di Glória Paiva* – 

Pagine Esteri, 27 ottobre 2022 – “È vergognoso che metà del popolo brasiliano voti per un ladro condannato in due gradi di giudizio”, ha commentato via messaggio un mio caro amico, il giorno dopo il primo turno delle elezioni brasiliane. Questo amico, un medico della sanità pubblica che ha votato per il Partito dei Lavoratori (PT) per decenni di seguito, dal 2018 è un elettore di Bolsonaro. Come lui sono davvero in tanti e la loro posizione avrà un peso fondamentale per l’esito definitivo delle elezioni che si terranno, in secondo turno, la prossima domenica 30 ottobre.

Era la mattina del 3 ottobre 2022 e molti di quei 57 milioni di brasiliani a cui il mio amico si riferiva, che avevano votato per Luiz Inácio Lula da Silva (PT), ancora si stavano svegliando con una sorta di “sbornia elettorale”: Lula non solo non aveva vinto al primo turno, ma ne era uscito con una pericolosa differenza di cinque punti percentuali su Jair Bolsonaro, in uno scenario lontano dai 14 punti previsti dai sondaggi d’opinione.

Che cosa è successo?, si sono chiesti elettori, giornalisti e, soprattutto, membri della campagna di Lula, sbalorditi. Gli istituti di ricerca “avevano sbagliato di grosso”, segnalavano articoli giornalistici, o “sono corrotti e vanno indagati”, incitavano i bolsonaristi. Secondo alcune analisi, ciò che gli istituti non avevano considerato è stata la forza del voto dell’ultimo minuto per Bolsonaro, prodotto dai sondaggi stessi o dalle campagne di disinformazione. Oppure, come seconda ipotesi, non  è stato previsto l’impatto delle astensioni: più di 32 milioni di persone, ovvero il 20,9% dell’elettorato, non hanno votato, un numero record dal 1998.

In un modo o nell’altro, il bolsonarismo si è rivelato una corrente politica molto più forte e imprevedibile di quanto si immaginava, concentrando il voto della popolazione che guadagna più di cinque salari minimi, un settore decisivo dell’elettorato.

Ma come mai, mi sono chiesta, il mio amico medico ha sposato le idee di un presidente che ha promosso un farmaco dimostratamente inefficace nella lotta al COVID-19? Che, nel suo negazionismo scientifico, ha ritardato l’acquisto di vaccini e screditato le misure igieniche raccomandate dall’OMS, provocando oltre 400.000 morti che avrebbero potuto essere evitate? Un presidente che non perde occasione per attaccare le istituzioni democratiche e lodare i torturatori della dittatura militare? Che ostacola tutte le indagini svolte contro di sé e la sua famiglia? Che ha composto un ministero di fanatici, militari e religiosi, nemici dei diritti umani, dei diritti indigeni, delle donne, dell’ambiente, dei poveri e delle minoranze…?

Il discorso di Bolsonaro risuona allo stesso modo tra gli oltre 51 milioni di elettori che l’hanno votato al primo turno? Bolsonaro si presenta come un difensore della famiglia, dei valori cristiani e tradizionali, del militarismo e del patriottismo. È anche un difensore del neoliberismo illimitato e del “buon cittadino”, che, nella sua logica, deve girare armato per l’autoprotezione. Contrario alla “vecchia politica”, portavoce delle classi alte e medie, dell’agribusiness e di quelli desiderosi di porre fine alla corruzione che ha segnato la politica brasiliana da sempre. Quale, tra questi aspetti retorici, sarebbe quello vincitore secondo il giudizio di questo elettore in particolare?

Il 3 ottobre stesso, gli mando un messaggio: “Cosa ne pensi di Bolsonaro?”. E lui risponde: “Mi piaceva Simone Tebet (candidata di centro del MDB, arrivata terza al primo turno). Ma nonostante le bugie che dicono su di lui, Bolsonaro è diventato l’unica opzione per sfuggire alla sinistra corrotta nel ballottaggio”. Le bugie a cui fa riferimento sono le notizie quotidiane sul governo Bolsonaro: la stampa egemonica, secondo la retorica bolsonarista, è corrotta e, quindi, inaffidabile, così come le istituzioni che lo infastidiscono, come il Supremo Tribunale Federale e il Supremo Tribunale Elettorale.

La risposta rivela cosa c’è dietro il suo voto e potrebbe essere uno degli aspetti più decisivi per il secondo turno, che si terrà il 30 ottobre. Come una parte importante dell’elettorato dell’attuale presidente, il mio amico medico non è necessariamente un bolsonarista convitto: lui, semplicemente, rifiuta terminantemente il PT. Così come lo fa una grande parte della base elettorale, di centrodestra, di Tebet, nonostante la senatrice abbia dichiarato il sostegno a Lula il 7 ottobre. Questa stessa base, dicono alcuni analisti, potrebbe votare per Bolsonaro al secondo turno, insieme a un segmento ancora incognito di quei 20,9% di astensionisti.

Giorni dopo, ricevo via WhatsApp un PDF casereccio che giustifica la posizione politica del mio amico. È un documento di 40 pagine con le copertine del settimanale brasiliano “Veja” dal gennaio 2003 a luglio 2006, una pubblicazione nota per essere un portavoce della destra liberale e poco attinente alle regole del buon giornalismo. Il file presentava diversi scandali politici aventi come protagonisti il PT e i suoi alleati in quel periodo.

Secondo alcune tesi, l’orientamento anti-PT sarebbe nato nei primi anni del governo Lula (2003-2011) sulla base di vari motivi, dalla corruzione alle questioni morali e persino di un profondo odio di classe. Congiuntamente ci sarebbero anche l’adesione delle élite brasiliane alle idee conservatrici dal punto di vista dei costumi, al neoliberismo nell’ambito dell’economia e a una fortissima tesi di anticomunismo, che ancora prevale – infatti, tra gli argomenti dei bolsonaristi, c’è la paura che il Brasile possa “diventare un nuovo Venezuela”.

È stato nel secondo mandato di Dilma Rousseff (PT) che l’antipetismo è diventato un fenomeno di espressione politica. Nel 2014, una serie di manifestazioni di estensione senza precedenti hanno occupato le principali città brasiliane. Le proteste, che inizialmente contestavano l’aumento delle tariffe dei trasporti pubblici, hanno cominciato a criticare la Confederations Cup e il Mondiale di Calcio, la corruzione politica e la crisi economica. Nel 2016, le manifestazioni delle magliette verdi e gialle chiedevano l’impeachment della presidente, con un importante sostegno della stampa egemonica. Tutto ciò, insieme all’isolamento politico di Rousseff e ad un’articolazione dell’élite politica, giudiziaria ed economica in un nuovo progetto di potere, è culminato nell’uscita forzata della presidente due anni prima della fine del suo mandato e nell’arresto di Lula.

Il 7 aprile 2018, l’ex presidente è stato arrestato per i reati di corruzione e riciclaggio di denaro nell’operazione denominata “Lava Jato” (Car Wash), e ciò gli ha impedito di partecipare alle elezioni. Iniziata a marzo 2014, quella è stata la più grande indagine sulla corruzione condotta in Brasile e ha portato alla luce un mega-schema che coinvolgeva politici da sinistra a destra, nonché grandi società pubbliche e private.

Nelle presidenziali del 2018, la polarizzazione del sistema politico, fino a quel momento incentrata sul PT (a sinistra) e sul PSDB (a destra), ha iniziato a dividersi in altri due assi: “petismo” e “antipetismo”. Con Lula in prigione e il PSDB senza un candidato forte – i cui principali esponenti erano accusati, anche loro, di corruzione – l’estrema destra di Bolsonaro è stata l’unica forza politica a presentare un’alternativa per il governo in quel momento.

Dopo oltre 500 giorni di detenzione, Lula è stato rilasciato l’8 novembre 2019, dopo che il Supremo Tribunale Federale ha ribaltato l’incarcerazione dopo il secondo grado. Parallelamente, un’indagine del sito The Intercept Brasil ha rilevato che il giudice responsabile dell’arresto di Lula, Sergio Moro, aveva ceduto informazioni privilegiate all’accusa e al Ministero Pubblico, agevolando l’azione penale con consigli e indizi – lo stesso Moro che poi è diventato il ministro della Giustizia di Bolsonaro e che oggi è un membro importante della sua campagna.

Nel 2021, la Corte ha annullato le condanne di Lula e lo ha dichiarato non colpevole sulla base di due argomenti: che non doveva essere processato presso la 13ª Corte di Curitiba, ma a Brasilia, e che il suo giudizio non è stato imparziale.

Nonostante tutti questi sconvolgimenti e la performance globalmente criticata del governo Bolsonaro, alcuni mezzi di comunicazione spesso ancora rappresentano Lula e Bolsonaro come due poli estremi, di peso equivalente. La campagna bolsonarista ne approfitta: quattro anni dopo, il suo principale argomento retorico è ancora la sua presunta postura anticorruzione, contro un Lula “ex detenuto”.

L’ideologia bolsonarista si è radicata nella società, fenomeno osservato anche nelle elezioni per il legislativo: il 2 ottobre, diversi alleati, ex ministri e sostenitori del presidente sono stati eletti deputati, governatori e senatori. Nel 2023, il PL di Bolsonaro sarà il partito più rappresentato in Senato e nella Camera dei Deputati.

Il deputato eletto Guilherme Boulos (Paolo) aveva detto che, nel caso di un ballottaggio, questi sarebbero stati i 30 giorni più difficili della storia politica brasiliana recente. Infatti è così. Una marea di disinformazione, violenza e intimidazione politica, attacchi nelle chiese a figure religiose contrarie a Bolsonaro e il drammatico episodio in cui l’ex deputato bolsonarista Roberto Jefferson ha sparato e lanciato granate contro i poliziotti che cercavano di arrestarlo per violazione della detenzione domiciliare, ha segnato le ultime settimane, risultando in una montagna russa per i sondaggi elettorali.

 

A pochissimi giorni, ormai, dal secondo turno, alcuni istituti di ricerca hanno previsto un pareggio tecnico tra Lula e Bolsonaro. L’attuale presidente è riuscito a ridurre la distanza in relazione al suo oppositore, migliorando la valutazione del suo governo con una serie di politiche pubbliche, ad esempio l’anticipo dei pagamenti dell’Ausilio Brasil (programma di trasferimento del reddito che ha sostituito il Bolsa Família) e la riduzione del tasso di interesse per i piccoli imprenditori. Il 25 ottobre, tuttavia, il sondaggio Ipec mostrava Lula con il 50% delle intenzioni di voto, contro il 43% di Bolsonaro.

La campagna di Lula, a sua volta, rappresenta sempre di più una dicotomia che si è stabilita tra il bolsonarismo e la democrazia. Già da prima si era riunita in una grande coalizione con altri settori di sinistra e con i suoi ex oppositori, avendo addirittura invitato uno dei fondatori del PSDB, Geraldo Alckmin (attualmente PTB), per il ruolo di candidato a vicepresidente. Nelle ultime settimana, Lula ha avuto un significativo sostegno di personaggi come Tebet, l’ex presidente di destra, Fernando Henrique Cardoso, e persino il titubante Ciro Gomes (centro-sinistra), ex candidato risultato in 4º nel primo turno, nonchè di grandi imprenditori.

Il secondo turno, il 30 ottobre, prevede una disputa accanita come mai prima e di risultati difficili da anticipare fino all’ultimo. Nel ballottaggio del 2002, contro José Serra (PSDB), Lula godeva di un comodissimo vantaggio di 29 punti. E nel 2006, contro Geraldo Alckmin, la differenza era di 19 punti. A prescindere dall’esito, molto probabilmente il Brasile rimarrà diviso anche dopo lo spoglio dei voti di giorno 30, con una mappa politica interamente ridisegnata e incertezze sulla solidità delle sue istituzioni democratiche.

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* Glória Paiva è una giornalista, scrittrice e traduttrice brasiliana