di Romana Rubeo*
Pagine Esteri, 19 aprile 2021 – Venerdì 9 aprile era la data fissata dalla Corte Penale Internazionale (CPI) per ricevere una risposta da Israele in merito alla possibile indagine su crimini di guerra perpetrati nei territori palestinesi occupati. Dopo la notifica ufficiale, inviata agli inizi di marzo, Tel Aviv aveva, infatti, un mese di tempo per informare la Corte di eventuali procedimenti “sui propri cittadini relativamente ai crimini indicati dall’articolo 5 dello Statuto di Roma”, e chiedere una eventuale sospensione dell’indagine.
In questi trenta giorni, il dibattito in Israele è stato piuttosto serrato. Alcuni analisti spingevano affinché Tel Aviv dismettesse la sua condotta intransigente e illustrasse alla Corte la disponibilità a collaborare e a fornire le basi per una eventuale sospensione. Altri, invece, si facevano portatori di quella che, da sempre, sembra essere la linea israeliana: non riconoscere la giurisdizione della Corte e chiudersi a ogni forma di collaborazione.
Dopo una serie di riunioni tra ministri e alti funzionari governativi che non hanno dato un esito certo, nella giornata di giovedì il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha comunicato, a ridosso del termine ultimo previsto, che Israele non ha intenzione di riconoscere l’autorità del Tribunale dell’Aia e che “respinge totalmente” l’accusa di aver commesso crimini di guerra. Netanyahu ha aggiunto che la CPI “non ha il potere di avviare un’indagine contro Israele”, facendo riferimento alla mancata adesione di Tel Aviv allo Statuto di Roma, istitutivo della Corte. Una linea, questa, che non costituisce affatto uno strappo rispetto alla condotta tenuta sin dal primo annuncio della possibile apertura di un’inchiesta.
L’indagine
Il 20 dicembre del 2019, la procuratrice capo della CPI, Fatou Bensouda, dichiara in una nota ufficiale che vi sono elementi sufficienti per affermare che “siano stati commessi o siano tuttora commessi crimini di guerra in West Bank, Gerusalemme Est e Striscia di Gaza”.
Al paragrafo 94 della nota della CPI – che non persegue gli Stati, bensì i singoli individui – si fa riferimento a crimini di guerra presumibilmente commessi da membri dell’esercito israeliano o da membri dei gruppi armati di Hamas.
Le reazioni, però, sono molto diverse. Hamas, il movimento di resistenza islamico che governa la Striscia di Gaza dal 2006, si dice subito pronto a collaborare con la Corte. Anche l’Autorità Nazionale Palestinese ribadisce questa intenzione, a più riprese, anche esprimendo la volontà di “accelerare” il procedimento. Israele, al contrario, avvia, sin dalle prime ore, un’intensa attività tesa a fermare l’indagine, sia sul fronte giuridico sia su quello diplomatico.
Da un punto di vista giuridico, la questione dirimente sembra essere quella della giurisdizione della Corte. Può la Palestina essere considerata uno Stato? La CPI ha la giurisdizione territoriale indispensabile per indagare, sulla base dell’articolo 12(2)(a) dello Statuto di Roma?
Sebbene la Palestina avesse già aderito allo Statuto di Roma nel gennaio del 2015 e avesse, dunque, accettato la competenza della Corte, è su questi interrogativi che fanno leva le obiezioni tese a fermare l’indagine e le pressioni esercitate sul Tribunale dell’Aia, in modo più o meno diretto, da parte di Tel Aviv.
Le pressioni sulla Corte
Come previsto dall’articolo 15 dello Statuto di Roma, quando vi sono elementi sufficienti per procedere con un’indagine, alla Corte vengono presentate le relazioni e le osservazioni di Stati, organi delle Nazioni Unite, organizzazioni intergovernative e non governative, e degli amici curiae, i quali, non avendo in linea teorica alcun interesse diretto, esprimono un suggerimento o un punto di vista.
Questa fase è stata usata da Israele per esercitare un’intensa attività di lobbying, tesa a fermare il procedimento sul nascere con il pretesto della mancata giurisdizione. Nel febbraio scorso, ad esempio, la Germania ha chiesto e ottenuto lo status di amicus curiae e ha presentato alla Corte una relazione che ricalcava apertamente la visione di Tel Aviv. Nella nota fatta recapitare all’Aia da Berlino si afferma che la giurisdizione della Corte “non si estende ai territori palestinesi occupati. L’articolo 12 dello Statuto di Roma presuppone che vi sia uno ‘stato’ (che) la Palestina non possiede e non ha mai posseduto.”
Il caso della Germania appare eclatante perché, come fatto strumentalmente notare anche nella relazione, si tratta di un Paese “fermo sostenitore della Corte”, ovvero, di uno dei suoi principali finanziatori. Tuttavia, il governo tedesco non è il solo ad agire in tal senso: lo stesso faranno anche Austria, Repubblica Ceca, Brasile, Uganda, Australia e Ungheria. La natura politica e non giuridica di queste osservazioni si può rilevare dalla semplice constatazione che, in passato, alcuni tra questi Paesi avevano già riconosciuto la Palestina come uno stato secondo il diritto internazionale.
Il 30 aprile scorso, dopo aver analizzato i rapporti e le osservazioni di organizzazioni, amici curiae, rappresentanti legali delle vittime e Stati, in una nota della procuratrice Bensouda, la Corte ribadisce che vi sono elementi sufficienti per avviare l’indagine. Chiede, tuttavia, alla Camera Preliminare di esprimersi in merito alla questione della giurisdizione.
Le pressioni non si fermano. Nel giugno scorso, il governo degli Stati Uniti impone sanzioni alla procuratrice capo Bensouda e a un altro ufficiale, Phakiso Mochochoko. L’allora Segretario di Stato Mike Pompeo annuncia anche che gli Stati Uniti procederanno a una restrizione relativa ai visti per alcuni individui “coinvolti nel tentativo della CPI di indagare su funzionari statunitensi”.
Ufficialmente, infatti, la ragione delle sanzioni risiede nell’indagine condotta sui crimini di guerra commessi in Afghanistan, ma gli Stati Uniti non fanno mai mistero del fatto che sia anche un tentativo di colpire l’altra inchiesta, quella sui territori palestinesi occupati. Il 12 giugno, infatti, Pompeo dichiara: “Siamo anche molto preoccupati dalla minaccia posta dalla Corte nei confronti di Israele. È ovvio che la CPI abbia preso di mira Israele per ragioni di natura esclusivamente politica”.
Per quanto l’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti della Corte non fosse mai stato particolarmente collaborativo – ricordiamo infatti che neanche Washington ha mai aderito allo Statuto di Roma – le sanzioni costituivano un precedente allarmante. L’amministrazione di Joe Biden ha di recente deciso di rimuoverle, pur ribadendo la sua ferma opposizione a un’indagine che possa colpire potenziali criminali di guerra israeliani.
Il 5 febbraio scorso, comunque, è arrivata la tanto attesa dichiarazione della Camera Preliminare che ha deciso, a maggioranza, che “la giurisdizione territoriale della situazione in Palestina, stato membro dello Statuto di Roma, si estende ai territori occupati da Israele dal 1967, ovvero Gaza e la West Bank, ivi inclusa Gerusalemme Est”.
La furia di Tel Aviv
La nota della Corte Preliminare, nel mettere teoricamente la parola “fine” alla questione relativa alla giurisdizione, fa tirare un sospiro di sollievo a quanti temevano la possibilità di un’ulteriore frammentazione dell’elemento territoriale palestinese, applicando la giurisdizione della Corte a tutti i territori occupati. Al contempo, però, manda su tutte le furie Israele.
Netanyahu afferma che la decisione è frutto di “puro antisemitismo”. “La Corte, che è stata istituita per prevenire atrocità come l’Olocausto nazista contro il popolo ebraico, adesso prende di mira l’unico e solo Stato del popolo ebraico”, dichiara in un video diffuso sui suoi canali social.
Gabi Ashkenazi, Ministro degli Esteri israeliano, la descrive come un “fallimento morale e legale” e invoca una reazione forte e decisa in una serie di tweet pubblicati il 3 marzo. Tra le figure più critiche vi è anche l’attuale Ministro della Difesa Benny Gantz che ha rivestito il ruolo di Capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano dal 2011 al 2015, quindi anche durante la sanguinosa operazione contro Gaza del 2014, inserita tra i possibili oggetti dell’indagine.
È proprio Gantz a fare esplicito riferimento a “gruppi di lavoro operativi in più (sedi) che stanno tentando di influenzare la CPI”. Quando la Reuters gli chiede quanti israeliani potrebbero essere eventualmente coinvolti in un’indagine, Gantz risponde “diverse centinaia” e non dismette i toni militari, sostenendo che “non ha mai avuto paura di attraversare le linee nemiche”. Il Ministro della Difesa continua, scendendo nel dettaglio e sostenendo che Tel Aviv fornirà assistenza anche sulla possibilità, per le persone eventualmente indagate, di viaggiare all’estero. Il timore evidente, infatti, è quello che potrebbero essere diramati mandati di cattura internazionali contro cittadini israeliani.
Dalle dichiarazioni, si evince che Israele sta agendo su più fronti: da un lato, la furia, lo sdegno e la chiusura a qualsiasi forma di cooperazione; dall’altro, una strategia tesa ad agire dietro le quinte per proseguire nel tentativo di esercitare pressioni sull’Aia, sulla procuratrice uscente e, possibilmente, sul nuovo procuratore Karim Khan, che succederà ufficialmente a Bensouda il 15 giugno prossimo.
Una strategia, questa, abbracciata anche dal Presidente israeliano, Reuven Rivlin, che agli inizi di marzo ha visitato vari Paesi europei chiedendo agli “amici (di Israele) di contrastare gli abusi della Corte dell’Aia contro i nostri soldati e cittadini”.
D’altra parte, già nel giugno scorso, Israele aveva individuato 200-300 alti funzionari, ufficiali militari e dei servizi segreti, che potevano essere possibili obiettivi dell’indagine; nella lista, figurano nomi noti e altisonanti, tra cui proprio quelli di Gantz e Netanyahu.
L’ambito dell’indagine
Il prossimo passo della Corte Penale Internazionale dovrebbe essere l’individuazione dei possibili criminali di guerra e la costituzione dei casi. Il dottor Triestino Mariniello, esperto di diritto internazionale e membro del team legale che rappresenta le vittime di Gaza, ci spiega che ora “la procuratrice dovrebbe chiedere alla Camera Preliminare di emanare mandati di arresto o di comparizione almeno relativamente ai crimini inseriti finora nell’indagine”.
Al momento, questi crimini sono incentrati su tre filoni principali.
In primis, la guerra contro Gaza del 2014, definita da Israele “Operazione Margine Protettivo” che, come ricorda il giornalista palestinese Ramzy Baroud, “ha ucciso oltre 2.200 palestinesi – in massima parte civili – e 71 israeliani, in massima parte militari”, distruggendo completamente “17.000 abitazioni e altri edifici, tra cui ospedali, scuole e fabbriche”.
Il secondo filone riguarda le azioni dei militari israeliani contro i civili inermi palestinesi durante la cosiddetta Grande Marcia del Ritorno, imponente mobilitazione popolare avviata nel marzo del 2018 (e sospesa circa due anni dopo) per porre all’attenzione della comunità internazionale i temi del diritto al ritorno – sancito dal diritto internazionale ma mai concesso alla popolazione palestinese – e del blocco che attanaglia Gaza da ormai 15 anni. In quell’occasione, centinaia di civili palestinesi sono stati uccisi dai cecchini disposti lungo la linea di demarcazione che separa la Striscia da Israele, e migliaia sono stati feriti, alcuni in modo irreversibile.
Ancora più complesso dal punto di vista giuridico risulta essere il terzo filone dell’inchiesta, quello relativo agli insediamenti coloniali. In effetti, se nei primi due casi Israele potrebbe dimostrare di aver avviato dei procedimenti interni contro presunti criminali di guerra, non potrebbe far valere la stessa giustificazione sul crimine relativo alla costruzione degli insediamenti che, come sostiene anche l’esperto di diritto internazionale Nick Kaufman sulle pagine di Haaretz, “è in atto ormai da molti anni e non è definita come reato nella legislazione israeliana”.
L’ambito dell’indagine sui territori palestinesi occupati potrebbe, in realtà, essere più esteso. Secondo l’articolo 5 dello Statuto di Roma, che definisce la competenza della Corte, questa può indagare sui seguenti crimini: di genocidio, contro l’umanità, di guerra, di aggressione.
Nel procedimento avviato, si fa, di fatto, riferimento solo alla fattispecie dei crimini di guerra, mentre, come sottolinea il dottor Mariniello, “non si menzionano i ‘crimini contro l’umanità’ che sono invece ampiamente documentati, come sostenuto dalle vittime. Non si fa riferimento agli attacchi sistematici posti in essere dalle autorità israeliane contro la popolazione civile nella West Bank, a Gerusalemme Est e Gaza, né tantomeno al Blocco sulla Striscia”.
Questa situazione, tuttavia, potrebbe cambiare. “La definizione dell’ambito dell’indagine”, prosegue infatti il dottor Mariniello, “non è vincolante. La procuratrice può decidere, in qualsiasi momento, di includere altri crimini”.
In cerca di giustizia
Per comprendere il significato fattuale e simbolico che questa indagine potrebbe rivestire, è sufficiente limitarsi a osservare le reazioni delle due parti, non solo in quelle, già analizzate, delle classi dirigenti, ma anche, più in generale, tra la popolazione e la società civile.
Molti israeliani percepiscono l’indagine come frutto di un pregiudizio su basi politiche; al contrario, i palestinesi non hanno mai celato l’entusiasmo nei confronti di un procedimento che, pur negli inevitabili limiti e ritardi, rappresenta sicuramente una pietra miliare.
“Questa decisione,” commenta Raji Sourani, Direttore Generale del Palestinian Centre for Human Rights, “sta a significare che la comunità internazionale non accetterà più che i civili di Gaza possano essere soggiogati da Israele, e rifiuterà il blocco disumano e le brutali operazioni militari”. La speranza, prosegue Sourani, è che si possa “porre fine all’impunità per i gravi crimini che minacciano pace e sicurezza”.
Se, come spiega il professor Richard Falk, ex Inviato dell’Onu sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi, la lotta di liberazione di un popolo non passa solo dalla forza delle armi, ma anche da tutto l’apparato concettuale e simbolico che si riesce a mettere in campo, le speranze dei palestinesi sono sicuramente comprensibili e l’attenzione sulle vicende della Corte dovrebbe riguardare tutti coloro che, in varie vesti, si ergono a paladini dei diritti umani.
*Romana Rubeo è una giornalista italiana, caporedattrice del The Palestine Chronicle
L’articolo è stato pubblicato il 15 aprile 2021 dal sito centroriformastato.it