di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 13 settembre 2022 – La ruspa fa avanti e indietro alla periferia meridionale di Gaza city. Il suo braccio afferra le macerie di un edificio colpito dall’aviazione israeliana nel 2021 e demolito solo di recente. E le scarica nel rimorchio di un autocarro alzando una nuvola di polvere. Ripete questi movimenti sotto lo sguardo di un ingegnere. Ci dicono che è un egiziano. «Salve, come va? Lei è del Cairo? Si trova bene a Gaza?». «No, sono del Delta. A Gaza sto bene, qui ci sono fratelli dell’Egitto». La conversazione va poco oltre. L’ingegnere non ha tempo e desiderio di conversare. Quella egiziana nella Striscia di Gaza è una presenza discreta ma significativa, soprattutto dallo scorso anno, quando il regime di Abdel Fattah el Sisi si è proposto di ricostruire quanto i bombardamenti israeliani avevano distrutto con 500 milioni di dollari. Fondi che, stando a quanto dicono da queste parti, passano per una porta girevole: escono (forse) dall’Egitto e rientrano in patria attraverso le imprese che eseguono i lavori.

Non è facile avere notizie certe. «Quello che è sicuro è che per le imprese egiziane lavorare qui è un buon affare. Gaza è povera e con tante necessità ma qui arrivano finanziamenti delle agenzie dell’Onu e di ong importanti», ci chiarisce Hassan, che, come ci hanno chiesto quasi tutte le persone con cui abbiamo parlato, preferisce non sia rivelato il suo cognome. Il tema «egiziano» è delicato. Le autorità di Hamas non vogliono noie di alcun tipo con il regime di El Sisi con il quale hanno instaurato, a partire dal 2018, buone relazioni dopo gli anni difficili seguiti allo scontro duro tra El Sisi e i Fratelli musulmani. «I leader di Hamas – spiega Hasan – hanno bisogno dell’Egitto, è un interlocutore fondamentale, è l’unica porta sul mondo che hanno a disposizione e devono mantenerla aperta. Per questo soddisfatti o scontenti che siano non sollevano obiezioni e si mostrano compiacenti nei confronti del Cairo». E preferiscono non ricordare che l’Egitto resta un partner di Israele nel mantenere il blocco di Gaza e che ha distrutto i tunnel sotterranei di contrabbando sul confine con il Sinai che (oltre alle armi) garantivano rifornimenti vitali. L’Egitto inoltre, da anni, è mediatore tra gli islamisti palestinesi e Israele e il mese scorso è stato decisivo, anche se i leader del movimento islamico non lo ammettono, per tenere Hamas fuori dallo scontro tra Israele e il Jihad islami.

 

Rispondendo nel suo ufficio a Gaza city alle nostre domande sul mancato intervento militare di Hamas a sostegno del Jihad, Basem Naim, che cura i rapporti del movimento islamico con la stampa estera, ci ha detto «non è vero che non abbiamo partecipato, abbiamo contribuito in altri modi a contrastare gli attacchi israeliani». A Gaza invece sostengono che è prevalsa «l’ala governista» di Hamas, favorevole ad ascoltare i «suggerimenti» dell’Egitto e interessata a consolidare il controllo di Gaza, alla luce anche dei bisogni crescenti di una popolazione in piena emergenza umanitaria a causa del blocco. L’ingresso in campo di Hamas avrebbe significato una nuova guerra totale con Israele e, tra le altre cose, la sospensione dei 20mila permessi di lavoro che Tel Aviv ha dato nei mesi scorsi ad altrettanti manovali di Gaza. Si tratta di una fonte di reddito importante per migliaia di famiglie palestinesi e un flusso di milioni di dollari che entra a Gaza. «Hamas – ci dice Ali, proprietario di un minimarket – sa che Israele e l’Egitto lo tengono in scacco ma non può permettersi di far chiudere il valico di Rafah (tra Gaza e l’Egitto) e di imporre a 20mila manovali di rinunciare al lavoro in Israele. I soldi che portano a casa fanno girare parecchie cose qui a Gaza, aiutano anche me, e (attraverso le tasse) finiscono in parte anche nelle casse del governo non ufficiale di Hamas».

E poi c’è ancora da realizzare la ricostruzione dopo i tanti attacchi militari israeliani dal 2008 a oggi. Se i bombardamenti aerei di inizio agosto hanno provocato ben 49 vittime (inclusi 17 bambini) tra i palestinesi ma relativamente pochi danni materiali, invece l’offensiva israeliana del maggio 2021 è stata distruttiva: 1.500 case ridotte in macerie, più di 1.700 hanno subito danni irreparabili insieme ad altre 17.000 parzialmente danneggiate. Un anno fa, poco dopo l’annuncio del cessate il fuoco, l’Egitto inviò a Gaza cibo, vestiti e medicinali. Poi sono arrivati autocarri, gru, ruspe e squadre di ingegneri. Il capo dell’Unione dei costruttori palestinesi, Osama Kahil, spiegò che l’aiuto egiziano sarebbe servito a realizzare 100.000 case oltre a fabbriche e scuole. L’esecutivo di Hamas ringrazia i fratelli egiziani ma girando per Gaza non si vedono tanti cantieri aperti come vorrebbero questi numeri.

«Il vero affare per gli egiziani è il valico di Rafah e ad averne il vantaggio maggiore è la società Abna Sina (Figli del Sinai)» avverte Abed, un reporter, «tutti i movimenti dei palestinesi di Gaza nel Sinai e attraverso il terminal di Rafah sono gestiti da Abna Sina che è dell’Esercito egiziano e include anche un figlio di El Sisi». Ogni anno molte migliaia di palestinesi di Gaza, pagando ognuno di loro centinaia di dollari, passano per Rafah. Vanno al Cairo per motivi di lavoro, di affari, di studio o per curarsi. «Parliamo decine di milioni di dollari che ogni anno entrano nelle casse di Abna Sina – aggiunge il giornalista – e chi sceglie il passaggio Vip per evitarsi attese di giorni nel Sinai, disagi insopportabili e di essere maltrattato dai soldati egiziani, deve bonificare alla Abna Sina 1.250 dollari». Abed sorride e commenta con amarezza: «Gaza, sotto blocco e con tutti suoi problemi, fa gli interessi economici degli egiziani. Israele ci osserva, fa le sue manovre e quando vuole ci colpisce». Pagine Esteri