di Franco Ferioli – 

Pagine Esteri, 24 giugno 2021 – L’immaginario prodotto dall’ideologia fascista in occasione della Guerra d’Etiopia – conosciuta anche come Campagna d’Etiopia o Seconda Guerra Italo-Abissina – cioè nel momento culminante della storia del colonialismo nazionale, assunse l’aspetto di un mosaico composto da un’irrefrenabile diffusione e composizione di tessere, immagini, discorsi e descrizioni riguardanti l’Africa.

Quando il riferimento al sogno di una “Grande Italia” divenne la principale parola d’ordine della politica estera fascista, l’accelerazione del progetto espansionista voluto da Mussolini mosse a tal punto e in tal misura gli ingranaggi della macchina del consenso da scatenare quello che può considerarsi a tutti gli effetti propagandistici un bombardamento multimediatico.

Negli anni Trenta di Africa si parlò tanto non solo nei giornali, nei cinegiornali e nelle scuole, ma anche in tutti gli altri ambiti di produzione e circolazione di idee e di pensiero: musica, discografia, radio, teatro, muralistica, monete, francobolli, mostre, fotografia, diari e infine, sulla scia del successo dei comics che arrivavano dagli Stati Uniti d’America nei primissimi anni Trenta trovando spazio su un gran numero di riviste italiane nate in quel momento proprio per pubblicarli, nei fumetti.

Al momento della sua nascita, il fumetto specchiava come nessun altro mezzo l’essenza di quel nuovo secolo che svoltava deciso verso i nuovi “tempi moderni” perché attraverso un linguaggio apparentemente semplice di immagini disegnate e poche parole riusciva a veicolare una quantità enorme di messaggi, volontari e involontari, casuali, accidentali e allo stesso tempo fortemente intenzionali.

Il primo personaggio che viene ideato per il Corriere dei Piccoli, alla prima comparsa come supplemento del Corriere della Sera nel dicembre del 1908, è un ragazzino negretto, Bilbolbul, di Attilio Mussino, che prende alla lettera i modi di dire, “facendosi in quattro”, “toccando il cielo con un dito”, diventando “bianco dalla paura” e che si muove in un Africa generica e in un’Africa Nera dell’avventura, della caccia e della povertà.

Da Bilbolbul a Bonaventura, da Pier Lambicchi fino a Romolino e Romoletto e attraverso personaggi che si chiamano Bomba e Zimbo, Tidna Danna, Mingo-Mango o Faccetta Nera, l’antologia dell’Africa e degli Africani nel fumetto italiano del «Corriere dei Piccoli» dal 1908 al 1936 o del «Vittorioso», il giornale che l’Azione Cattolica pubblicò puntando sull’agguerrito personaggio Romano – un Flash Gordon nostrano alla guida di qualsiasi mezzo d’aria, di terra e di mare, tutto dedito all’eroico amor patrio – offre importanti e analoghi riferimenti per la concettualizzazione e la gerarchizzazione razziale delle popolazioni non italiane.

In questo paesaggio i nativi fanno solo le comparse come suppellettili in un arredamento; le popolazioni indigene non hanno storia, né civiltà, né alcun valore viene dato alle scoperte degli esploratori europei: l’elemento determinante, centrale, è il leone da cacciare nella savana o il gorilla da addomesticare nella foresta.

Le caratteristiche e i modi della rappresentazione caricaturale e derisoria dell’”altro” e il mondo altro con cui gli italiani si sono dovuti confrontare tramite il fumetto, appaiono ancor più evidenti se paragonate, ad esempio, alle versioni italiane di comics stranieri come ad esempio Cino&Franco, cioè il Tim Tyler’s Luck di Lyman Young, che apparve nel 1928 sul New York American Journal e in Italia dal 1933 al 1940 su Topolino.

Il modello è simile a quello di molte storie italiane: due giovani, giovanissimi, orfani o lontani dai genitori, si lanciano in avventure in un ambiente naturale selvaggio e sconosciuto ma ben presto vivono avventure non solo alle prese con gorilla, pantere o altri animali selvatici, ma anche a contatto con stregoni, cacciatori bianchi, disertori della Legione Straniera e avventurieri vari, spesso ambientate in favolosi e leggendari regni del passato finendo poi con l’unirsi alla cosiddetta pattuglia dell’avorio, la quale si occupa di contrastare il bracconaggio e il commercio illegale di avorio e di pellicce.

I giornali satirici come Il Travaso delle Idee e i quotidiani come il Corriere della Sera sono tutti mobilitati. Uno degli argomenti preferiti dalla propaganda era la schiavitù e la stampa straboccava di immagini di donne e uomini etiopi schiavi: “È il loro governo a ridurli così”, veniva spiegavato, “è il perfido Negus, andiamo a liberarli”.

L’atteggiamento verso le popolazioni locali è quindi fortemente condizionato da grandi sconfitte che hanno incrinato il primo sogno italiano di espansione coloniale (Dogali, 1887 e Adua, 1896), ferendo l’orgoglio nazionale perché la sconfitta è avvenuta per opera dei locali, ossia da coloro che rientrano nella macrocategoria del selvaggio: non si sono fatti conquistare, civilizzare, educare e di conseguenza gli Etiopi verranno caratterizzati come traditori, infidi, briganti, selvaggi, dediti alla tortura e allo schiavismo.

La macchina propagandistica fascista si incaricò di diffondere messaggi aggressivi seguendo due particolari linee. Da un lato doveva mostrare al popolo italiano i vantaggi economici e politici di un’eventuale vittoria. Dall’altro doveva evidenziare il lato buono e disinteressato della guerra coloniale, convincendo la Nazione che il colonialismo avrebbe portato progresso e civiltà in una terra considerata barbara e incivile.

La guerra non venne quasi mai presentata agli italiani come una guerra di conquista, ma come un’opera di liberazione. Il meccanismo non è molto diverso da quello a cui abbiamo assistito nel novecento e a cui assistiamo ancora oggi nelle variegate e paradossali tipologie di “guerre umanitarie”.

Quando, in diversi momenti, il Governo pose delle restrizioni prima all’uso dei balloon, che avrebbero scoraggiato nei giovani la lettura di testi più lunghi, poi all’importazione dei fumetti stranieri dal momento che storie dovevano esaltare le virtù italiche, si ovviò fornendo nomi italiani ai protagonisti o ridisegnando in Italia le sceneggiature originali.

Diverse sono le ipotesi secondo cui il regime decise di risparmiare le produzioni di Walt Disney dalla censura riservata alle opere provenienti dall’estero.

Per alcuni fu l’amore dei figli del Duce verso le opere della Casa di Burbank a spingere Mussolini verso questa scelta. Secondo altri, fu lo stretto rapporto di natura commerciale tra il regime e la Mondadori, che stampava altre pubblicazioni fasciste, a determinare la sorte favorevole delle vignette disneyane.

In ogni caso, l’insieme di fattori, oltre ovviamente al gradimento del pubblico, determinò il successo di Topolino e contribuì a farne anche nell’Italia fascista un simbolo da sfruttare anche per clamorose operazioni mistificatorie di propaganda politica.

È in questo contesto che nacque nel 1935 Topolino in Abissinia (che ovviamente non ha nulla a che vedere con la Disney e che ne potrebbe costituire una sorta di plagio intenzionale), in cui un fantomatico Topolino veste i panni del volontario fascista che contribuisce direttamente alla causa coloniale offrendo il suo contributo alle azioni di guerra del regime in Africa.

Essendo un vinile da 78 giri, il disco racconta le imprese di Topolino in Etiopia in due parti, entrambe interpretate da Fernando Crivelli, in arte Crivel, autore di hits come Maramao perché sei morto? e L’ora del Campari e fu significativamente  proprio questo il successo che lo consacrò nel panorama della musica leggera italiana con l’appellativo di Cantante del Regime poiché, secondo stime note agli esperti di musica leggera italiana, fu proprio Topolino va in Abissinia il disco del Ventennio che venne più venduto di Faccetta nera e di Giovinezza.

Fernando Crivelli

Il testo del lato A di Topolino va in Abissinia è atroce.

L’incisione inizia con un accompagnamento musicale in stile marcia da fanfara militare per un gruppo di soldati appena giunti in territorio etiope che avanza allegramente intonando canzoni. Tra di essi si distingue quello che viene presentato come “Topolino, il più bel tipo di militare che sia sbarcato nell’Africa Orientale”, che attira l’attenzione del sergente e del comandante.

Ha così inizio un dialogo tra i tre e a Topolino vengono poste le domande di rito.

I due superiori vogliono sapere a quale distretto appartiene. Lui, con la sua caratteristica vocina acidula e irritante, risponde “nessun distretto, sono volontario”.

I militari che lo stanno interrogando rimangono colpiti e impressionati.

Bofonchiano, se la ridono di gusto, felici di aver trovato un militare perfetto e onesto, un soldato provetto, vanto del Duce e del futuro impero. Gli chiedono se è armato e Topolino, che non vede l’ora di entrare in azione, dà il meglio di sé rispondendo “mi sono armato da solo. Ho la spada, il fucile, una mitragliatrice sulle spalle e mezzo litro di gas asfissiante nella borraccia”.

Quello che l’Italia non ha ammesso per decenni o negato a oltranza sino ad oggi – l’uso dei gas nervini nella guerra in Etiopia – è candidamente svelato in una canzone per bambini.

Topolino dichiara anche che “appena vedo il negus lo servo a dovere. Se è nero lo faccio diventare bianco dallo spavento”. Ma il Negus Hailè Selassiè non gli basta. Il bravo soldato Topolino vuole massacrare tutti e subito. Ed ha un motivo ben preciso che spiega ai suoi comandanti: “Ho molta premura. Ho promesso a mia mamma di mandarle una pelle di un moro per farci un paio di scarpe”.

Ma non è tutto. Il presunto Topolino ribadisce di aver voluto partecipare alla guerra per altri tornaconto personali. Intende profanare i corpi dei nemici per sfruttarne le pelli. “Ma quanti ne vuole uccidere?“ è la domanda che l’ufficiale gli pone. Ebbene, Topolino è furbo e ha brevettato un sistema che consiste nel collegare ogni pallottola con un elastico alla canna del fucile, in modo tale da recuperarla dopo ogni colpo sparato da risparare per uccidere un altro moro. La mamma di Topolino non è l’unica ad avere necessità di pelli umane. Topolino infatti aggiunge: “a mio padre manderò tre o quattro pelli per fare i cuscini della Balilla. A mio zio un vagone di pelli perché fa il guantaio”. E poi chiosa: “me la vedrò da solo con quei cioccolatini”. Il dialogo si interrompe con uno squillo di tromba che annuncia il rancio e che il supposto euforico Topolino scambia come segnale di inizio battaglia e la riproduzione discografica termina con uno stacco musicale inneggiante agli sforzi bellici italiani, al glorioso vessillo tricolore e ai nemici da andare a sterminare.

Il lato B è noto come Topolino alla Guerra ed è privo di qualunque intermezzo musicale, sostituito da effetti sonori che simulano un combattimento. La seconda parte è ambientata nel mezzo di una battaglia in cui Topolino è accompagnato da quello che viene presentato come il cane Pluto, che qui ha il dono della parola.

I due intrattengono un dialogo sull’importanza della maschera anti-gas e delle nefaste conseguenze dei gas asfissianti.

Il suono della tromba segnala l’inizio dell’attacco delle forze italiane e il presunto Topolino non esita a gettarsi nella mischia urlando “Uccidiamo, Pluto!“.

Alla fine, il protagonista emerge trionfante, affermando con somma gioia di aver fatto cinquanta prigionieri.

Questo Topolino non ufficiale è quindi un soldato esagitato fedele al Fascismo che non conosce la pietà ed è pronto a uccidere. Persino il comandante fa fatica a contenere questo suo bellicoso entusiasmo, invitandolo più volte a mantenere la calma.

Questa veemenza viene celebrata con una canzoncina destinata principalmente a un pubblico giovane. Dopotutto era questo uno degli scopi della propaganda: il regime mirava a educare e forgiare le giovani menti e l’immagine sonora di Topolino ha rappresentato il miglior canale e la corsia preferenziale per diffondere i fermi principi e i veri valori del sistema fascista, razzista e colonialista italiano.

 

ASCOLTA TOPOLINO IN ABISSINIA