituzione da parte dei Paesi africani risalgono infatti agli anni Sessanta e per sessanta anni i Paesi europei hanno reagito senza compiere un solo passo in avanti. Parlare di restituzione è stato una sorta di tabù o di muro abbattuto solamente negli ultimi anni da cause legali mosse da comitati, associazioni, intellettuali e capi di Stato: dal 2019, oltre al Benin, anche Senegal, Costa d’Avorio, Nigeria, Zaire, Etiopia, Ciad, Mali e Madagascar hanno inoltrato richieste ufficiali.

Secondo gli esperti, l’85-90% del patrimonio africano si trova attualmente fuori dal continente.

Collezionismo e saccheggio possono apparire a prima vista difficilmente comparabili, ma quando vengono attuati a spese dei patrimoni culturali, indipendentemente dalle condizioni storiche nelle quali avvengono o dalle motivazioni di coloro che li effettuano, essi sempre condividono una comune motivazione di fondo: il desiderio di un individuo, di un gruppo o di una nazione di impadronirsi non solo delle ricchezze ma anche dell’identità culturale altrui.

Verso la fine del Settecento saccheggio e collezionismo si unirono indissolubilmente in una moda prodotta dalla nascita del concetto di esotismo già iniziata a partire dal Quattrocento.

Il desiderio di conquista e di conoscenza, alimentato dal successo della letteratura di viaggio e dalle grandi scoperte, permise a ricchi viaggiatori e a rappresentanti delle famiglie regnanti di entrare in possesso di grandi tesori archeologici e di innumerevoli capolavori artistici.

Nel corso dell’Ottocento il progresso dei paesi europei diede un ulteriore impulso: dalle accademie e dalle società scientifiche archeologi e naturalisti furono inviati nelle colonie per effettuare campagne di scavi i risultati dei quali vennero prelevati, rinchiusi ed esposti nei musei delle nazioni finanziatrici.

Fra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento gli studi antropologici che prendevano spunto dalle teorie del darwinismo ebbero la necessità di raccogliere materiali umani che dimostrassero l’evoluzione delle differenze biologiche fra le razze: scienziati e studiosi furono inviati nelle colonie dalle università e dai musei di tutto il mondo occidentale per raccogliere quanto più materiale possibile, prima fra le spoglie dei diseredati (reclusi, prigionieri di guerra, malati mentali), poi tra quelle dei popoli nativi e degli schiavi, innescando l’espansione di un ricco mercato parallelo a quello archeologico e artistico.

Fra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo l’aggressività predatoria del colonialismo alimentò un gigantesco mercato clandestino che ha fatto la fortuna di avventurieri, commercianti, antiquari e case d’asta e ha permesso l’accumulo di collezioni di inestimabile valore che le istituzioni museali continuano ancora oggi ad esporre col timore che possano suscitare le rivendicazioni dei discendenti degli antichi proprietari.

I beneficiari dei saccheggi e della brama collezionistica ai danni delle popolazioni e dei patrimoni locali sono sia singoli individui (principi, re, imperatori, dittatori, esploratori, militari, mercanti e collezionisti), sia comunità istituzionalizzate (nazioni, eserciti, organizzazioni religiose, università, società, fondazioni, banche) per appagare la propria sete di possesso e per aumentare la propria autorevolezza in campo intellettuale, economico, politico e sociale.

Anche l’attività dei missionari ha contribuito non poco alla cancellazione del patrimonio culturale dei popoli indigeni. La diffusione della parola del Signore si accompagnò alla raccolta di oggetti della cultura materiale delle popolazioni con cui i missionari entravano in contatto, soprattutto oggetti di culto la cui asportazione era un corollario utile all’imposizione della nuova religione. In tal modo migliaia di oggetti vennero distrutti come idoli e feticci sacrileghi o presero la via dell’Europa contribuendo a formare importanti musei sotto il controllo della Chiesa Vaticana.

Dagli anni Ottanta al presente dei giorni nostri, il fenomeno di dispersione è divenuto ancor più capillare sommandosi ai movimenti migratori: ceduti per due soldi ai rigattieri da coloro che non avevano altro modo per racimolare i soldi necessari per imbarcarsi verso l’Europa, il flusso di oggetti preziosi verso le città portuali dell’Africa Occidentale e del Golfo di Guinea, ha attirato in Africa una grande quantità di speculatori e faccendieri che, dopo averli comprati in loco a prezzi ridicoli, li hanno rivenduti alle case d’antiquariato, che a loro volta hanno rifornito collezionisti, gallerie, case d’asta e musei delle città europee in un vorticoso sistema post-colonialista di sfruttamento dei patrimoni di immense regioni e innumerevoli etnie, con il risultato pratico e beffardo che può aver fatto sì che chi si era visto costretto a svendere i propri beni famigliari più cari e preziosi nei luoghi di partenza, li dovesse vedere rimessi in vendita a cifre da capogiro nei cataloghi più prestigiosi e nelle vetrine più esclusive dei luoghi di arrivo.

Un esempio su tutti, quello dell’asta tenutasi nel giugno 2021 a Parigi, presso Christie’s: sono stati offerti 61 lotti di arte provenienti dall’Africa, dall’Oceania e dal Latino America, tra cui una statuetta Urhobo dalla Nigeria, una scultura e un bronzo del Benin. L’asta si è conclusa con l’aggiudicazione di tutti i lotti, con un ricavato complessivo di 66.069.250 euro: il risultato d’asta più importante di sempre per questo tipo di arte.

Mentre per la comunità saccheggiata i simboli sottratti assumono lo status di “patrimonio assente”, per i saccheggiatori gli oggetti sottratti sono integrati nel proprio patrimonio, il quale viene così arricchito sia dalle vicende che hanno giustificato e prodotto il saccheggio, sia da quella che viene chiamata “narrazione nazionale” o “narrazione dominante”. In ambedue i casi il risultato è l’annientamento del vinto e la crescita della potenza politica, culturale o economica del vincitore.

Poiché ogni comunità è un gruppo di individui che si forma attorno a un insieme di simboli condivisi – memorie, miti, credenze, riti – è evidente che nessuna comunità può esistere se non possiede un patrimonio culturale condivisibile, ed è altrettanto evidente che nessuna comunità sopravvive alla perdita del proprio patrimonio. Tale perdita corrisponde alla perdita della memoria collettiva, cosicché la comunità si trasforma da un complesso di individui che condividono una stessa eredità, in un insieme di individui isolati. La perdita del patrimonio culturale conduce a un processo di disgregazione delle comunità ben noto ai conquistatori, per i quali una conquista non può dirsi totale e definitiva se non attraverso il saccheggio, l’asportazione, l’appropriazione, la dispersione o la distruzione del patrimonio culturale del popolo da soggiogare.

Ecco perché i depredati chiedono con sempre maggior insistenza il ritorno di ciò che è stato loro sottratto: la maggior parte delle collezioni dei musei non sono prodotti di normali transazioni fra soggetti paritari e consenzienti, ma sono invece il prodotto di spostamenti di beni, di rimescolamenti seguiti a periodi di crisi politiche, belliche, economiche e morali, nate dall’eccessivo spirito collezionistico e dall’ansia di supremazia che giustifica acquisizioni moralmente disdicevoli, se non truffaldine, e conduce alla frammentazione e alla dispersione di opere composite e alla perdita dei loro significati più autentici e originali.

L’insensibilità con la quale il colonialismo europeo ha impedito il senso contestuale/culturale dell’arte africana, l’assenza di dialogo culturale con i popoli indigeni, lo sviluppo di un’arte di mercato dove il bianco è l’intenditore-compratore di manufatti da inglobare nel sistema estetico e formale dell’arte occidentale, toccano i punti cruciali del discorso antropologico legato al valore culturale dei manufatti e i temi basilari della riflessione sul valore storico-antropologico che i manufatti artistici possiedono per le società che li producono.

Tutti sanno come le popolazioni indigene siano state pagate per vendere la loro stessa identità e il proprio patrimonio culturale materiale e immateriale, tutti sanno che l’arte nera è stata il più delle volte rubata, come ha testimoniato in molte pagine del suo diario di viaggio, L’Africa fantasma (1984), l’etnologo Michel Leiris negli anni della Missione etnografica Dakar-Gibuti (1931-1933) che arricchì a dismisura i depositi del Musée de l’Homme di Parigi con 3.600 oggetti, 300 amuleti, collezioni di pitture, manoscritti in 30 differenti lingue, 6.000 fotografie…

Ancora di più il significato dell’arte “primitiva” è stato alterato e gli indigeni pagati per vendere la loro stessa identità e il loro patrimonio culturale, trasformando le loro vite in una farsa di azioni e immagini diretta dai colonizzatori, in cui la sfera magico-religiosa viene rimpiazzata dagli interessi economici capitali dell’Occidente e da un concetto di “esotismo esteriore” limitativo e autoreferenziale nel cogliere motivi ornamentali e periferici in grado di suscitare un interesse autoreferenziale e uno spaesamento temporaneo circoscritto e fine a sé stesso, come lo ebbe a definire Elemire Zolla (Uscite dal Mondo, Adelphi 1992 – capitolo: Parigi fra il 1862 e il 1932).

Leiris ha denunciato i mezzi spicci e predatori con cui gli etnologi si sono appropriati degli oggetti artistici o rituali degli indigeni per arricchire le collezioni del futuro Musée de l’Homme parigino e con cui estorsero loro informazioni su celebrazioni e tradizioni segrete o particolari di canti e danze riservate agli iniziati e nel libro egli si rimprovera di aver usato in molte occasioni esattamente gli stessi metodi dei colleghi: il furto e l’inganno. Per tutti questi motivi, l’uscita del libro, nel 1934, venne accolta con aperta e quasi brutale ostilità, il capo missione Marcel Griaule – assistente all Ecole des Hautes Etudes, etnografo e linguista – furioso, definì l’ex amico, “un uomo senza onore che ha compromesso l’avvenire degli studi sul campo”, rompendo ogni rapporto con lui; Marcel Mauss  -luminare dell’antropologia culturale francese- ridusse Leiris a un “letterato” e “non un etnologo serio”; il Ministero dell’educazione nazionale stigmatizzò il libro come “opera la cui apparente intelligenza è dovuta soltanto a una grandissima bassezza di sentimenti”. Gran parte delle copie andarono al macero: la distruzione totale verrà completata sette anni dopo, nel 1941, ormai sotto l’occupazione tedesca, quando il Ministero degli interni del governo di Vichy interdisse ufficialmente l’Afrique Fantome. Solo nel 1951, il volume sarà finalmente ristampato venendo riscoperto da molti, insieme a Cuore di tenebra di Joseph Conrad, come uno dei capolavori letterari che l’Africa, non solo nera ed equatoriale, ha ispirato.

Già a partire dall’Ottocento, molti viaggiatori che percorrevano l’immenso territorio del Sahara, accompagnando le carovane commerciali, conducendo le spedizioni militari dell’epoca coloniale o compiendo esplorazioni per conto di compagnie minerarie, constatarono l’esistenza di antiche pitture e graffiti rupestri. Uno di questi fu l’esploratore tedesco Heinrich Barth, che nel corso di uno dei suoi viaggi tra Tripoli, il Niger e il Ciad trovò nel uadi Tilizzaghen, nel sud-ovest della Libia, un’incisione raffigurante un cacciatore che decise di ribattezzare Apollo Garamante, in riferimento alla popolazione dei Garamanti che, secondo Erodoto, occupava la parte occidentale della Libia.

Nonostante il fatto che le scoperte come quella di Barth fossero state ben documentate e divulgate, la maggior parte degli studiosi europei continuò a rimanere fermamente convinta del fatto che le civiltà africane fossero talmente arretrate e primitive da risultare anche inespressive e per questo motivo nessuno fu disposto a credere che le popolazioni autoctone fossero state in grado di realizzare meravigliose opere d’arte che vennero nientemeno attribuite a stranieri di passaggio.

Fu solo negli anni Trenta che cominciò a delinearsi un’immagine più chiara dell’arte rupestre sahariana, sempre e comunque alimentata dalla stessa sete di conquista, poiché in quell’epoca le forze mehariste dell’Algeria, allora sotto dominio francese, realizzarono numerose spedizioni e, grazie all’utilizzo strategico dei dromedari, raggiunsero vaste zone rimaste sino ad allora per loro inaccessibili.

Una di queste fu l’altipiano del Tassili n’Ajjer, situato nel Sahara centrale, una delle regioni tradizionalmente appartenenti alle Genti Tuareg Kel Ajjer.

Qui, non a caso né per caso, nel 1932 Charles Brenans, un giovane colonnello francese scoprì, nelle pareti scavate dal uadi Djerat, centinaia e centinaia di splendide incisioni raffiguranti esemplari di fauna africana selvaggia – buoi, elefanti, giraffe, rinoceronti, antilopi, leoni – oltre a numerose e diverse figure antropomorfe. La straordinaria scoperta attirò l’attenzione degli specialisti sull’eccezionale complesso e nel 1956 l’etnologa svizzera Yolande Tschudi pubblicò la prima monografia dedicata a quest’arte.

Quando le spedizioni divennero grandi campagne di studi, come quella che valse ad Henri Lhote la consacrazione discopritore dell’arte rupestre sahariana dopo aver inaugurato nel 1957 una mostra presso il Museo delle Arti Decorative di Parigi che ebbe un successo straordinario e che fu considerata una delle mostre più importanti del XX secolo, dovuto all’esposizione dei risultati raccolti durante quindici mesi nel Tassili n’Ajjer da una squadra composta da pittori e fotografi che nei soli primi otto mesi riuscì a ricopiare ben 400 dipinti, ciò avvenne grazie alla conoscenza di coloro che, comeMachar Jebrine ag Mohamed, vennero ingaggiati come “guide locali”, cioè coloro che, tra i più emeriti abitanti autoctoni depositari di millenarie conoscenze, si dimostrarono capaci, oltre che di garantirgli la fama, di salvargli anche la vita in seguito ad un incidente in cui rischiò di perdersi e di morire di sete.

Tra il 1950 e il 1953 i cineasti Chris Marker e Alain Resnais girarono in Africa e in Francia il documentario Les statues meurent aussi, commissionato dalla rivista letteraria Présence africaine, rivista fondata nel 1947 da Alioune Diop con J. Rabemananjara e B.B. Dadié, e appoggiata da diversi intellettuali francesi vicini al movimento della negritudine. Dopo la sua prima proiezione al Festival di Cannes nel 1953 e malgrado si sia aggiudicata il premio Jean Vigo nel 1954 per il suo carattere contestativo e anti-imperialista, la pellicola è stata censurata dal Centre National de la Cinématographie fino al 1963. La condanna è un’evidente conseguenza del fatto che i due registi si palesarono nel pieno della crisi coloniale attraversata dalla Francia, che da lì a un decennio avrebbe assistito all’indipendenza delle terre occupate (Algeria, Marocco, Tunisia, Africa occidentale, Africa equatoriale e Madagascar). Il documentario mostra come l’arte africana viene distrutta, sopraffatta, come svaniscono gli antichi significati che le appartengono, il non senso insito nella classificazione dei manufatti all’interno del circuito dell’arte, e come l’Africa diviene un laboratorio in cui si costruisce l’immagine del buon selvaggio sognata e imposta dall’uomo bianco.

Resnais e Marker, difendendo il diritto di riconoscimento dell’arte africana in tutte le sue sfaccettature e livelli di complessità storica, sociale, artistica, rituale, politica, magica, economica, estetica e performativa, si domandarono: «Perché l’arte nera si trova esposta al Musée de l’Homme, mentre l’arte greca o egiziana sono esposte al Louvre?». Un interrogativo lapidario che ancora oggi pone non pochi problemi alla ricerca e alla critica antropologica, artistica e museale.

Interrogativo che pone problemi anche all’atteggiamento patriarcale colonialista che preferisce parlare di “museo dell’uomo”, di “uomo preistorico”, di “evoluzione dell’uomo” piuttosto che di umanità.

Con il loro quesito, i due autori realizzano una de-mistificazione e una de-musealizzazione dell’arte indigena, problematizzando di conseguenza il tema scottante del primitivismo africano rispetto a un’arte occidentale evoluta, attuando cioè una politicizzazione dell’arte africana. Quando vengono sottratte, inventariate, comprate a basso prezzo, rivendute ai proprietari dei negozi di antiquariato, ri-collocate ed esposte dietro le vetrine museali, “anche le statue muoiono”. L’affermazione dei due registi mette in discussione lo statuto dell’istituzione museale, sostenendo che un oggetto è morto quando lo sguardo attivo, vivente, antropologico, che si posa su di esso, è annullato. Per l’arte africana ciò avverrebbe quando i manufatti vengono inseriti nei circuiti museali dove muoiono formando, più che una collezione, un cimitero. La morte delle statue, intese come sculture, maschere e opere d’arte plastica, è chiaramente connessa alla nascita della commercializzazione dell’arte africana per il piacere dei ricchi colonizzatori, i quali credono che le statue continuino a vivere e a valorizzarsi nelle bacheche museali, mentre Resnais e Marker ci dicono l’opposto, ovvero che dalle teche dei musei le statue ci guardano ma non ci riguardano, dato che la funzione rituale, il simbolismo e l’autonomia del linguaggio che tali forme veicolano perdono il loro senso in uno spazio esclusivamente estetico che le azzera.

Il documentario si apre con questa frase lapidaria, la migliore da riportare in chiusura: «Quando gli uomini muoiono entrano nella storia. Quando le statue muoiono entrano nell’arte. Questa biologia della morte è ciò che chiamiamo cultura».