di Valeria Cagnazzo –

Pagine Esteri, 8 marzo 2023 – Almeno un migliaio di studentesse di 52 scuole iraniane hanno presentato, da novembre a oggi, sintomi da avvelenamento, in particolare da esposizione a gas tossici. Difficoltà respiratoria, vertigini, nausea, cefalea, i problemi più comunemente riportati. Alcuni media parlano addirittura di 5.000 ragazze avvelenate in oltre 230 scuole. Una ragazza sarebbe persino morta nella città di Qom. Alcune studentesse hanno riferito ai media di aver sentito odore di mandarini, cloro o detergenti prima di accusare la sintomatologia, altre hanno parlato di odore di frutta o uova marce. Il mistero degli avvelenamenti delle ragazze è arrivato a interessare ormai almeno 21 province in Iran, e il 6 marzo scorso anche il leader supremo, l’ayatollah Ali Khamenei, ha dovuto pronunciarsi pubblicamente sul fenomeno, definendolo un “crimine imperdonabile”.

I casi di avvelenamento, negli ultimi quattro mesi, si sono, infatti, progressivamente accumulati, fino a costringere le autorità a riconoscerne la gravità e la natura evidentemente non casuale. Un membro della commissione parlamentare per la salute, il dottor Homayoun Sameyah Najafabadi, è stato tra i primi, nel mese di febbraio, ad ammettere che l’avvelenamento delle studentesse “in città come Qom e Borujerd” fosse stato commesso “intenzionalmente”.

Il 27 febbraio scorso, sul Guardian è stata riportata la versione, in anonimato, di un medico iraniano impegnato nel trattamento di alcuni dei casi di avvelenamento, secondo il quale il più verosimile agente causa dei sintomi riportati da tutte le ragazze sarebbe un organofosfato. Un composto chimico, cioè, comunemente utilizzato nella produzione di insetticidi o agenti nervini, capace di agire sull’acetilcolinesterasi, con un effetto altamente neurotossico.

Quando i casi di avvelenamento sono diventati così numerosi da non potere più essere celati, è partita la corsa delle autorità alla ricerca di un responsabile. Secondo il Presidente Ebrahim Raisi si tratterebbe di una cospirazione da parte dei “nemici” del governo per generare disordine pubblico e paura nella popolazione. Le stesse accuse rivolte da Raisi ai manifestanti che dalla morte di Mahsa Amini nel settembre scorso protestano nelle strade chiedendo il rispetto dei diritti umani, in particolare dei diritti delle donne, e le dimissioni del governo: agitatori, secondo il Presidente, e  nemici, capaci di avvelenare centinaia di ragazze per alimentare il caos. “La nuova cospirazione del nemico per creare paura nel cuore degli studenti, dei nostri cari ragazzi e dei loro genitori”, ha, infatti, dichiarato Raisi il 6 marzo a proposito dell’inchiesta sugli avvelenamenti, “è un crimine e un atto disumano”.

Dell’inchiesta è stato incaricato il ministro dell’interno Ahmad Vahidi, che ha, però, esortato la popolazione a mantenere la calma. Più che sugli avvelenamenti anche le sue parole si sono concentrate sulla paura: ha invitato, infatti, a difendersi dal “terrorismo mediatico del nemico” e ha addirittura dichiarato che “oltre il 90% degli avvelenamenti non sono causati da fattori esterni ma per la maggior parte dallo stress e dalla preoccupazione causati dalle notizie”. A fargli eco è stato il capo della protezione civile iraniana, il generale di brigata Gholamreza Jalali, dichiarando: “Non sto dicendo che i casi di avvelenamento non siano reali, ma instillare la paura nell’opinione pubblica può aumentare notevolmente il numero delle vittime”.

Solo un giorno dopo le dichiarazioni pubbliche del leader supremo sugli avvelenamenti delle ragazze, il 7 marzo il viceministro dell’interno Majid Mirahmadi ha annunciato l’arresto dei primi responsabili. “Un certo numero di persone è stato arrestato in cinque province e le agenzie competenti stanno conducendo un’indagine completa”, ha dichiarato, senza, tuttavia, rivelare la matrice degli attentati.

Sui veri responsabili, le ipotesi dell’opposizione, dell’opinione pubblica internazionale e non solo, sono sempre state ben lontane da quelle di Raisi e dei suoi investigatori. Aveva fatto discutere la dichiarazione di un uomo del governo, il viceministro alla salute Younes Panahi, che aveva insinuato una responsabilità dei gruppi di estremismo religioso negli avvelenamenti diffusi a macchia d’olio nel Paese. “È diventato evidente che alcune persone vogliono che tutte le scuole, in particolare le scuole femminili, vengano chiuse”, aveva dichiarato. Gli avvelenamenti, secondo questa tesi, sarebbero quindi un diretto attacco al diritto all’istruzione femminile.

L’idea più diffusa rimane, però, quella che gli avvelenamenti delle studentesse non siano altro che la vendetta del regime nei confronti delle donne, in prima linea in questi mesi nelle proteste contro il governo. La rivolta contro l’hijab, le campagne social in cui, scoprendosi o tagliandosi i capelli, le ragazze avevano attirato l’attenzione internazionale sulla repressione dei diritti delle donne in Iran, gli attacchi al governo e all’ayatollah: secondo molti attivisti e analisti, il regime da quattro mesi avrebbe deciso di soffocare letteralmente il dissenso non più con scontri di piazza, ma con avvelenamenti disseminati nelle scuole femminili del Paese. Una morsa letale, che prenderebbe ancora una volta in ostaggio i corpi delle donne, e lo farebbe tra i banchi scolastici.