di Glória Paiva*

Pagine Esteri, 19 agosto 2022 – Tra i 400 abitanti di Spin Time Labs, il palazzo occupato in via di Santa Croce in Gerusalemme a Roma, c’è un brasiliano di 51 anni. Stanco e appena ripresosi da un infarto. Ricardo Rao, che ha anche la nazionalità italiana, è stato accolto nello stabile tra gli abitanti autorganizzati, appartenenti a diciotto diverse nazionalità, in attesa che la sua compagna e il figlio di quattro anni possano lasciare il Brasile per raggiungerlo in Italia. La vita a Roma, per Ricardo, è quell’attesa ansiosa in una città così diversa dai villaggi indigeni vicino a Imperatriz, nel Maranhão, che sono stati la sua casa per dieci anni. Avvocato ed ex agente della Funai (l’agenzia brasiliana che si occupa dei popoli indigeni), Ricardo è scappato dal Brasile nel 2019 e ha cercato asilo politico a Oslo dopo essersi sentito perseguitato e aver ricevuto minacce per il suo lavoro, in una situazione molto simile a quella di Bruno Pereira, collega di Ricardo, ucciso lo scorso mese di giugno insieme al giornalista britannico Dom Phillips dai pescatori illegali ad Atalaia do Norte, stato dell’Amazonas.

Nella Funai, Rao svolgeva servizi di assistenza sociale alle comunità indigene, nonché il controllo e la protezione delle loro terre, come Pereira. Due anni dopo l’arrivo in Norvegia, Rao si trasferì a Roma, dove fu accolto dalle reti di movimenti popolari e di opposizione a Jair Bolsonaro. Ora si dedica alla scrittura, alla ricerca di lavoro e, insieme ad altri giuristi brasiliani, sta lavorando a una causa che mira a ritenere Bolsonaro responsabile della morte di cittadini italiani in Brasile durante la pandemia di Covid-19.

Secondo Rao, dall’ascesa di Bolsonaro, le vite degli agenti della Funai e dei guardiani forestali indigeni sono diventate insostenibili. Il motivo della sua fuga è stata la morte del suo compagno di lavoro Paulo Guajajara, un capo indigeno e guardiano della foresta. Guajajara è stato ucciso a colpi di pistola a novembre del 2019, pochi giorni dopo aver scoperto una vasta area di piantagioni di marijuana nella terra indigena Arariboia, presumibilmente legata a un ufficiale di polizia militare di Rio de Janeiro, sebbene le indagini di polizia abbiano collegato la sua morte a un “conflitto tra indigeni e non-indigeni”. “Ho lasciato il Brasile perché sapevo che sarei stato il prossimo”, ha detto Rao. Tre giorni prima di imbarcarsi per Oslo, Ricardo ha consegnato un ampio documento alla Camera dei Deputati del Brasile, in cui ha evidenziato i legami tra agenti della polizia civile e militare e la criminalità organizzata del traffico del legno, del narcotraffico e degli omicidi delle popolazioni indigene nel Maranhão. Le sue denunce, tuttavia, non sono mai sfociate in indagini.

Il nome e l’immagine di Rao sono diventati noti in tutto il mondo a luglio, dopo la trasmissione di un video registrato alla 15a Assemblea Generale della FILAC, il Fondo per lo Sviluppo dei Popoli Indigeni dell’America Latina e dei Caraibi, a Madrid. Nella registrazione, Marcelo Xavier, presidente del Funai, lascia l’incontro dopo che Ricardo lo affronta, urlando, accusandolo di essere responsabile del genocidio delle popolazioni indigene del Brasile e della morte di Bruno Pereira e Dom Phillips. Dopo la pubblicazione del video, la compagna e il figlio di Rao hanno iniziato a subire minacce. Rao ha parlato con Pagine Esteri.

 

Come hai iniziato a lavorare come agente di tutela della popolazione indigena?

Mia madre lavora come infermiera della Funai dal 1982. Vivevo con lei in un villaggio sulla costa nord di San Paolo e lì ho visto le difficoltà delle comunità indigene. Nel 2010 ero avvocato, insegnavo e lavoravo presso IBGE (l’istituto brasiliano di statistica). Mia madre, un giorno, mi ha detto di partecipare a un concorso pubblico della Funai. Ho vinto e sono andato a Brasilia per fare la preparazione per diventare indigenista. È lì che ho conosciuto Bruno Pereira. Ho lavorato nel Mato Grosso do Sul, dove ho conosciuto il genocidio dei Guarani-kaiowa, il gruppo etnico più oppresso di tutti. Hanno perso la loro terra negli anni ’40 e ancora oggi ci sono conflitti con gli eredi dei coloni. Nel 2015 mi sono trasferito a Barra do Corda, nel Maranhão, dove c’era anche una situazione molto conflittuale.

Che tipo di conflitti hai dovuto affrontare?

In qualità di coordinatore tecnico locale, dovevo svolgere l’ispezione e la protezione del territorio. C’era il problema dei taglialegna illegali, un fenomeno molto grave nel Maranhão, insieme ai bracconieri. Gli organizzatori di queste attività non erano mai presenti e ci si imbatteva sempre nella manovalanza, fatta di operai, contadini, in sostanza di poveri. Quindi, non li arrestavamo: il nostro obiettivo era distruggere la struttura con cui lavoravano, veicoli, camion, trattori, traghetti, nelle aree di estrazione illegale di oro. Era un’attività rischiosa, la nostra. Durante questo lavoro siamo stati spesso colpiti da squadre di cecchini nascosti nei boschi. Mi hanno sparato molte volte, mai colpito.

Quando sono iniziate le minacce nei tuoi confronti?

Quando la Polizia Militare ha iniziato a ricevere tangenti dai taglialegna illegali per impedire il nostro lavoro, nel 2019. Prendiamo il caso di Bruno: per 10 anni ha bruciato trattori, affondato traghetti che costavano milioni di reais. Per molti anni abbiamo svolto questo servizio, ma non ci hanno mai toccato, perché sapevano che uccidere un funzionario del governo avrebbe avuto serie conseguenze. Ma dall’ascesa del governo Bolsonaro, soprattutto dopo Marcelo Xavier alla Funai, è diventato tollerabile minacciare gli indigenisti. Per prima cosa hanno ucciso Maxciel Pereira da Silva, che ha lavorato con Bruno nello stato di Amazonas. Poi hanno ucciso Paulo Guajajara. Quindi sapevo che sarei stato il prossimo.

E anche tu ti sei sentito minacciato.

Giorni prima della morte di Paulo, un investigatore della polizia di Imperatriz, noto come “Carioca”, mi ha puntato una pistola alla testa e ha detto: “Chi vuole proteggere gli indios qui, non durerà”. A quel tempo, l’Abin (Agenzia brasiliana di intelligence) è apparsa alla Funai di Imperatriz. Il giorno dopo hanno aperto un procedimento amministrativo contro di me. Allora ho visto che dovevo fare i conti non solo con i criminali, ma anche con buona parte dello Stato. Un comandante della polizia militare è persino entrato nel mio ufficio al fine di trovare la motocicletta che avevo sequestrato a un taglialegna illegale. Il governatore Flávio Dino lo sapeva, ma non ha fatto nulla. Tutti sono intimiditi. Paulo Guajajara è stato ucciso il 1 novembre 2019. Il 28 ero a Oslo.

Che rapporto avevi con Bruno Pereira?

Ho conosciuto Bruno durante la formazione per diventare indigenista, nel 2009. È stato lui ad avvertirmi che stava iniziando una caccia agli indigenisti, dieci anni dopo. Bruno era in cima alla lista degli agenti più compromessi che potevano essere oggetto di persecuzione ed il mio nome veniva subito dopo. Sapeva che molti processi amministrativi avrebbero portato al licenziamento. Quindi ha preso un congedo di due anni ed è stato ucciso mentre era in congedo. L’ho chiesto anch’io, ma mi è stato rifiutato. Quando è scomparso, ho capito subito che era stato ucciso.

Lei ha già affermato di non credere alle versioni ufficiali delle indagini sulla morte di Bruno.

La mia teoria è che Bruno sia stato ucciso perché aveva consegnato un documento proprio come il mio poco prima di morire, un documento molto importante sulla criminalità organizzata in Amazzonia. Come ha fatto a non rendersi conto che le istituzioni sono tutte infiltrate? C’è addirittura un procuratore della repubblica che fa parte delle milizie! E Bruno ha consegnato nelle loro mani il suo resoconto.

In che modo il governo Bolsonaro è connivente con la persecuzione a gli indigenisti?

Una volta ho incenerito un camion del più grande taglialegna illegale di Amarante (Maranhão), Lauro Coelho. Il suo camion era pieno di adesivi “Bolsonaro Presidente”. Ha comprato tanti voti per Bolsonaro in regione. La situazione del Funai oggi è paralizzata. Non ci sono più soldi per riparare le auto, per il carburante, non ci sono più ispezioni. Oggi, la Funai è un ufficio del registro, che timbra i documenti per gli indios. La sistematica persecuzione ai difensori dell’Amazzonia, già esistente, è peggiorata. A mio avviso, bisogna parlare di internazionalizzazione dell’Amazzonia. Non c’è mai stata una sovranità effettiva dello stato brasiliano su quel territorio, la sovranità appartiene al crimine. Se lo Stato brasiliano non è in grado di proteggere questa risorsa naturale di importanza universale, sono favorevole alla sua internazionalizzazione. Gli indigeni devono stare al sicuro. Persone come Bruno e Dorothy Stang, altra attivista statunitense assassinata in Amazzonia nel 2005, dovrebbero essere vive. Pagine Esteri

 

* Glória Paiva è una giornalista, scrittrice e traduttrice brasiliana