di Giovanna Cavallo

A Sweida, da due giorni si combatte. Milizie druse locali e clan beduini sunniti si affrontano in scontri armati che stanno riscrivendo gli equilibri della regione. Il tutto è iniziato con il rapimento e l’aggressione di un giovane druso da parte di membri di una tribù beduina, presso un checkpoint illegale sulla strada Damasco–Sweida. Da lì, come scintille su paglia secca, le rappresaglie si sono moltiplicate, lasciando dietro di sé almeno 37 morti e quasi 100 feriti, molti dei quali civili.

Ma ciò che allarma non è solo il bilancio umano. Le immagini diffuse da attivisti e testimoni parlano chiaro: tra gli aggressori vi sarebbero elementi stranieri, simboli riconducibili a Daesh (ISIS), e milizie arrivate da Deir ez-Zor, una regione sotto controllo governativo. In un video diffuso online, un anziano viene trascinato da uomini armati, uno dei quali indossa un’uniforme con un emblema jihadista.

La faglia invisibile della transizione

L’escalation non può essere letta semplicemente come una disputa locale. Si inserisce in un quadro più ampio e fragile, figlio di un processo transitorio ancora incerto e incompiuto. Dopo la caduta del presidente Bashar al-Assad lo scorso dicembre, la Siria è entrata in una nuova fase, accompagnata da grandi speranze ma anche da profonde vulnerabilità.

Nel Sud, la fragilità istituzionale ha lasciato spazio a iniziative locali di sicurezza, spesso nate per proteggere la popolazione ma ora esposte a strumentalizzazioni e infiltrazioni. In assenza di una cornice statale chiara e condivisa, anche le azioni più legittime rischiano di trasformarsi in mine vaganti. Il Ministero dell’Interno ha parlato di un “pericoloso inasprimento causato dall’assenza delle istituzioni competenti”. Una frase che, letta tra le righe, riflette l’incertezza del momento: la mancanza di un’autorità riconosciuta e operativa apre spazi ambigui, dove le tensioni settarie e le milizie armate trovano terreno fertile.

Resistenza, non secessione

Le forze locali druse non hanno mai rivendicato la secessione. Al contrario, le realtà armate come gli Uomini della Dignità si sono sempre presentate come forze di autodifesa, impegnate nella protezione della comunità ma non in opposizione allo Stato. Tuttavia, la debolezza del centro e la percezione di abbandono hanno spinto molte aree a organizzarsi autonomamente.

Oggi, in risposta agli attacchi, è stata dichiarata la mobilitazione generale. Con il sostegno del Syrian Military Council, alcuni villaggi sono stati riconquistati. Ma i combattimenti proseguono, e lo spettro della frammentazione torna a incombere sulla Siria.

Il ritorno dell’ombra jihadista

Sweida, a maggioranza drusa, è diventata un bersaglio vulnerabile. Il vuoto lasciato dalla transizione e la mancata inclusione di tutte le comunità nel nuovo assetto nazionale hanno riattivato linee di frattura settarie. Alcuni testimoni parlano di una crescente retorica mediatica ostile nei confronti della comunità drusa, una narrazione che — se non frenata — potrebbe gettare benzina su un incendio già fuori controllo. Le Forze Democratiche Siriane (SDF) hanno condannato gli attacchi sistematici alla provincia, chiedendo un’iniziativa politica unitaria e inclusiva. Ma sul campo, il tempo della diplomazia sembra cedere il passo a quello della resistenza. “Difendere la nostra terra con ogni mezzo legittimo”, in un comunicato diffuso oggi, la presidenza spirituale drusa ha chiesto una protezione internazionale urgente, denunciando l’utilizzo di droni e armi pesanti contro i villaggi della provincia. Senza attribuire accuse dirette, ha però condannato chiunque permetta l’ingresso armato nei territori drusi, definendolo “un atto irresponsabile in un momento in cui la Siria avrebbe bisogno di unità e riconciliazione”. “Con l’aiuto di Dio, non esiteremo a difendere la nostra terra con tutti i mezzi legittimi.”

Il grido che il mondo non ascolta

Oggi, Sweida è un campanello d’allarme. Non è un caso isolato, ma un sintomo profondo di un Paese ancora diviso, ancora fragile, ancora in bilico. La mancata ricostruzione politica rischia di rendere permanente una frammentazione fatta di paura, settarismo e militarizzazione diffusa. Di nuovo sui social irrompano di nuovo foto dei martiri, amici familiari, vittime che la comunità piange. I civili pagano il prezzo più alto mentre le capitali occidentali restano concentrate altrove, e l’ONU, pur ricevendo rapporti, non ha ancora preso posizione. Ogni giorno che passa senza una reazione internazionale, la Siria affonda un po’ di più nell’oblio e nell’abbandono. “Nelle guerre civili non ci sono vincitori. Il sangue dei siriani non può più tingere la terra siriana”.  Un appello che rimbalza tra le rovine. Un monito che potrebbe essere l’ultimo prima del baratro. Pagine Esteri