di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 16 dicembre 2022 – La guerra in Ucraina sta per entrare nel decimo mese ma i combattimenti non sembrano affatto vicini alla conclusione.
Il fronte occidentale continua a sostenere politicamente, economicamente e militarmente Kiev affermando di mirare – come d’altronde ripete quotidianamente Volodymyr Zelensky – alla definitiva sconfitta della Federazione Russa e al completo ritiro delle sue truppe da tutto il territorio ucraino.

La Russia non può perdere
Ma la verità – e lo sanno bene le cancellerie dei paesi aderenti al Patto Atlantico – è che la Russia non può perdere, perché un passo falso in Ucraina potrebbe segnare la fine del potere di Vladimir Putin e gravi conseguenze per la Federazione.
Nei giorni scorsi Zelensky ha affermato che «se morisse Putin la guerra finirebbe», ma non è affatto scontato. Certo, a Mosca potrebbe prevalere la corrente pragmatica dell’establishment, cosciente dei limiti oggettivi della macchina militare e dell’economia russa e magari incline a cercare una ricomposizione con la Nato, alla quale del resto la Russia si era fortemente avvicinata a metà degli anni ’90 del secolo scorso (ai tempi della “Partnership for Peace”), prima che Washington la escludesse e iniziasse l’assedio.
Il contesto internazionale attuale, però, non sembra certo evolvere verso una ricomposizione tra i vari poli della competizione globale tra potenze e blocchi geopolitici. La sconfitta del più consistente tentativo finora intrapreso da Mosca di riprendersi un pezzo importante dello spazio territoriale e geopolitico occupato prima dall’impero russo e poi dall’Urss, costituirebbe un grave shock non solo per l’attuale dirigenza russa ma soprattutto per le correnti ancora più radicali dello scenario politico russo, nel quale nazionalismo e sciovinismo prendono sempre più piede.
In caso di fallimento, è proprio da questi ambienti radicali che dovrebbe difendersi Putin, la cui caduta potrebbe innescare un’ulteriore escalation da parte della Russia nello strenuo tentativo di evitare un possibile collasso in uno scontro con la Nato sempre più diretto, per quanto per ora combattuto sul suolo ucraino. Le difficoltà di Mosca stanno già creando
scompiglio negli “stan” dell’Asia Centrale, dove i vari regimi cercano di limitare la tradizionale influenza russa rafforzando le relazioni economiche e militari con la Cina, la Turchia e i paesi occidentali.


Qual è l’obiettivo di Mosca?
Non è affatto chiaro, però, cosa Putin consideri sufficiente per dichiararsi vincitore. Nelle prime settimane dopo l’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe russe, sembrava che la cosiddetta “operazione militare speciale” puntasse non solo alla conquista del maggior numero di territori possibile ma anche a imporre a Kiev un governo fantoccio o comunque incline ad una trattativa impari con Mosca.
Poi, fallita la presa di Kiev e la decapitazione della leadership ucraina, la strategia del Cremlino sembrava mirare a occupare quantomeno tutta l’Ucraina sud-orientale per conquistare una stabile continuità territoriale con la Crimea e assimilare la maggior parte dei territori abitati dai russofoni, appropriandosi oltretutto delle zone più ricche di risorse naturali e infrastrutture industriali.
Nelle ultime settimane, invece, la strategia di Mosca sembra essere ulteriormente mutata: ora sembra che Putin miri a tenersi almeno alcuni dei territori annessi dopo aver deciso di abbandonare Kherson e le zone sulla sponda destra del fiume Dnipro, la cui difesa sarebbe costata un prezzo eccessivo, puntando nel contempo a fiaccare l’Ucraina per obbligare la sua la leadership a trattare.

Mosca martella città e infrastrutture
A questo mirano gli incessanti e implacabili bombardamenti, con droni e missili, delle infrastrutture civili (soprattutto centrali elettriche e sistemi idrici) e delle città ucraine realizzati dalle forze russe guidate da ottobre dal generale Sergej Surovikin.
Anche se Putin ha avvisato che i bombardamenti delle infrastrutture nevralgiche ucraine continueranno “in risposta” al sabotaggio del ponte di Kerč’ da parte di Kiev, appare evidente che Mosca intende piegare la popolazione civile lasciandola al buio, al freddo e senz’acqua durante il lungo e duro inverno ucraino.
Il premier ucraino Denys Smyhal ha avvisato che se gli attacchi ai sistemi elettrici ed idrici continueranno, il Pil del paese potrebbe crollare quest’anno del 50%.
Una relativa pausa invernale dei combattimenti a terra, inoltre, è utile a Mosca anche per addestrare ed inviare al fronte forze fresche, mobilitate in autunno, e riorganizzarsi logisticamente.

Usa e Ue aumentano aiuti e forniture militari
Per tentare di impedire il collasso dell’Ucraina l’Unione Europea si è impegnata a fornire a Kiev, nel corso del 2023, un pacchetto di aiuti pari a 18 miliardi, superando il veto del governo ungherese minacciato da Bruxelles del blocco dei fondi europei.
Dopo aver a lungo tentennato, invece, Washington sembra intenzionata ad inviare alcune batterie di Patriot a Kiev per migliorare la difesa antiaerea ucraina almeno sulla capitale del paese. Fornendo i Patriot, in grado di individuare e distruggere aerei e missili nemici anche a notevole distanza (ma non i droni), gli Stati Uniti sperano di diminuire l’intensità dei bombardamenti russi e dare un po’ di respiro a Kiev.
La formazione del personale in grado di utilizzare questo scudo antiaereo, però, è una procedura che richiede mesi; Mosca teme quindi che la Nato decida di far gestire inizialmente i Patriot al proprio personale militare, il che aumenterebbe ulteriormente il grado coinvolgimento dell’Alleanza Atlantica nel conflitto in corso.
Proprio nei giorni scorsi, d’altronde, il tenente generale Robert Magowan, ex comandante dei Royal Marine di Londra, ha ammesso esplicitamente che alcune unità d’élite della marina britannica hanno partecipato a missioni «ad alto rischio politico e militare» e ad «operazioni segrete» sul suolo ucraino.
Gli Usa – che in totale hanno finora fornito all’Ucraina 19,3 miliardi di aiuti militari – hanno già inviato a Kiev alcuni missili HIMARS, imponendo però agli ucraini di utilizzarli solo per colpire le forze di Mosca sul suolo del paese invaso e non oltre il confine russo.
All’inizio di dicembre, comunque, Kiev ha deciso di bombardare, con
droni dell’epoca sovietica potenziati, le basi russe di Ryazan ed Engels e un impianto petrolifero vicino a Kursk, centinaia di chilometri oltre il confine. Se gli attacchi hanno avuto un innegabile effetto psicologico sia in patria sia oltreconfine, la sortita non ha certo inciso sugli equilibri bellici. Mosca ha infatti risposto con massicci bombardamenti lanciando missili di ultima generazione realizzati negli ultimi mesi nonostante l’embargo alla quale la Russia è sottoposta da parte di Usa ed Ue.


La guerra sarà lunga
Da parte sua la Nato continua a inviare segnali contraddittori. Da una parte frena, tendenzialmente, gli impeti ucraini nel timore che Mosca si convinca ad usare tutti i mezzi a sua disposizione alzando il livello dell’asticella. D’altra parte, però, l’Alleanza Atlantica non ha nessun interesse ad un cessate il fuoco che concederebbe ossigeno a Mosca e potrebbe fomentare le contraddizioni interatlantiche tra Bruxelles – fortemente penalizzata dalla polarizzazione dello scenario mondiale sia sul fronte economico che militare – e Washington e Londra – che invece se ne avvantaggiano.
La Nato sembra puntare ad un lungo conflitto nella speranza non che Kiev cacci definitivamente i russi dal proprio territorio – possibilità alquanto remota – ma che la continuazione dei combattimenti sfianchi a lungo andare la Russia causando una crisi che ridimensioni fortemente le aspirazioni geopolitiche di Mosca.
Parlando al “Consiglio per lo sviluppo della società civile e dei diritti umani” Putin ha avvisato il popolo russo che la guerra in Ucraina sarà lunga e che sussiste il pericolo che si trasformi in un conflitto nucleare, anche se nessuna delle parti ammette di poter utilizzare per prima l’opzione atomica. Il presidente russo ha però vantato alcuni risultati positivi, come «l’acquisizione di nuovi territori» e il fatto che «il Mar d’Azov è diventato un mare interno della Russia».
Anche il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha ammesso che la guerra sarà lunga, insistendo sul fatto che sarà il campo di battaglia a decidere dove e quando si terranno eventuali colloqui di pace, escludendo quindi una trattativa con Mosca. Una trattativa che in realtà esiste già, per quanto dietro i riflettori, come dimostra il recente scambio tra un’atleta statunitense arrestata in Russia per traffico di stupefacenti e Viktor Bout, un ex ufficiale dell’aeronautica sovietica arrestato dagli Usa perché accusato di trafficare armi. A rivelare i contatti tra Russia e USA anche le reazioni infastidite e preoccupate di Kiev dei giorni scorsi; evidentemente gli ucraini temono un accordo tra le potenze nucleari che li bypassi.

Il Donbass sempre più martoriato
Paradossalmente, sia Putin che Stoltenberg hanno convenuto su un fatto che spesso l’informazione e la politica tendono a dimenticare: la guerra in corso non è iniziata il 24 febbraio scorso ma nel 2014, quando con il sostegno della Nato le correnti nazionaliste e scioviniste ucraine presero il potere a Kiev lanciando una “operazione militare speciale” contro le popolazioni russofone del Donbass che si opponevano al nuovo regime, a loro volta sostenute da Mosca che decise di annettersi la Crimea.
Il Donbass rimane il territorio più martoriato nei combattimenti, con le forze russe impegnate da settimane a tentare di strappare a Kiev la città di Bakhmut, strategica per l’eventuale conquista di centri come Kramatorsk, Slovjansk, Lyman e Izium.
Nelle ultime ore sembrerebbe che le forze di Mosca stiano avendo la meglio e stiano lentamente avanzando, dopo che negli ultimi due mesi non si sono registrati cambiamenti significativi della linea del fronte. Dal canto loro, le autorità dell’ormai ex Repubblica Popolare di Donetsk denunciano i più massicci bombardamenti dal 2014, che stanno riducendo le città in macerie e terrorizzando quella parte della popolazione che ha deciso di non evacuare in Russia. – Pagine Esteri

* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora anche con il Manifesto, Catarsi e Berria.