di Valeria Cagnazzo –

Pagine Esteri, 15 novembre 2022 – Ha interrotto lo sciopero della sete il prigioniero egiziano Alaa Abd El-Fattah, che aveva smesso di bere il 6 novembre scorso, data dell’inaugurazione della COP27 nel suo Paese, dove il potere a dir poco autoritario del presidente Abdel Fattah El Sisi ha portato in carcere migliaia di prigionieri politici e dissidenti. Lo hanno reso noto sui loro account social le sue sorelle, Mona e Sanaa Seif. “Sono così sollevata”, ha scritto Mona, “Abbiamo appena ricevuto una lettera dalla prigione indirizzata a mia madre, Alaa è vivo, dice che sta bevendo di nuovo acqua dal 12 novembre scorso. E’ assolutamente la sua calligrafia. Una prova di vita, quantomeno. Perché ce l’hanno tenuta nascosta per 2 giorni?”.

 

La sorella fa riferimento alla lettera del fratello, pubblicata poco dopo online, nella quale Alaa Abd El-Fattah, che nei giorni scorsi era stato condotto in ospedale per un peggioramento delle condizioni cliniche, scrive alla madre: “Da oggi ritorno a bere, così puoi smettere di preoccuparti per me finché non mi vedrai con i tuoi occhi. I parametri vitali sono nella norma. Li sto misurando regolarmente e sto ricevendo cure mediche”.

 

Nonostante gli sia stato permesso di inoltrare questa lettera “breve” – promette che ne arriverà una più lunga – né ai familiari né al suo avvocato è stato concesso di fargli visita. “Semplicemente non permetteranno a nessuno di vederlo e appurare il chiaro impatto di un lungo sciopero della fame sul corpo di Alaa”, ha denunciato sua sorella Mona, “(Le autorità egiziane, ndr) vogliono che resti in piedi la loro narrativa: che Alaa non è in sciopero della fame e che la sua famiglia sta mentendo”.

 

SUL CASO DI ALAA ABD EL FATTAH E LA COP27 VI INVITIAMO A LEGGERE L’ARTICOLO PUBBLICATO L’8 NOVEMBRE

di Valeria Cagnazzo –

Pagine Esteri, 8 novembre 2022È iniziata il 6 novembre a Sharm el-Sheikh, in Egitto, la ventisettesima COP, la Conferenza delle parti dell’United Nations climate change conference (COP27), che dovrebbe portare all’attuazione dell’Accordo di Parigi per l’emergenza ambientale. Una COP basata sui fatti e sulla pianificazione di strategie energetiche e ambientali da realizzare subito nei Paesi aderenti, questa la speranza del direttore esecutivo, Simon Stiell, che ha dichiarato: “Con il regolamento di Parigi sostanzialmente concluso grazie alla COP26 di Glasgow dello scorso anno, la cartina di tornasole di questa e di ogni futura COP è quanto le deliberazioni siano accompagnate dall’azione. Tutti, ogni singolo giorno, ovunque nel mondo, tutti devono fare tutto il possibile per evitare la crisi climatica”. Gli ha fatto eco il presidente della COP27, il ministro degli esteri egiziano Sameh Shoukry:  “La COP27 deve essere ricordata come la “COP dell’attuazione”, quella in cui ripristiniamo il grande consenso che è al centro dell’accordo di Parigi”. Ha, inoltre, sottolineato le catastrofiche conseguenze di un’”inazione miope” di fronte agli effetti del cambiamento climatico ed esortato ad agire immediatamente, nonostante le sfide geopolitiche e le difficoltà economiche dell’attuale periodo storico. Le sfide ambientali non sono senza dubbio meno importanti di altre, per quanto si sia arrivati alla ventisettesima assemblea delle Nazioni Unite per ribadirsi ancora una volta, sempre a parole, l’importanza di inserire la questione climatica nelle rispettive agende di governo.

La catastrofe ambientale nel frattempo ha raggiunto proporzioni spaventose e le sue conseguenze stanno “finalmente” – in francese “finelment” significa alla fine, ma si può leggere anche nell’accezione italiana, perché forse è vero che era necessario toccarle con mano – letteralmente bussando alle nostre porte. Se non si era mai avuto un ottobre così caldo, infatti, è perché il livello dei gas serra nell’atmosfera continua ogni anno a superare i record precedenti. La temperatura media del 2022, rivela il rapporto “Stato del clima globale nel 2022” dell’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) diffuso in apertura della COP27, è di 1,15 gradi sopra ai livelli pre-industriali.

Gli effetti sono la desertificazione, lo scioglimento dei ghiacciai, inondazioni e alluvioni distruttive per gli insediamenti umani in tutto il mondo. A causa della siccità, milioni di persone nel 2022 sono state condannate alla malnutrizione, milioni sono state costrette a emigrare da aree desertificate o inondate, decine di migliaia sono state uccise da catastrofi climatiche. Il caldo, inoltre, favorisce la diffusione delle malattie e la proliferazione degli agenti patogeni.  Secondo l’OMS, ogni anno, tra il 2030 e il 2050, ci saranno circa 250.000 morti in più per malnutrizione, diarrea, malaria e stress da caldo. A registrare le conseguenze più drammatiche per la vita umana sono i Paesi in via di sviluppo. Per questo motivo, tra i temi in cima all’ordine del giorno della COP27, che si concluderà il 18 novembre, dovrebbero esserci dei progetti di finanziamento e risarcimento per i Paesi più poveri, i meno inquinanti ma i più colpiti dall’inquinamento prodotto dai Paesi più industrializzati. Secondo molti attivisti, tuttavia, si tratterebbe di uno dei punti che incontrerà più ostilità alla sua effettiva attuazione nella “COP dei fatti”. A questo proposito, il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, nel suo discorso di apertura, ha chiesto ai governi di tassare i profitti delle compagnie di combustibili fossili e di reindirizzare quel denaro ai Paesi in via di sviluppo, dove la popolazione piange le sue perdite a causa del cambiamento climatico. Il progetto dell’ONU si chiama “Primo allarme per tutti”, e dovrebbe raccogliere almeno 3,1 miliardi di dollari dai Paesi aderenti, al momento 50, tra il 2023 e il 2027. Da Sharm el-Sheikh, inoltre, il premier spagnolo Pedro Sánchez ha annunciato che la Spagna metterà a disposizione “un capitale iniziale di 5 milioni di euro” per il clima e la cooperazione multilaterale. Ursula von der Leyen ha promesso che la Commissione europea stanzierà un miliardo di euro per salvare le foreste. L’ex vice-presidente americano Al Gore ha ventilato il rischio di un miliardo di migranti economici in Occidente e delle conseguenze sociali, in termini di xenofobia e tensione, che questi potrebbero provocare. Grandi assenti, Cina e Russia. Tra i partecipanti all’assemblea dedicata a un impegno contro il clima che mette in prima linea le donne e le giovani generazioni, anche rappresentanti di regimi autoritari e restrittivi sui diritti umani. Tra i volti approdati a Sharm el Sheikh, anche il principe saudita Mohammed Bin Salman.

Anche Giorgia Meloni, in rappresentanza dell’Italia nel suo primo viaggio come primo ministro, accompagnata da Pichetto Fratin, ministro dell’ambiente, ha raggiunto la destinazione esotica della COP. Il primo incontro ufficiale quello con il Presidente Al Sisi, durante il quale, oltre ai temi di materia ecologica, i due leader sembrano aver definitivamente disteso le relazioni tra i rispettivi Paesi, incrinatesi dopo il rapimento e l’omicidio brutale  compiuto dai servizi di sicurezza egiziani di Giulio Regeni, per discutere di forniture di gas, cooperazione industriale e collaborazione nel respingimento dei migranti nel Mediterraneo.

Sempre il 6 novembre scorso, mentre veniva inaugurata la COP27, non troppo lontano dalle sontuose sale della conferenza adibite per ospitare i leader mondiali, in un carcere egiziano succedeva qualcos’altro. Alaa Abd El Fattah iniziava lo sciopero della sete. L’informatico e attivista in carcere per la sua partecipazione alle manifestazioni della primavera araba, dopo 218 giorni di sciopero della fame il 6 novembre ha annunciato che avrebbe rinunciato anche all’acqua. Una decisione durissima in segno di protesta contro il suo arresto illegale e contro quello di migliaia di detenuti delle prigioni egiziane per reati di opinione (ne avevamo parlato qui), proprio in occasione del più importante evento sul clima che riunisce i rappresentanti di quasi tutto il mondo nel Paese che li detiene ingiustamente.

Dell’incompatibilità di un evento internazionale sull’ambiente con un sistema dittatoriale, che reprime con torture e arresti qualsiasi forma di dissenso, si erano accorti in molti, nei mesi scorsi, e non solo attivisti come Naomi Klein. In una lettera pubblicata mercoledì scorso, quindici premi Nobel hanno chiesto che in occasione della COP27 gli Stati chiedano libertà per Alaa Abd El Fattah e gli altri prigionieri politici egiziani. A firmare la lettera, indirizzata a diversi capi di Stato, Svetlana Alexievich, J. M. Coetzee, Annie Ernaux, Louise Gluck, Abdulrazak Gurnah, Kazuo Ishiguro, Elfriede Jelinek, Mario Vargas Llosa, Patrick Modiano, Herta Muller, Orhan Pamuk, Roger Penrose, George Smith, Wole Soyinka, and Olga Tokarczuk. Nel loro appello si legge “La voce potente di Alaa Abd El Fattah per la democrazia è vicina ad essere estinta, vi chiediamo di rifarle fiato leggendo le sue parole”. Ai premi Nobel, si sono uniti in questi giorni intellettuali e scrittori da tutto il mondo.

Nel video, la scrittrice Arundhati Roy che aderisce all’appello #FreeAlaa Da Amnesty International, Greenpeace a diversi attivisti contro il cambiamento climatico hanno denunciato l’ipocrisia epocale di questo evento. Prima tra tutti Greta Thumberg, che non ha accettato che la conferenza climatica venga ospitata in un Paese dittatoriale che uccide gli attivisti per i diritti umani. Non parteciperà, quindi, alla COP27, neanche per gridare in faccia ai potenti che lì fanno solo “blah blah blah”, come aveva fatto un anno fa. Quest’anno, con la COP27 faranno qualcosa di peggiore: Thumberg parla di “greenwashing”. Sui suoi account social, ha denunciato le violazioni dei diritti umani nel Paese e l’ingiusta detenzione di Abd El Fattah. Il 30 ottobre, poi, si è unita al sit-in di fronte all’ufficio del Commonwealth e dello Sviluppo Estero a Londra organizzato dalle sorelle di Abd El Fattah per chiedere al governo inglese di intervenire per la sua scarcerazione.

Abd El Fattah sarebbe, infatti, cittadino egiziano e inglese, e secondo le sorelle Sanaa e Mona Seif Londra dovrebbe intervenire per liberarlo e riportarlo in Gran Bretagna. Secondo quanto dichiarato in questi giorni dal governo di Al Sisi, invece, Abd El Fattah non avrebbe mai completato le pratiche per ottenere la cittadinanza britannica e sarebbe “solo” un cittadino egiziano. E come tale verrà trattato. “Non è affatto una rassicurazione”, hanno risposto le sorelle. Quando le porte della COP27 si sono aperte, è proprio sugli account twitter di Sanaa Seif che si è letto che il fratello avrebbe bevuto il suo ultimo bicchiere d’acqua. Ore di tensione, durante le quali la stessa Sanaa si è recata direttamente a Sharm El Sheikh, per portare fisicamente la sua protesta nella sede della COP27. Per suo fratello, se nessuno tra i leader impegnati a promettersi svolte ecologiche e rivoluzioni verdi tra poltroncine e coffee break interverrà, la sopravvivenza potrebbe essere una questione di ore o di una manciata di giorni.

Il 7 novembre, con una climax di tweet pubblicati da Mona Seif, la famiglia ha fatto, inoltre, presente che dopo ore di attesa in carcere, la lettera settimanale di Alaa, l’unico strumento per il detenuto per comunicare con i familiari e con il mondo, non le è stata consegnata. Le guardie carcerarie avrebbero affermato che il prigioniero non aveva voglia di scrivere. Poco credibile, secondo i Seif, che iniziano a domandarsi se l’uomo sia ancora in vita.

 

Mentre Alaa Abd El Fattah smetteva di bere e Al Sisi stringeva la mano ai leader mondiali, per le strade egiziane almeno un centinaio di altri attivisti erano già stati arrestati, secondo l’Egyptian Commission for Rights and Freedoms, sempre per reati di opinione sui social. Sono vietate le manifestazioni nel Paese – mentre nei padiglioni della COP27 c’è un’intera area “Verde” apparentemente dedicata agli scambi di opinione liberi e democratici tra i giovani di tutto il pianeta. “Sulla strada verso la COP27, ricordate che molti Egiziani stanno pagando un prezzo pesante per la vostra presenza. Stanno avvenendo arresti per onorare la vostra presenza. Il minimo che possiate fare sarebbe mostrare un po’ di rispetto alle decine di migliaia nelle prigioni di Al Sisi”, ha scritto Sanna Seif. Sharm El Sheikh è militarizzata e costellata di posti di blocco, dove un controllo sul cellulare e un tweet di troppo potrebbe costare la prigione. Molte serrande sono chiuse. Il Paese tace imbavagliato. Il messaggio è chiaro: nessuno in Egitto deve parlare e raccontare, mentre i grandi del pianeta passeggiano a Sharm El Sheikh. Pagine Esteri