della redazione –

Pagine Esteri, 25 maggio 2012 – Il nostro viaggio attraverso la cooperazione internazionale comincia mentre in Palestina, a Gaza, si è consumata l’ennesima tragedia e dalla comunità internazionale arrivano solo parole, salvo lodevoli eccezioni.

Un momento davvero difficile, ma anche una ragione in più per interrogarsi sulla cooperazione internazionale, considerato che l’impatto con la pandemia da COVID aveva violentemente rimesso sul tavolo almeno due temi fondamentali, alla cui declinazione la cooperazione internazionale è vocata. Quello della solidarietà di fronte alla emergenza globale e il drammatico divario tra Paesi ricchi e Paesi poveri, del quale il conflitto sui vaccini è solo l’ultimo chiarissimo termometro.

Certo, non è una operazione facile, indagare un argomento al quale sono stati dedicati centinaia e centinaia di libri, saggi, studi, articoli, film, documentari e inchieste giornalistiche, inevitabilmente accompagnati da fiumi di polemiche. Ma per noi è quasi obbligatorio, considerato che proprio il Medio Oriente, l’Africa e il Mediterraneo sono le aree del Mondo nelle quali la cooperazione internazionale è presente con intensità e continuità non paragonabili a nessun’altra area del pianeta.

Per  tentare di sfuggire alla trappola nella quale sono caduti in tanti,  risucchiati dai poli opposti di un approccio iper tecnicistico, incomprensibile ai più, o rassegnato ad una narrazione elegiaca, degna dei migliori romanzi di avventura, abbiamo iniziato a seguire il percorso di una esperienza concreta, per valutarne i risultati,  intercettarne le criticità e sollevare questioni che hanno un valore più generale. Non c’era luogo più appropriato, per farlo, della Palestina.

Proprio in questa terra, dal 1948 in poi, si sono infatti susseguiti interventi di  di cooperazione di ogni genere. Tanto da spingere molti a sostenere, che la notevole mole di risorse destinate alla Palestina e ai Palestinesi profughi in altri Paesi, altro non sia che la prova di un inconfessabile scambio tra i diritti fondamentali negati ad un intero popolo e il denaro.

Cominciamo col rilevare che gli interventi pensati come risposta alle distruzioni materiali e al deserto economico e sociale, generati dalle “guerre”, sono di gran lunga quelli prevalenti. Si tratta di progetti  finanziati dai Governi nazionali, direttamente o tramite le diverse Agenzie delle Nazioni Unite e che si sviluppano secondo la classica formula donatori/beneficiari, che legittima  il pieno controllo sul cosa fare e come farlo e sulla implementazione dei progetti (una delle parole magiche nel vocabolario del buon cooperante), da parte di soggetti esterni, se non estranei, al contesto palestinese, con buona pace di quanti invocano il partenariato.

E’questo che accade e accadrà  ancora a Gaza, imprigionata ormai ad una condizione di emergenza permanente. Ma non cambia molto se ci si sposta a Gerusalemme Est o nella West Bank.

Abbiamo scelto tuttavia di raccontare che ci sono anche progetti di cooperazione allo sviluppo che nascono diversamente. Mettendo a frutto il grande patrimonio umano, politico e culturale, che si è accumulato negli anni attorno alla causa palestinese. Un patrimonio custodito in particolare da tante comunità locali e alimentato dall’associazionismo e dalle istituzioni territoriali (sono stati e sono centinaia di interventi promossi da Associazioni e Organizzazioni di della Società Civile, da comitati spontanei, da Comuni e Province italiani, spagnoli, francesi, ecc…).

Capita dunque che anche in Palestina, un progetto di cooperazione internazionale possa seguire un percorso diverso da quello prevalente e che si potrebbe definire partecipato.

Le recenti cronache dall’Italia ci dicono della terribile sequenza di gravi infortuni e di morti sul lavoro, quasi a voler materializzare il rischio di una ripresa post COVID, trainata anche dalla contrazione dei diritti dei lavoratori, primo tra tutti quello alla salute e alla sicurezza. Proprio quello della sicurezza e della qualità nel lavoro, è stato l’argomento che ha favorito una esperienza di cooperazione partecipata, argomento che ha trovato spazio nelle relazioni economico-commeriali tra imprese del settore delle costruzioni e tra comunità e istituzioni locali Italiane e Palestinesi. Discutendo degli incidenti nei cantieri edili è emerso infatti che il bisogno insoddisfatto di garantire la sicurezza sul lavoro fosse avvertito ormai in tutta la Palestina.

Così, dalla condivisione di un bisogno comune, pur in contesti diversi, è iniziato il percorso di un progetto di cooperazione allo sviluppo che ha già portato alla istituzione, a Ramallah, del Trainig Safety Center. ll primo centro che in Palestina si dedica alla formazione professionale per la sicurezza e la qualità del lavoro nel settore delle costruzioni. Anche se non è frequente, succede come in questo caso, che da un bisogno concreto, nasca la volontà di scambiarsi esperienze, la scelta di elaborare insieme un progetto, la determinazione di un Comune italiano, quello di Gubbio, di farsene promotore e la decisione della Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo ( AICS, istituita nel 2014 ) di ammetterlo a finanziamento.

La pandemia lo ha rallentato, ma il progetto, Safebuilder (safebuider.org), è andato avanti, il centro di formazione di Ramallah ha integrato la didattica con la prevenzione da COVID nei cantieri. Sono più di sessanta gli ingegneri-capi cantiere che hanno frequentato i corsi, superato i test e ottenuto la qualifica  di responsabile per la sicurezza. Sono sette gli ingegneri palestinesi abilitati ad insegnare, secondo gli standard europei, in lingua araba e con materiale didattico in arabo. Qualche effetto, almeno visivo, si registra nei cantieri edili, dove aumenta il numero di addetti che utilizzano il casco giallo di protezione e altri dispositivi arancioni e azzurri di sicurezza individuale. Le relazioni tra la città di Gubbio  e la Palestina si sono rafforzate.

Tuttavia, i buoni risultati dicono solo una parte. Le frequentazioni, le interazioni, il confronto – a volte aspro – tra partner e le correzioni in corso d’opera, fanno la differenza, pur non trovando spazio nei report di routine. È l’esperienza quotidiana che fa il partenariato, anche quando produce la sensazione, quasi inevitabile, di inadeguatezza dei mezzi e di esiguità dei tempi. L’anima di questo tipo di progetti si trova negli imprevisti.

Quando, registrando che la formazione agli ingegneri viene considerata molto più importante dei corsi sulla sicurezza rivolta agli operai, si incontra una sperequazione sociale (molto forte più forte di quanto si potesse immaginare) e una debolezza assoluta dei sindacati.

Quando si tocca con mano che i lavoratori dell’edilizia non hanno un contratto e sono invece legati al destino del singolo cantiere e che il loro rapporto con le imprese è a brevissimo termine, quando si percepisce che, per l’impresa, insegnare ad un operaio ad evitare gli incidenti nel suo lavoro o a metterci maggiore più qualità è un investimento senza ritorno, fino a rivelarsi controproducente, perché la manodopera qualificata è tentata di proporsi dall’altra parte del muro, in Israele, dove può ricevere un salario doppio rispetto a quello in Palestina.

Quando trova conferma diretta la previsione degli esperti del centro di formazione italiano, secondo i quali sarebbero stati i ragazzi più giovani, magari con un buon livello di istruzione, ‘’l’osso più duro’’, non volendo perdere tempo con la formazione e affidandosi piuttosto alla loro energia e al destino, incuranti di una cronaca che li vede vittime privilegiate degli incidenti mortali e degli infortuni più gravi.

Quando si scopre tanto lavoro a cottimo e che non basta certo una legge sulla sicurezza, recente e con standard di livello europeo o americano, perché la  mancanza di uno Stato fa la differenza. Il sistema dei controlli, del tutto insufficiente è affidato a quattro enti/istituzioni differenti, non esiste un sistema assicurativo nazionale obbligatorio contro gli infortuni e le statistiche sugli incidenti nei luoghi di lavoro sono molto distanti dalla realtà, perché solo pochi sono quelli che li dichiarano.

Insomma, anche negli imprevisti in corso d’opera un progetto di cooperazione allo sviluppo di questo genere può acquistare un valore aggiunto, perché ai bisogni ai quali intendeva corrispondere, si aggiunge quella dimestichezza con un contesto più complesso, che può risultare utile ad aprire la prospettiva a nuovi interventi e a nuovi partenariati, resi più robusti dall’esperienza.

Da un singolo progetto di cooperazione in Palestina emergono soprattutto tanti elementi che sollecitano una ricerca più approfondita. E’ inevitabile domandarsi quanto l’attuale sistema dei bandi sia in grado di corrispondere al percorso logico della cooperazione allo lo sviluppo ( individuazione del bisogno reale, co-progettazione, valutazione congiunta di congruità dell’intervento, correzioni in corso d’opera,…)  e più in generale quanto le regole e delle procedure in vigore siano “tanto fumo e poco arrosto”.

Discutere di cooperazione è sempre più difficile. Complice la pandemia, cresce l’allergia di una vasta fascia di cittadini; italiani, europei o dei Paesi così detti sviluppati; ad accettare che risorse pubbliche, anche se molto ridotte, vengano allocate oltre i confini nazionali.

Nel solo Parlamento italiano, si moltiplicano mozioni e interrogazioni che chiedono il blocco dei fondi per progetti di cooperazione, anche per quelli in corso da tempo e definiscono  l’impiego di risorse pubbliche per la cooperazione internazionale un atto di tradimento nei confronti dell’Italia o addirittura uno strumento per sostenere indirettamente il terrorismo islamico.

Paradossalmente è invece questo il momento giusto di parlare di cooperazione internazionale, senza temere di doversi misurare con le contraddizioni che la agitano. Di nuovo è indispensabile farlo in Palestina, dove una ragazza – una cooperante – impegnata con la sua associazione ad organizzare gli aiuti umanitari alla gente di Gaza, durante uno dei tanti concitati incontri di questi giorni, si è sfogata “Ora, quando torneremo la dentro e ci diranno che lo stesso Mondo che li ha ignorati mentre venivano bombardati  è già pronto a proporre centinaia di progetti per la ricostruzione, cosa  dovremmo rispondere? Che noi ci occupiamo solo di cooperazione internazionale?”.