di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 13 ottobre 2022 – Gli Stati Uniti si ostinano a difendere con le unghie e con i denti la propria supremazia in un mondo che vorrebbero ancora unipolare, ma continuano ad emergere con sempre maggiore chiarezza i poli e i soggetti di un contesto che di fatto è già multipolare. La rischiosa contesa in atto in Ucraina tra Russia e Nato costituisce l’ennesima riprova di questa evoluzione.
Così come i passi, lenti ma inesorabili, di altre aggregazioni sovranazionali, che si organizzano per difendere la loro fetta di sovranità e garantire la proiezione dei propri interessi a livello globale.
Tra questi c’è indubbiamente il polo dei paesi sunniti che si stanno stringendo attorno all’Arabia Saudita; a lungo ubbidiente pedina di Washington nell’area, da tempo Riad persegue una propria agenda e una propria via.

Una via che non sempre coincide con quella degli alleati statunitensi, come ha dimostrato lo schieramento neutrale di molti paesi del Golfo rispetto all’invasione russa dell’Ucraina e, più recentemente, la decisione dell’Opec di ridurre la produzione di greggio, venendo incontro alle necessità di Mosca e contravvenendo invece ai desiderata dell’amministrazione Biden. Come ritorsione, Washington ha annullato un incontro già programmato del gruppo di lavoro USA-Consiglio di Cooperazione del Golfo sull’Iran, che avrebbe dovuto discutere dell’implementazione nella penisola arabica di un sistema comune di difesa aerea e missilistica. Contemporaneamente il portavoce della sicurezza nazionale di Washington, John Kirby, ha sibillinamente affermato che è venuto il momento di «rivalutare il rapporto con l’Arabia Saudita».

Il Consiglio di Cooperazione del Golfo verso l’unione economica
Mentre andava in scena l’ennesimo distanziamento di Riad dagli Stati Uniti, la 117a riunione del Comitato di cooperazione finanziaria ed economica del Consiglio di Cooperazione del Golfo ha compiuto un ulteriore passo verso il raggiungimento dell’Unione Economica, fissata per il 2025.

A Riad i ministri delle Finanze dei sei paesi membri – Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman, Qatar e ovviamente l’Arabia Saudita – hanno tracciato una road map per raggiungere questo obiettivo e per istituire finalmente, entro la fine del 2024, un’unione doganale, dopo aver creato una zona di libero scambio già nel 1983. Durante l’incontro del 3 ottobre, i ministri delle Finanze hanno anche esaminato gli aggiornamenti sulla firma dell’accordo sull’unificazione dei sistemi di pagamento.

Già durante l’ultimo vertice del CCG, nel dicembre del 2021, i leader dei paesi membri avevano sottolineato la necessità di unificare la politica estera, le politiche economiche e quelle militari. A gennaio invece, racconta l’agenzia di stampa saudita “SPA”, il ministro delle Finanze saudita aveva difeso la necessità di accelerare il processo di integrazione. «Ci sono passi vigorosi da intraprendere per raggiungere il coordinamento, l’integrazione e l’interdipendenza tra gli stati del CCG in tutti i campi e per rimuovere gli ostacoli che lo impediscono» ha affermato Muhammad Al-Jadaan.

Integrazione, un percorso a ostacoli
Fondato nel 1981 su iniziativa dell’Arabia Saudita per rafforzare la sua influenza nell’area, il CGG si è a lungo basato sulla comune avversione dei paesi aderenti – sunniti e governati da petromonarchie – all’Iran sciita, dopo che a Teheran si era affermata nel 1979 la rivoluzione islamica, e ai paesi governati dal nazionalismo panarabista del Baath. Già nel 1984 il neocostituito blocco diede vita ad una forza militare congiunta ribattezzata “Peninsula Shield Force”, forte di 40 mila unità. Solo nel 2011, però, lo strumento militare congiunto fu impiegato per reprimere nel sangue la rivolta popolare scoppiata in Bahrein contro la famiglia reale Al Khalifa. Alcuni membri dell’alleanza, poi, sono stati coinvolti dall’Arabia Saudita nell’intervento militare realizzato in Yemen a supporto del regime locale messo in discussione dalla rivolta armata degli Houthi sciiti.

Finora, però, il processo d’integrazione ha subito notevoli ritardi ed ha incontrato non poche difficoltà, a causa delle resistenza di alcuni paesi a rinunciare alle proprie prerogative “nazionali” in nome del rafforzamento del blocco a guida saudita. I paesi che più hanno rallentato l’unificazione sono stati in particolare l’Oman e gli Emirati Arabi Uniti, che si sono opposti alla creazione di una moneta comune – il Khaliji – che pure era stata programmata a partire dal 2010, e alla creazione di una Banca Centrale comune a Riad.

Anche la rottura tra Arabia Saudita e Qatar ha rallentato molto l’unificazione. Nel 2017 gli altri membri del CGG interruppero le relazioni diplomatiche con Doha, accusata di sostenere il terrorismo internazionale, in realtà la Fratellanza Musulmana ritenuta una corrente rivale dai regimi del Golfo. I sauditi, insieme al Bahrein, agli Emirati e all’Egitto vararono addirittura un vero e proprio embargo nei confronti del Qatar. Ma Doha ha rifiutato di chiudere la base militare turca e di spegnere l’emittente Al Jazeera, ed anzi ha rafforzato i legami con la Turchia e non ha interrotto le relazioni con l’Iran. Nel 2021 Riad – grazie alla mediazione di Oman e Kuwait – ha tirato i remi in barca accettando di mettere fine alla crisi.

Anche perché, nel frattempo, il varo degli accordi di Abramo promossi dall’amministrazione Trump e la conseguente normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli Emirati e il Bahrein ha fortemente impensierito il regime wahabita e messo in allarme anche il Qatar, consigliando ai due paesi di riavvicinarsi (anche se in realtà Riad è assai meno ostile ad Israele rispetto al passato).

Protagonisti del mondo multipolare
Insomma il processo d’integrazione iniziato più di 40 anni fa non ha avuto affatto un percorso lineare ed anzi si è spesso impantanato, ma negli ultimi mesi le decisioni assunte sembra abbiano impresso nuovo impulso all’unificazione del blocco che vanta attualmente una delle economie più forti al mondo e tra quelle maggiormente in espansione. I paesi del Golfo beneficiano infatti ora dell’aumento del prezzo del petrolio e del gas: nel primo trimestre di quest’anno, i profitti della Saudi Aramco sono aumentati dell’82% rispetto allo stesso periodo del 2021, permettendo all’azienda petrolifera statale di Riad di diventare la società a maggiore capitalizzazione del pianeta.
Al tempo stesso, però, le petromonarchie riunite nel CGG sono impegnate in un grande sforzo diretto a diminuire la storica dipendenza dall’esportazione dei combustibili fossili. Arabia Saudita e soci hanno investito ingenti risorse nella produzione di energia da fonti rinnovabili e per sviluppare l’industria e la logistica, sfruttando la posizione centrale che l’area riveste alla congiunzione di tre continenti.
Di fronte alle opportunità che il contesto internazionale offre, il blocco sunnita del Golfo vuole assolutamente capitalizzare l’ordine multipolare che sta chiaramente emergendo, diventandone uno dei soggetti principali. Per affrontare i pericoli che mettono a rischio la tenuta delle proprie economie (prima la pandemia, poi la polarizzazione internazionale provocata dall’attuale scontro bellico in Ucraina) e sostenere le proprie rivendicazioni geopolitiche i paesi dell’area dovranno fare blocco, come del resto stanno da tempo cercando di fare – con alterne fortune – i paesi europei tra di loro o la Russia con i paesi dell’Asia centrale.

Un incontro tra Vladimir Putin e i leader del CCG

Più lontani dagli USA, più vicini a Russia e Cina
Se vogliono emergere come polo della competizione globale, le petromonarchie non possono che prendere le distanze da Washington, che comunque negli ultimi anni si è progressivamente ritirata dal Medio Oriente per poi fuggire precipitosamente dall’Afghanistan. Per bilanciare la residua influenza statunitense il CCG sta sviluppando crescenti relazioni con Russia e Cina e altre potenze orientali.
Con Pechino il CCG condivide una prospettiva basata sulla pianificazione economica, infrastrutturale e politica a medio e lungo termine; da questo punto di vista la Belt and Road Initiative cinese e la Vision 2030 saudita si stanno rivelando percorsi compatibili anche se in parziale competizione.
La recente riunione del Consiglio di Cooperazione del Golfo ha fornito l’occasione per un incontro tra il suo segretario generale Nayef Falah al Hajraf e l’ambasciatore di Pechino in Arabia Saudita, Chen Weiqing, durante il quale sono stati fatti ulteriori progressi nello sviluppo di relazioni commerciali ed economiche già copiose. Nel 2021, infatti, il commercio tra Cina e CCG è cresciuto del 44%, e alcuni dei paesi dell’alleanza hanno incrementato anche l’acquisto di armi da Pechino: sia gli emiratini sia i sauditi hanno acquistato aerei da combattimento L-15 e droni da attacco, e specialisti cinesi assistono i tecnici di Riad nella produzione di missili balistici e nello sviluppo del programma nucleare del regno wahabita. Da parte sua, nel 2019 l’Arabia Saudita ha inserito nel suo sistema educativo il cinese come terza lingua, imitati dagli Emirati.

Nonostante le più dirette rivalità, anche le relazioni tra CCG e Russia si sono strette maggiormente negli ultimi anni. Il 31 maggio, al termine di un incontro a Riad tra il Ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov e i suoi omologhi del blocco sunnita, questi ultimi decidevano all’unanimità di non imporre sanzioni a Mosca dopo aver rifiutato nei mesi precedenti di condannare in maniera esplicita l’invasione dell’Ucraina. Dopo l’accordo tra Mosca e l’Opec sulla riduzione della produzione di petrolio che ha fatto infuriare Washington, questa settimana il leader degli Emirati, lo sceicco Mohammed bin Zayed Al Nahyan, ha incontrato Vladimir Putin a San Pietroburgo, firmando nuovi accordi commerciali. Nel suo paese, ha rivelato il presidente della federazione emiratina, operano già 4000 aziende.

Il graduale avvicinamento delle petromonarchie alla Cina e alla Russia non significa che il blocco sunnita abbia scelto Mosca o Pechino abbandonando del tutto Usa e Ue; semplicemente, il CCG vuole perseguire i propri interessi a tutto tondo, tenendosi le mani libere. In quest’ottica anche la cosiddetta “Nato araba” lanciata nel 2015 dal saudita Mohammed bin Salman e ripresa nel 2017 dall’amministrazione Trump con la sua proposta di “Alleanza Strategica per il Medio Oriente” (MESA) diretta a subappaltare a Riad il controllo dell’area per conto di Washington, potrebbe assumere un profilo assai più autonomo all’interno di un più marcato sviluppo multipolare del contesto internazionale. Pagine Esteri

* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nord Africa. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale.

LINK E APPROFONDIMENTI:

https://www.nytimes.com/2022/10/11/us/politics/biden-saudi-arabia-oil-production-cut.html

https://www.middleeastmonitor.com/20221004-gulf-countries-are-seeking-to-achieve-economic-unity-by-2025/

https://www.spa.gov.sa/2389324

https://gulfnews.com/business/gcc-economic-integration-customs-union-and-common-market-discussed-1.1664933367426

https://www.treccani.it/enciclopedia/gulf-cooperation-council

https://www.ispionline.it/en/pubblicazione/gcc-global-power-cycle-reform-security-nexus-36383

https://osservatorioglobalizzazione.it/osservatorio/russia-golfo/

https://www.agi.it/estero/news/2021-01-05/golfo-qatar-emiro-arabia-saudita-embargo-fine-10909100/

https://www.swp-berlin.org/en/publication/chinas-path-to-geopolitics#en-d26215e1110

https://it.euronews.com/2022/10/11/putin-al-nahyan-un-bilaterale-su-petrolio-e-crisi-in-ucraina