di Paolo Pantaleoni* –

Pagine Esteri, 4 gennaio 2022 – La pianura della Sava disegna paesaggi monotoni in una Slavonia avvolta dal caldo di metà settembre.

Ciò che per secoli è stato il frutteto d’Europa oggi è ostaggio della monocoltura maidicola che disegna il nuovo orizzonte.

L’autostrada A3, che da Zagabria corre verso la frontiera orientale dell’Unione Europea, attraversa una pianura che sembra non avere fine.

Le roveri bianche che resero celebre la Slavonia nei tre secoli passati non ci sono quasi più, vittime di una gestione dissennata dei tagli delle risorse boschive.

Mai come in questo periodo, nel nuovo millennio, Zagabria e Belgrado sono distanti tra loro, nonostante le due città sorgano paradossalmente lungo le sponde dello stesso fiume.

La Sava è una sorta di cordone ombelicale che unisce tre differenti paesi slavi e che ha fatto da confine tra la dominazione ottomana e quella austriaca.

Un legame che Zagabria reciderebbe volentieri per avvicinarsi alla Mitteleuropa germanofona e rigorista, mentre Belgrado, che ha conosciuto in tempi recenti la devastazione delle bombe della Nato, continua a guardare sempre più ad Oriente ed alla Russia.

Nella direzione di un taglio netto con le radici degli slavi del sud guardava il lavoro dell’Istituto di Lingua e Linguistica Croata, nato nel 1991 per realizzare la separazione linguistica tra croato e serbo-croato.

Vennero coniati dei neologismi, introdotti nuovi vocaboli con il risultato di ridurre la mutua intellegibilità tra serbo e croato.

Nelle varie facoltà di lingue in molti paesi del mondo, se si fa eccezione per le sole università croate, non esistono cattedre di croato, e nemmeno di serbo.

Per i linguisti le torsioni nazionaliste restano lontane, e la lingua serbo-croata è sopravvista alla dissoluzione della ex Jugoslavia, nonostante i tentativi del governo di Zagabria di procedere nel senso opposto, creando una neolingua che è oggi un elemento portante dell’identità nazionale.

Quella croata è un’identità nazionale di recente creazione.

Nella Jugoslavia socialista del dopoguerra, un croato difficilmente si sarebbe definito tale, dato che per secoli tra i croati è stata prevalente l’identità territoriale rispetto a quella nazionale.

Sarebbe stato facile incontrare persone che si sarebbero definite dalmate, oppure istriane, oppure ancora zagabresi ma la piccola patria di Tudjman aveva bisogno di una nuova narrazione capace di alimentare lo spirito nazionalista in chiave indipendentista.

Alla frontiera tra Croazia e Serbia, in entrata verso i confini dell’Unione Europea, incontriamo una fila chilometrica di auto con targa tedesca, con a bordo le famiglie turche che rientrano in Germania dopo le ferie estive nel paese di origine.

Fruska Gora – Foto di Paolo Pantaleoni

L’Unione Europea non si limita a finanziare il controllo delle frontiere sul versante croato, ma finanzia abbondantemente il governo serbo, affinché vigili sulla rotta balcanica dove chi fugge dai conflitti dal Medio Oriente, o dall’Asia Centrale, incontra la violenza e la brutalità di poliziotti e volontari serbi, bulgari, croati ed ungheresi (a seconda della tratta percorsa), in cui soprusi e vessazioni appesantiscono ulteriormente il bagaglio di sofferenza di chi cerca un futuro migliore.

La violenza di una classe politica, che in Italia disquisisce tra profughi veri e non veri, e tra rifugiati e migranti economici, è solo una vessazione ulteriore che irride la dignità umana.

Oltre la frontiera della UE, si apre la piana dello Srem dove la retorica nazionalista di Milosevic diede accoglienza ai serbi in fuga dalle Kraijne.

Era l’agosto del 1995, la guerra in Bosnia stava volgendo al termine (sarebbe terminata entro tre mesi), e per fare coincidere la realtà sul campo con quanto sarebbe stato sottoscritto nel testo finale dell’accordo di pace a Dayton (che deve il nome ad un’anonima base militare statunitense dell’Ohio), quei mesi finali furono caratterizzati da episodi di violenza inaudita per creare aree etnicamente omogenee prima del cessate il fuoco definitivo.

Serbi e croati lanciarono offensive violente per prendere il controllo di territori che sapevano non avrebbero dovuto cedere nel processo negoziale.

Fu quello il periodo in cui massacri e pulizia etnica ebbero un’impennata drammatica e qualche settimana prima, nell’indifferenza della comunità internazionale, a Srebrenica era avvenuto un genocidio.

Quello che Milosevic chiamava “il popolo celeste” era un ammasso infinto di contadini in fuga; persone semplici e con pochi soldi al seguito, che formavano colonne sterminate di trattori e mezzi di fortuna, in fuga dalla pulizia etnica croata e bosniaca dell’Operacjia Oluja (Operazione Tempesta).

Per quelle persone, che sui rimorchi dei trattori avevano tutti i loro beni, il governo di Milosevic allestì delle tendopoli improvvisate, immerse nel freddo e nel fango della piana dello Srem, in cui una massa di disperati si offriva per pochi dinari ai proprietari terrieri serbi per i lavori agricoli, in condizioni di sfruttamento e vessazione.

Quelle tendopoli della piana dello Srem, a metà anni ’90, anticiparono la vergogna dei ghetti del bracciantato agricolo nel sud Italia ed in Andalusia.

Oltrepassata la piana dello Srem il nostro percorso devia a nord verso le foreste di tiglio ed i monasteri ortodossi del Fruska Gora, oggi patrimonio Unesco, diventati in tempi recenti il luogo dell’identità ultranazionalista serba.

Con il collasso dell’ex Jugoslavia molti serbi, rimasti orfani dell’identità collettiva data da un partito che era anche riferimento totemico ed elemento di identificazione collettiva, hanno spostato lo spazio e la dimensione della propria identità dal partito alla religione, nello specifico quella largamente maggioritaria tra i popoli slavi.

Come per il festival degli ottoni a Gucka, anche il Fruska Gora è ostaggio della peggior propaganda nazionalista, e capita, la domenica mattina, di incontrare a messa persone in divisa da cetnico, o di venire salutati con il saluto cetnico fatto con pollice, indice e medio della mano destra a mimare un tre e con le restanti dita piegate.

Il gesto simboleggia le tre C (che diventano tre S nella translitterazione latina) che fanno da acronimo a Sloga Srbina Spasava (traducibile con l’Unità Salva la Serbia).

Ci saluta così un ragazzo sulla trentina, il fisico appesantito, esce da un minimarket non lontano da uno dei monasteri patrimonio Unesco, ci fornisce informazioni stradali e, nel congedarsi, ci saluta con le tre dita della mano su cui ha tatuata la data del 1389.

Per la retorica nazionalista serba la battaglia di Kosovo Polje (la piana dei merli) è una colpa collettiva da cui occorre redenzione.

Non a caso il criminale Mladic chiamava i musulmani bosniaci “i turchi”, e la memoria del genocidio di Srebrenica da parte serba semplicemente non esiste, ed il negazionismo di un crimine spaventoso coincide con il racconto della rivincita dei serbi sui turchi, 610 anni dopo Kosovo Polije.

Nel giugno del 1389 i serbi guidati da Lazar Hrebeljanovic provarono a fermare l’avanzata ottomana nei Balcani (Sofia era caduta in mano turca cinque anni prima) venendo sconfitti, ma riuscendo comunque ad uccidere il sultano Murad I grazie al gesto eroico del cavaliere Milos Obilic.

Il nazionalismo ultraconservatore serbo si autoalimenta anche con figure storicamente più recenti.

Le foto ed i gadget di Draza Mihajlovic campeggiano in tutti i monasteri, quando venni la prima volta una decina di anni fa, Mihajlović era ancora bandito dalla memoria collettiva serba, condannato a morte e fucilato nel 1946 per alto tradimento e collaborazione con il nemico.

Monastero di Šišatovac – © Foto di Paolo Pantaleoni

Nel Maggio del 2015 la Corte Suprema Serba lo ha pienamente riabilitato, per compiacere la chiesa ortodossa e la galassia nazionalista che sosteneva l’allora presidente Nikolic e che oggi sostiene in larga parte l’attuale presidente Aleksandar Vucic.

L’Esercito Jugoslavo in Patria di Mihajlovic si costituì nel 1941, dopo il collasso del regio esercito Jugoslavo successivo all’invasione tedesca.

Costituito su base etnica, e su valori conservatori, riunì gli ufficiali e le truppe serbe fedeli al re Pietro II.

Il disegno iniziale dei cetnici di Mihajlovic era quello di costituire una resistenza nazionalista all’invasione nazifascista, per arrivare alla costituzione di un Regno di Serbia sulle ceneri del Regno di Jugoslavia.

Inizialmente sostenuti dagli alleati con lanci di armi e viveri, le truppe di Mihajlovic trovarono rapidamente un accordo con italiani e tedeschi, pur non dichiarandosi mai alleati degli invasori, e dirottarono i loro sforzi nella guerra antipartigiana, in chiave anticomunista, e contro i nazionalisti croati per fare della Serbia una nazione etnicamente omogenea.

Formalmente non belligeranti con Italiani e Tedeschi, più volte (come nella battaglia della Neretva) i cetnici di Mihajlovic combatterono a fianco di fascisti, nazisti ed ustasha croati contro le formazioni partigiane del Maresciallo Tito.

Aiutati informalmente dai servizi segreti italiani (che temevano rivendicazioni nazionaliste da parte degli alleati croati su Istria e Dalmazia), i cetnici combatterono una guerra parallela contro gli ultranazionalisti croati, i quali, istituito stato fantoccio con a guida Ante Pavelic, si adoperarono per eliminare dal territorio sotto il proprio controllo le popolazioni non croate e non cattoliche a partire da serbi ed ebrei.

Quelle che nacquero nel Fruska Gora come fortezze della fede ai tempi della dominazione Ottomana, per preservare l’identità religiosa ed i tesori dell’arte sacra ortodossa, furono edificate tra il XV ed il XVII secolo.

Le bombe della Nato del 1999 fecero ciò che gli Ottomani nemmeno tentarono, danneggiando diversi monasteri con i bombardamenti diffusi su tutto il paese. (Fine prima parte)

LEGGI QUI LA SECONDA PARTE

 

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*Paolo Pantaleoni, nato e cresciuto a Rimini. Di formazione umanistica, ha studiato presso l’Università di Bologna, abbandonando con successo gli studi in Scienze Politiche a favore di quelli in Storia. Militante sociale, per un decennio si è occupato di cooperazione decentrata in Palestina. Appassionato di cucina, per lavoro si occupa di sicurezza nei luoghi di lavoro ed igiene degli alimenti in una società di ristorazione. Nel tempo libero si divide tra il guardare il mondo con curiosità e lentezza e praticare le proprie passioni. Viaggiatore, camminatore, escursionista ed apicoltore ha una venerazione per la pesca con la mosca artificiale.