di Michele Giorgio –

(nella foto di Emil Salman, lavoratori  palestinesi aspettano in fila a un posto di blocco israeliano vicino Hebron)

Pagine Esteri, 27 ottobre 2022 – Ahmad preferisce «l’illegalità». «Certo, si guadagna bene a lavorare nella zona ebraica di Gerusalemme o in Israele» ci dice «ma il permesso di lavoro costa troppo, preferisco correre il rischio di essere arrestato ed espulso». Abitante di un villaggio alle porte di Betlemme, 23 anni, non sposato, Ahmad prova a guadagnarsi da vivere facendo qualsiasi lavoro, quasi sempre il muratore, accettando pagamenti in nero. «Guadagno meno (dei lavoratori con il permesso) ma almeno non sono tenuto a pagare ogni mese fino a 2500 shekel (circa 700 euro, ndr) per avere le carte in ordine». Ma gran parte dei 140mila manovali palestinesi che al mattino entrano in Israele e a sera fanno ritorno in Cisgiordania non possono permettersi l’arresto. È fondamentale per loro avere la possibilità di lavorare in Israele dove ricevono una buona paga giornaliera – in media intorno ai 300 shekel (85 euro) con punte fino a 600 shekel (170 euro) – mentre nei Territori occupati la disoccupazione è elevata e i salari sono notevolmente più bassi. Qualcuno commenta che la «pace economica» teorizzata dalle autorità israeliane è, di fatti, aver ridotto ai minimi termini l’economia della Cisgiordania e reso i palestinesi dipendenti in massa dal lavoro nello Stato ebraico.

Certo è che il lavoro in Israele è ormai irrinunciabile per tanti manovali palestinesi. Non sorprende che la concessione dei permessi sia diventata un ottimo affare per quelli privi di scrupoli, israeliani e palestinesi. Con il sistema attuale, i lavoratori pendolari pagano ciascuno 2.500 shekel al mese in contanti per un permesso in Israele. Il denaro viene diviso tra un appaltatore israeliano e un intermediario palestinese. «Cosa mi resta? Ben poco» spiega Kamal, un altro muratore. «Prendo 400 shekel al giorno, circa 8.000 shekel al mese» ci racconta «2.500 shekel se ne vanno per il permesso, 1.500 per i trasporti da e per Israele e altre centinaia per il cibo al lavoro. Alla fine, mi restano più o meno 3.500 shekel (mille euro) che il carovita rende insufficienti per una famiglia di 4-5 persone».

La tv israeliana Kan nei giorni scorsi ha mandato in onda un’indagine intitolata: «Le famiglie criminali che dominano il mercato del lavoro palestinese». L’industria dell’estorsione, ha aggiunto, è un processo sistematico che avviene con la conoscenza della polizia. Si tratta di una attività molto redditizia. Nel 2021 i suoi profitti, secondo gli studi condotti dall’Israeli National Security Research Center, hanno sfiorato il miliardo di shekel (280 milioni di euro). Il giornalista investigativo Anas Abu Arqoub sottolineava nel programma che questo «furto» sistematico è la conseguenza del fallimento riforme attese da tempo ma mai arrivate.

Alcuni studi legali hanno provato a combattere il fenomeno intentando un’azione collettiva contro una società israeliana specializzata in «permessi». L’esito è stato inquietante. Testimoni e avvocati hanno ricevuto pesanti minacce. L’avvocato Mariam Al Masry ha raccontato: «Ho contattato un certo numero di lavoratori palestinesi i cui permessi sono registrati presso una determinata azienda. Mi è apparso chiaro che la maggior parte di essi non lavorava per quella azienda, dicevano di aver avuto i permessi tramite intermediari e di aver pagato somme di denaro elevate per ottenerli».

Il giornale Haaretz riferiva qualche tempo fa che lo sfruttamento dei lavoratori palestinesi deriva da un sistema messo in piedi da Israele per cosiddette «esigenze di sicurezza». Il processo di assunzione vero e proprio inizia con uno dei 2400 appaltatori israeliani ufficialmente registrati che presenta una domanda per un permesso di lavoro per un manovale palestinese all’Autorità per la popolazione e l’immigrazione. Al termine del periodo di lavoro, l’appaltatore dovrebbe informare le autorità per far cessare la validità del permesso. Ma negli anni si è radicata una pratica illecita: invece di restituire i permessi, gli appaltatori li vendono tramite un intermediario palestinese ad altri manovali che sono disposti a pagare somme importanti. Ed è solo l’inizio. L’intermediario tiene per sé 600 shekel (circa 190 euro). L’appaltatore prende il resto, quindi emette una busta paga falsa ai «suoi» dipendenti che non includono il numero effettivo di giorni in cui il dipendente ha lavorato o il suo salario reale. Per il lavoratore palestinese non c’è scampo, se smette di pagare, l’intermediario sospende il suo permesso di lavoro. «Dai soldi all’intermediario ogni mese, non importa quanto hai lavorato. Il sistema ti costringe a dipendere da loro. Per questo ho scelto di venirne fuori», spiega Ahmad che ora preferisce lavorare in nero nella ristrutturazione di appartamenti.

La «tassa sul permesso», come la chiamano da queste parti, viene pagata dai più giovani, dal momento che i lavoratori di età pari o superiore a 55 anni non sono più tenuti a ricevere un permesso per andare in Israele. L’ILO nel 2019 ha stimato in circa 100 milioni di euro i profitti illeciti generati dalla vendita dei permessi ai palestinesi. Pagine Esteri