di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 28 novembre 2022 – Negli ultimi anni e in maniera ancora più consistente negli ultimi mesi i legami economici tra Kazakistan e Cina sono cresciuti. In Pechino il Kazakistan – insieme al Turkmenistan – ha trovato una sponda per diversificare le esportazioni di gas e petrolio (estratti spesso da aziende russe) grazie alla realizzazione delle pipeline Asia Centrale-Cina e Kazakistan-Cina; in cambio delle forniture di idrocarburi all’energivoro gigante asiatico, le repubbliche centrasiatiche hanno ottenuto decine di miliardi di investimenti e l’accesso delle proprie merci all’enorme mercato cinese.

Il Kazakistan guarda a Pechino e non solo
La dichiarazione congiunta Cina-Kazakistan seguita al vertice di settembre pone le basi per un ulteriore sviluppo della cooperazione economica nei settori dell’energia e delle infrastrutture.

Dopo l’indipendenza raggiunta all’atto dello scioglimento dell’Unione Sovietica, il Kazakistan è stato inserito in tutti i progetti di integrazione promossi da Mosca, dalla Comunità degli Stati Indipendenti all’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, dall’Unione Economica Eurasiatica all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva. Il presidente Tokayev, così come il suo predecessore Nazarbayev, è cosciente del fatto che il suo paese dipende ancora molto, soprattutto economicamente, dal potente vicino del nord. Ma nonostante il crescente nervosismo di Mosca, Astana continua a perseguire la diversificazione dei rapporti economici e politici internazionali, approfittando della sua posizione di snodo dei traffici tra est e ovest e delle sue ingenti risorse naturali.
Durante il suo ultimo viaggio negli Stati Uniti per partecipare all’Assemblea generale dell’Onu, Tokayev ha incontrato i rappresentanti di importanti multinazionali statunitensi, tra le quali Microsoft e General Electric. La Casa Bianca e tutto il fronte occidentale, ovviamente, osserva con interesse i movimenti di Astana.


L’Unione Europea corteggia l’Asia Centrale
Esortazioni ad ampliare lo stato di diritto e ad applicare riforme democratiche a parte, né gli Usa né l’UE hanno adottato alcuna sanzione contro il regime autocratico kazako neanche dopo la sanguinosa repressione – costata centinaia di morti – della rivolta del gennaio scorso contro Tokayev, sedata grazie all’intervento delle forze speciali russe.

In particolare, l’Unione Europea ha esplicitamente investito nel tentativo di diventare un attore geopolitico ed economico influente in Asia Centrale, cercando di intaccare lo storico primato russo.
L’UE ha decisamente puntato su Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan, offrendo alle cinque repubbliche ex sovietiche partenariati regionali e internazionali, con l’obiettivo di aggiudicarsi crescenti forniture di idrocarburi utili a sostituire le esportazioni finora provenienti dalla Russia, trovare nuovi sbocchi commerciali, perorare l’isolamento di Mosca ed evitare che a trarre vantaggio dall’indebolimento dell’influenza russa nell’area siano solamente Pechino e Ankara.
A tale scopo, alla fine di ottobre, il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel si è incontrato ad Astana con i leader dei cinque “stan”; poco prima, la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen aveva avuto un incontro in videoconferenza con il presidente kazako Tokayev.
L’Unione Europea sta letteralmente corteggiando l’Asia Centrale, ed in particolare Kazakistan e Uzbekistan. Per ottenere lo scopo Bruxelles potrebbe investire parte dei 300 miliardi di euro messi a disposizione entro il 2027 nell’ambito del “Global Gateway”, un piano ideato per rappresentare l’alternativa europea alla Belt and Road Initiative di Pechino. L’UE punta a implementare la sua Rotta Internazionale di Trasporto trans-caspico o “Corridoio Mediano”, un sistema di trasporto delle merci via ferrovia e via nave che ha lo scopo di collegare l’Europa alla Cina aggirando il territorio russo attraverso Turchia, Azerbaigian e Kazakistan. Su questo progetto dei passi in avanti sono stati compiuti durante i colloqui di Samarcanda del 17 e 18 novembre tra i rappresentanti europei e quelli locali. «L’UE ha molto da offrire per aiutarvi a diversificare le vostre opzioni di politica estera» e a «sostenere i vostri sforzi di integrazione regionale» ha detto il capo della diplomazia europea Josep Borrell nel corso del suo intervento. «Noi siamo il più grande investitore in Asia centrale: quasi la metà degli investimenti cumulati nella regione – più del 40% – sono stati effettuati da imprese dell’UE» ha aggiunto Borrell
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Josep Borrell a Samarcanda

Gli “stan” alzano la voce
Recentemente Astana e le altre capitali dell’Asia Centrale sono state al centro dell’intenso lavorio diplomatico e geopolitico accelerato dall’invasione russa dell’Ucraina. Alcuni degli eventi più importanti hanno anche rappresentato lo scenario all’interno del quale i leader di alcuni “stan” hanno pubblicamente tenuto testa, in maniera anche eclatante, alle pretese russe.

A settembre, durante il vertice della Sco di Samarcanda, il presidente kirghiso Sadyr Japarov ha lasciato che Vladimir Putin lo aspettasse per diversi minuti da solo, davanti alle telecamere, prima del previsto incontro bilaterale.
Al vertice della Comunità degli Stati Indipendenti del 14 ottobre ad Astana, invece, il presidente del Tagikistan Emomali Rahmon ha pubblicamente ammonito il capo del Cremlino a trattare gli stati dell’Asia Centrale con più rispetto. Il video del suo intervento, durante il quale ricorda a Putin che “non sono più i tempi dell’Unione Sovietica” e sollecita Mosca ad aumentare i suoi investimenti nel suo paese, è diventato virale.

I due episodi, inconcepibili fino a qualche mese fa, manifestano una crescente insofferenza da parte dei paesi dell’Asia Centrale nei confronti dell’influenza russa o, quantomeno, indicano che le difficoltà russe in Ucraina stanno convincendo i regimi dei vari “stan” ad alzare il prezzo della propria fedeltà a Mosca – comunque non più totale e incondizionata – allo scopo di ottenere maggiori investimenti e nuove concessioni.

La Cina apre i cordoni della borsa
D’altronde il leader cinese Xi Jinping, quando si è recato in Uzbekistan a metà settembre per prendere parte al vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, ha firmato con Tashkent accordi per 16 miliardi di dollari, quasi quattro volte il valore di quelli sottoscritti con Mosca (4,6 miliardi). Inoltre, nel 2021 la Cina ha superato la Russia come fonte principale di investimenti diretti esteri in Uzbekistan con 2,2 miliardi di dollari contro i 2,1 di Mosca.
A margine del vertice di Samarcanda, poi, l’Uzbekistan ha firmato, con la Cina e il Kirghizistan, uno storico accordo da 4,5 miliardi per la realizzazione di una ferrovia che colleghi i tre paesi e che sia in grado di trasportare più rapidamente le merci (in particolare quelle di Pechino) verso occidente bypassando il territorio russo.
Il presidente Shavkat Mirziyoyev, al potere dal 2016, accentua così l’autonomia da Mosca di un paese che non fa parte né dell’Unione Economica Eurasiatica – guidata dalla Russia – né dall’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva.
Oltre che a Pechino, Tashkent cerca sponde ad Ankara: il 29 marzo, nel corso di una visita di Erdogan nel paese, i ministri della Difesa uzbeko e turco hanno firmato un accordo per lo sviluppo della cooperazione militare.

Reparti della CSTO

La “Nato russa” vacilla?
Uno degli strumenti di influenza russa in Asia Centrale che sembra perdere più mordente sembra essere quello di carattere militare, che pure Mosca ha utilizzato con successo a gennaio per evitare la caduta del regimie kazako inviando nel paese le truppe del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), alleanza che riunisce Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan.
Quando però nel settembre scorso le forze armate azerbaigiane, sostenute dalla Turchia, hanno aggredito la Repubblica Armena – e non più solo l’enclave del Nagorno-Karabakh – il CSTO ha mostrato tutti i suoi limiti. Non solo Mosca non è riuscita ad impedire preventivamente l’aggressione, nonostante la presenza sul campo di migliaia di soldati russi in veste di peacekeepers, ma ha faticato molto a bloccare le forze azere. Infine alla richiesta, da parte di Erevan, di intervento delle truppe dell’alleanza per proteggere l’integrità territoriale dell’Armenia sulla base dell’articolo 4 del trattato, Mosca ha risposto picche, nonostante tra la Russia e il piccolo paese esista anche un’alleanza militare diretta.
Neanche gli altri membri del CSTO, d’altronde, hanno dimostrato particolare entusiasmo per l’intervento, viste le crescenti relazioni economiche e militari intrattenute con l’Azerbaigian e la Turchia. L’atteggiamento di Mosca ha provocato delusione e sdegno in Armenia, il cui governo si è rivolto agli Stati Uniti (che hanno inviato a Erevan Nancy Pelosi) e a Bruxelles. All’ultimo vertice del CSTO a Erevan, il presidente armeno Nikol Pashinyan non ha voluto partecipare alla foto di gruppo dei capi di stato presenti e non ha firmato la dichiarazione congiunta finale.
Per di più il Ministro della Difesa kazako Mukhtar Tleuberdi ha affermato che il paese intendeva abbandonare il patto militare, anche se poi è stato smentito dal presidente Tokayev.
Infine, sempre a settembre gli eserciti di due membri del CSTO – Tagikistan e Kirghizistan – si sono duramente scontrati per il controllo di estese aree di confine oggetto di una contesa che dura da decenni. Anche in questo caso Mosca ha faticato a convincere i contendenti a cessare il fuoco, l’ennesimo segnale che la tenuta della cosiddetta “Nato russa” scricchiola.

La Russia perde terreno
Ovviamente, nonostante la crescita dell’influenza di alcuni dei suoi competitori nell’area, la presa della Russia sull’Asia Centrale è ancora prevalente, grazie alla sua diffusa presenza militare diretta e alla dipendenza delle economie locali da quella di Mosca. Ad esempio, le rimesse inviate in patria dai propri emigrati in Russia rappresentano circa il 30% del prodotto interno lordo di Kirghizistan e Tagikistan.
Però sembra che la situazione determinata dall’avventura bellica in Ucraina abbia provocato un allentamento – occorrerà vedere se temporaneo o meno – del controllo russo sull’Asia Centrale a favore soprattutto della Cina, ma anche della Turchia. Se negli ultimi decenni la competizione sino-russa nell’area aveva portato a una relativa divisione dei ruoli – lo sceriffo russo deteneva il controllo militare e politico mentre la Cina sviluppava la propria influenza economica e commerciale – le recenti evoluzioni geopolitiche stanno avvantaggiando Pechino anche come interlocutore politico strategico dei diversi “stan”.
In prospettiva, inoltre, anche le attenzioni europee e statunitensi potrebbero dare dei grattacapi a Mosca, che allo stato rimane il principale attore della scena centrasiatica ma che potrebbe presto subire l’ascesa della potenza di Pechino nel suo tradizionale cortile di casa. – Pagine Esteri

Leggi la prima parte dell’articolo: Cina, Turchia e UE insidiano il primato russo in Asia Centrale (1a parte)

* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora anche con il Manifesto, Catarsi e Berria.