di Davide Matrone – 

Pagine Esteri, 14 dicembre 2022 – La Bolivia è il paese più instabile del continente latinoamericano ed è tra quelli che registra più governi imposti in modo anti-democratico a livello mondiale. In America Latina è quello che conta più colpi di stato in assoluto dalla dichiarazione della sua Indipendenza nell’anno 1825 con ben 36 casi all’attivo. L’ultimo si ebbe nel 2019 quando Evo Morales, dopo aver vinto le elezioni democraticamente, dovette lasciare il potere con la forza e rifiugiarsi in Messico prima e in Argentina poi. Il primo invece si ebbe nell’anno 1828, quando una sollevazione militare pose fine al governo costituzionale del Maresciallo Ayacucho e al suo posto fu posto il Generale José María Pérez de Urdininea.

Secondo alcuni studi realizzati nella FLACSO (Facoltà Latinoamericana di Scienze Sociali) che ha varie sedi nel continente, si dichiara che le divisioni interne delle Forze Armate Boliviane sarebbero la principale causa di questi innumerevoli colpi di stato. Inoltre, il paese vive tensioni e conflitti in modo permanente e costante per le divisioni etniche, linguistiche, geografiche sociali ed economiche dell’intero paese. Nel 2006 quando le elezioni le vinse Evo Morales, per la prima volta un Presidente indigeno governava un paese in cui oltre il 60% della popolazione era composto da abitanti di nazionalità ancestrali. Fino all’anno 2006 non fu mai eletto un Presidente indigeno, anzi ci furono occasioni in cui al potere del paese venivano eletti Presidenti che addirittura parlavano con un mezzo accento americano come nel caso del Presidente bianco Gonzalo Sánchez de Lozada. Evo Morales, presidente dello Stato Plurinazionale della Bolivia (dichiarato tale sotto la sua guida) dal 2006 al 2019 aveva messo in atto un modello di sviluppo che si ispirava al Socialismo del 21º secolo teorizzato dal sociologo tedesco Heinz Dieterich Steffan (assessore di Hugo Chávez fino all’anno 2007). La mescolanza delle politiche neo-keynesiane in campo economico con l’allora ministro dell’Economia Luis Arce (oggi Presidente della Bolivia), con un socialismo gramsciano e plurinazionale in campo politico grazie alla spinta del vicepresidente boliviano Álvaro García Linera, fece sì che la Bolivia in quasi 15 anni risultò essere tra i paesi latinoamericani che aveva ridotto maggiormente le disuguaglianze economiche e sociali e registrava allo stesso tempo uno dei migliori PIL della regione. Questo modello dava fastidio alle élite bianche e meticce di sempre che non sopportavano l’idea, inoltre, di essere guidati da un indio (termine dispregiativo utilizzato contro gli indigeni) e per di più un ex sindacalista socialista. A questi elementi si aggiungeva poi un vicepresidente chiaramente marxista, gramsciano e mariateguista.

Quindi contro il MAS (Movimento al Socialismo) di Evo Morales e di García, da sempre si è messa in marcia una campagna destabilizzatrice che ha visto nella regione più produttiva del paese di Santa Cruz, a maggioranza bianca-meticcia, l’epicentro dell’opposizione antigovernativa. Tra i colpi più destabilizzanti anti-Morales c’è da annoverare quello del 2016 quando si realizzò il Referendum costituzionale nel quale si chiedeva al popolo boliviano la riforma dell’articolo 168 della Costituzione da 2 a tre mandati consecutivi per le massime cariche dello Stato. In quell’occasione vinse il NO con il 51.30% con 9 regioni su 12 contro il Presidente Morales. In quella votazione si registrò la vittoria schiacciante nella regione di Santa Cruz dove il NO conseguì un 61% dei voti. Dalla stessa regione si sono sempre messe in atto, nei 15 anni di governo Morales, manifestazioni contrarie. Inoltre, da questa regione viene una delle figure politiche più aggressive della destra reazionaria e razzista della Bolivia degli ultimi anni e cioè Fernando Camacho che fu protagonista, insieme a Jeanine Añez, del famoso colpo di stato del 2019 con la complicità della OEA di Luis Almagro. In molti si ricordano i volti trionfanti dal balcone del Palazzo di Governo di Añez (che inneggiava il potere con la Bibbia in mano), Camacho e Pumari dopo le rivolte del 2019. Furono questi ultimi 2 a giungere da Santa Cruz alla volta di La Paz e chiedere ad Evo Morales la rinuncia al potere.

Dal mese di ottobre, riprendono le tensioni in Bolivia e nuovamente dalla Regione di Santa Cruz governata dall’imprenditore crucegno e lider della destra boliviana, Luis Fernando Camacho. Per saperne di pìu ho contatato la comunicatrice e docente in Scienze Politiche di La Paz, Maricruz Zalles.

Dal 21 ottobre, nella regione di Santa Cruz, si sono registrate una serie di proteste per il mancato censimento da parte del governo centrale. 

Lo sciopero a Santa Cruz è cominciato il giorno 21 ottobre e non è certamente casuale questa data. Per l’opposizione è considerata una data simbolica perché il Referendum che perse Evo Morales nel 2016 si tenne esattamente il 21 febbraio. Poi ci furono i 21 giorni di proteste poselettorali del 2019 per cacciare Evo dal paese. Il censimento è totalmente un pretesto per creare disordini nel paese strumentalizzando il dolore e la rabbia di una parte della popolazione della Regione. C’è senza dubbio la strumentalizzazione politica da parte dell’opposizione rappresentata in questo caso dal Comitato Civico Pro Santa Cruz. Questi comitati civici sono gestiti da imprenditori locali che rappresentano gli interessi delle élite crucegne. Inoltre, il Comitato Civico di Santa Cruz si muove in modo autoreferenziale, i rappresentanti non vengono scelti in base ad elezioni popolari e non si concedono spazi ad istanze che vengono dal basso. Inoltre, le ultime prese di posizioni dei comitati civici locali con rispetto al federalismo e al secessionismo sono, a mio avviso, pericolose. E poi, per queste proteste c’è l’appoggio dello stesso Governatore della Regione di Santa Cruz Camacho, lider dell’opposizione al governo Arce. Bisogna dire che alla fine l’opposizione non è nemmeno riuscita nell’intento: chiedeva che il censimento si realizzasse nell’anno 2023 ed invece si terrà nel 2024.

Qual è la congiuntura politica e sociale attuale in Bolivia?

C’è senza dubbio una crisi politica che si trascina dal 2016 con il Referendum perso da Evo Morales all’epoca quando chiese la modifica Costituzionale e la rielezione alla Presidenza della Repubblica. Da allora si vive una tensione politica molto forte. Inoltre, dopo il colpo di stato del 2019, si è incrementata e generalizzata la tensione. C’è un clima di caccia alle streghe tra i rappresentanti dei due gruppi, pro MAS e anti MAS. Si armano liste di proscrizione, si controlla tutto ciò che si scrive e si dichiara pubblicamente da una parte e dall’altra. Tutto questo ha incrementato una forte polarizzazione nella comunità politica boliviana.

Qual è il bilancio del governo Arce dopo 2 anni di governo?

Arce è visto come un tecnocrate, un burocrata. Per questa ragione, la gestione che ha mostrato è abbastanza leggera, politicamente corretta e di basso profilo. È stato ministro dell’Economia nei governi Morales ed ha registrato buoni risultati in termini di crescita economica però come Presidente della Repubblica è criticato per non concretizzare il piano di governo. Continua con un discorso contradditorio e per questo è criticato da vari settori della popolazione e anche tra coloro che l’hanno sostenuto. Arce non ha il carisma di Evo Morales. In definitiva, le riforme non decollano come prima che erano più evidenti e si mostravano più efficacemente.