di Valeria Cagnazzo

Pagine Esteri, 21 settembre 2022 – Aveva solo 22 anni Mahsa Amini, la donna che il 14 settembre scorso ha perso conoscenza in una stazione di polizia a Vozara, in Iran, ed è entrata in coma, per morire poche ore dopo nella terapia intensiva dell’ospedale di Kasra. Era a Teheran per visitare alcuni parenti insieme alla sua famiglia con cui vive a Saqqhez, nel Kurdistan iraniano, quando gli agenti della Guidance Patrol, la “polizia morale” iraniana, l’hanno arrestata perché non indossava adeguatamente il velo. Il foulard, infatti, non nascondeva integralmente i suoi capelli neri. E’ stata pertanto condotta in commissariato in stato di fermo, e dopo appena due ore è entrata in coma, in circostanze misteriose. La sua morte ha provocato reazioni di protesta nel Paese e nel resto del mondo.

La polizia ha negato qualsiasi forma di colluttazione con la donna, sia durante l’arresto che nelle ore di fermo in cui Amini sedeva in attesa di essere interrogata insieme ad altre donne. Il comandante della Polizia di Teheran, Hussein Rahimi, ha affermato che i suoi agenti hanno “fatto di tutto” per aiutare la donna e ha parlato di un “incidente sfortunato”. La tv di stato ha diffuso un video in cui in un commissariato una donna si alza dalla panca per parlare con un poliziotto e cade improvvisamente a terra. Nella versione del comando di polizia si tratterebbe appunto di Mahsa Amini.

A scatenare l’episodio, si legge in una dichiarazione della polizia del 15 settembre, sarebbe stato un arresto cardiaco. La famiglia di Amini, tuttavia, ha violentemente rigettato questa ipotesi, affermando che la ragazza godeva di ottima salute.

Nelle parole di Rahimi, sarebbero “accuse codarde” quelle che si sono diffuse intorno a questa morte, secondo le quali il decesso si dovrebbe attribuire, invece, alle violenze degli agenti sulla detenuta. Diverse sono, infatti, le testimonianze che, in seguito alla notizia della morte inspiegabile della donna, hanno riferito che Mahsa Amini sia stata picchiata dagli agenti della “polizia morale” al momento dell’arresto, mentre veniva caricata sul furgone della polizia e poi probabilmente anche durante il fermo. A ucciderla letteralmente di botte, secondo la versione che in poche ore ha investito il dibattito pubblico iraniano, sarebbero stati i poliziotti, tanto da farla arrivare in terapia intensiva, secondo quanto riferito dall’ospedale di Kasra, già in stato di morte cerebrale.

Al suo rientro dal vertice a Samarcanda con Putin e Xi Jinping, il primo ministro Ebrahim Raisi ha trovato un Paese travolto da uno tsunami di proteste di iraniani, ONG e comunità internazionale, che nessuna versione ufficiale sull’accaduto diramata dalle tv nazionali è riuscita a frenare. E’ per questo che ha annunciato che il ministero dell’interno svolgerà un’indagine per accertare le cause della morte della ragazza.

Che si sia trattato di morte cardiaca improvvisa o meno, non è la prima volta in Iran che una donna, oltre a subire l’arresto, sia vittima di violenze a causa del suo modo di vestire. Dai tempi della rivoluzione di Khomeni nel 1979, infatti, in Iran è obbligatorio il rispetto delle norme di abbigliamento e di comportamento dettate dalla Sharia.  Con il premier Mahmoud Ahmadinejad, il Paese si è dotato addirittura di una “polizia morale”, un corpo di agenti, uomini e donne velate integralmente di nero, chiamati a vigilare che tutte le donne, non solo quelle musulmane, abbiano i capelli e il collo completamente coperti da un hijab. Per chi trasgredisce, la pena può essere il carcere.

Nel 2017 si accese nel Paese un movimento di ribellione che vide molte donne, soprattutto volti pubblici, liberarsi dei veli e lasciare liberi i capelli in segno di protesta contro la “legge morale”. Il risultato fu, però, piuttosto un inasprimento della sua applicazione. Diversi video online iniziarono a testimoniare arresti sempre più violenti di ragazze con ciuffi di capelli liberi sulla fronte o trecce che si affacciavano sotto al bordo dell’hijab. Schiaffi, pugni, donne messe all’angolo da altre donne che le accusavano di condotte vergognose e peccaminose, poi gettate brutalmente su furgoncini della polizia per raggiungere il commissariato.

 

E’ per questo che l’episodio della morte di una ragazza di 22 anni arrestata per motivi “morali” ha riacceso nelle donne iraniane una rabbia mai sedata. L’ennesima morte, l’ennesima violenza alla loro dignità, che le ha fatte esplodere nell’urlo di “Morte al dittatore”.

Sabato mattina, infatti, si sono svolte le esequie di Mahsa Amini nel suo villaggio di Sagghez, a 460 km da Teheran. Le autorità avrebbero chiesto alla famiglia di svolgere il funerale all’alba, in modo che il rito si celebrasse tra pochi intimi e lontano dalle attenzioni mediatiche, ma i familiari di Amini non hanno accettato di salutare la ragazza prima che il sole non si fosse levato alto in cielo e intorno alla loro casa non si fossero radunate centinaia di persone.

Urla di protesta si sono presto sollevate dalla massa di partecipanti all’eco di “Morte al dittatore”, rivolto all’ayatollah Khomeini, ritenuto responsabile dell’uccisione della donna per mano della “polizia morale”. Le donne nella folla si sono liberate dell’hijab e molte di loro l’hanno innalzato su bastoni di legno come una bandiera. Nelle stesse ore, anche nella città di Teheran una folla marciava al grido degli stessi inni e con le stesse donne svelate pronte a sfidare il braccio della “polizia morale”.

Contro la folla, che dopo il rito funebre ha continuato a protestare e si sarebbe radunata poi davanti all’ufficio del governatore, si è scatenato l’esercito, con spari e lacrimogeni: negli scontri sarebbero rimasti uccisi quattro manifestanti e almeno 15 sarebbero i feriti.

Non solo per le strade: anche i social sono stati travolti dalla rabbia. In poche ore, l’hashtag #MahsaAmini è stato menzionato oltre due milioni di volte. “Togliersi l’hihab è un crimine punibile in Iran. Chiediamo alle donne e agli uomini nel mondo di mostrarci la loro solidarietà”, si legge sull’account di una ragazza. E ancora “La cosiddetta polizia morale l’ha arrestata arbitrariamente prima che morisse per far rispettare le leggi abusive, degradanti e discriminatorie del Paese che impongono il velo. Tutti gli agenti e gli ufficiali responsabili devono essere sottoposti alla giustizia”.

Sotto all’hashtag #MahsaAmini, insieme ai tweet si sono moltiplicati  video di donne disposte a tagliarsi i capelli in segno di protesta. Un paio di forbici in mano e uno sguardo furioso in camera, mentre i loro capelli cadono a terra e l’acconciatura si trasforma in un caschetto improvvisato.

Dure anche le denunce di diverse personalità del mondo dello spettacolo.  Il regista premio Oscar Asghar Farhadi ha scritto “Sono disgustato, stavolta da me stesso. Tu sei su un letto d’ospedale, ma sei più sveglia di noi, mentre noi siamo tutti in coma. Noi ci fingiamo addormentati, di fronte a questa oppressione senza fine. Noi siamo complici di questo crimine”, a commento di una foto della ragazza in coma.

L’ONG Iran Human Rights ha chiesto l’intervento delle Nazioni Unite. “Indipendentemente dalla causa ufficiale della morte annunciata dalle autorità”, ha dichiarato il suo direttore Mahmood Amiry-Moghaddam, “la responsabilità dell’omicidio di Mahsa Amini ricade su Ali Khamenei come leader della Repubblica islamica, Ebrahim Raisi come capo del governo, e delle forze di polizia sotto il loro comando”.

Ferma la condanna di Amnesty International: “Le circostanze che hanno portato alla morte sospetta della ventiduenne Mahsa Amini, che comprendono accuse di tortura e maltrattamenti durante il fermo, devono essere indagati penalmente”. L’obbligo del velo e la sua applicazione venivano denunciate anche nel rapporto annuale dell’ONG sull’Iran relativo al 2021, in cui si legge: “Le discriminatorie norme sull’obbligo di indossare il velo hanno continuato a condizionare la vita delle donne, determinando molestie quotidiane, detenzioni arbitrarie, aggressioni equiparabili a tortura e altro maltrattamento e diniego di accesso all’istruzione, all’impiego e agli spazi pubblici. Almeno sei difensori dei diritti delle donne sono rimasti in carcere per aver condotto campagne contro il velo forzato”.

Le carceri iraniane in cui le donne iraniane rischiano di restare rinchiuse per anni per contravvenzioni alle norme dell’abbigliamento rappresentano tra l’altro gironi infernali in cui si rischiano quotidianamente torture e condanne a morte arbitrarie. Proprio nei primi mesi del 2022, infatti, Amnesty International ha registrato un preoccupante inasprimento della giustizia iraniana: da gennaio a giugno, sono state giustiziate almeno 251 persone. “Una media di una condanna a morte al giorno”. L’anno scorso, il numero totale delle esecuzioni era stato di 314.

I detenuti possono morire per omicidio, stupro, rapina, ma anche, denuncia la ONG per i diritti umani, “relazioni omosessuali tra persone adulte e consenzienti, le relazioni extraconiugali e i discorsi ritenuti “offensivi nei confronti del profeta dell’Islam”, così come reati descritti in modo del tutto vago come quello di “inimicizia contro Dio” e “diffusione della corruzione sulla terra””.

Per questo la protesta delle donne iraniane e le loro denunce sui social rappresentano un atto di coraggio estremo, con il quale rischiano tutto. Si può diventare detenute politiche per molto meno, ed essere rinchiuse in prigioni tristemente famose come quella femminile di Qarchak, che ospita oltre 2.000 prigioniere.

Il reparto 8, conosciuto come “il Rione delle Madri”, è quello delle prigioniere di coscienza. Tra di loro, la scrittrice Golrokh Iraee, arrestata nell’ottobre del 2016 perché nella sua casa era stato trovato un suo racconto contro la lapidazione. Rilasciata nel 2017 dopo che col suo sciopero della fame suo marito aveva richiamato l’attenzione internazionale, è stata di nuovo arrestata alla sospensione dello sciopero della fame e allo spegnimento dei riflettori mediatici sul suo caso.

Per aver criticato sui social il record di esecuzioni capitali detenuto dall’Iran, anche Atena Daemi, attivista per i diritti umani, è stata condannata a 7 anni di carcere e rinchiusa in una cella di Qarchak. I suoi post su Facebook e su Twitter sono stati ritenuti “offensivi” nei confronti dei pubblici ufficiali. E’ ancora rinchiusa nel carcere di Evin, dove protesta con scioperi della fame contro le condizioni di vita nel carcere e contro la pena di morte.

Un tempo sede di un allevamento industriale di polli, il carcere femminile di Qarchak ospita più donne di quante ne possa contenere, in condizioni disumane. Le detenute vivono in assenza di acqua, di cibo sufficiente, con le finestre sbarrate, senza il diritto alle più elementari norme igieniche. Non sono solo la fame e le malattie che si diffondono, però, a tormentarle. La direttrice del carcere, Soghra Khodadadi, è stata accusata di aver creato condizioni “insopportabili” per le prigioniere e di aver incoraggiato abusi nei confronti di prigionieri politici e pacifici. Nel giugno 2016, in seguito a un episodio in cui le guardie carcerarie avevano picchiato “brutalmente” le detenute, Amnesty intervenne per richiedere la chiusura del carcere. Nel 2021, il Dipartimento del Tesoro americano ha indirizzato le sue sanzioni economiche anche alla Khodadadi.

Nonostante i rapporti e le denunce internazionali, però, il carcere continua a tenere rinchiuse centinaia di donne, condannate alla tortura per reati d’opinione. Lo stesso reato che compiono in questi giorni le donne che si tagliano pubblicamente i capelli sotto a un hashtag. Resta la percezione, però, che calato l’interesse internazionale, nei commissariati e nelle carceri iraniane si continuerà a morire e in strada le donne continueranno a essere vittime indifese della “polizia morale”.