di Ilaria De Bonis*
Pagine Esteri, 16 giugno 2021 – Da oltre un mese l’Est del Congo (in particolare le province del Nord Kivu e Ituri) è completamente in mano ai militari. Lo Stato d’assedio non è un golpe ma una precisa scelta politica del Presidente Felix Tshisekedi per far fronte (senza successo) alla violenza delle milizie armate, all’emergenza vulcano, all’ingovernabilità delle province al confine con Uganda e Ruanda. L’esercito però in Congo non basta per metter fine ai massacri. Anzi, da quando i militari hanno preso il potere i massacri dei civili sono pure aumentati. L’esercito congolese è sospettato di aver perpetrato abusi e violenze nei confronti dei civili. «Non è questa la soluzione», ci ripetono gli attivisti di Lucha, lutte pour le changement. «Così come non lo è la Monusco», la missione delle Nazioni Unite che dovrebbe garantire la pace e invece alimenta la guerra.
«La Monusco dovrebbe lasciare il Congo perché è inefficace, non dà risposte soddisfacenti sulle violenze dei ribelli – ci spiega al telefono da Goma, Ghislain Muhiwa, uno dei giovani attivisti di Lucha che dal 2012 promuovono proteste non violente in tutto il Paese – E’ inattiva rispetto al suo mandato che sarebbe quello di proteggere i civili e non quello di stare a guardare».
Nel solo mese di maggio sono morte 223 persone nell’Est del Congo, contro le 198 uccise ad aprile, come attesta il Kivu Security Tracker che monitora attentamente le zone di confine intrecciando dati e variabili per realizzare mappe interattive. Ben cinquantacinque civili, tra cui 4 donne e 4 bambini, sono stati ammazzati nei villaggi di Boga e Tchabi, nell’Irumu, la notte del 30 maggio, nonostante tutta l’area fosse fortemente “militarizzata”. E proprio questo fa riflettere. Inoltre, dieci civili sono stati prelevati e le loro case date alle fiamme. Vivere nel Kivu in balia di 122 gruppi armati (affamati di ricchezze, territorio e potere) è un inferno. Non sapere perché si rischi la vita, una vera maledizione.
«Dal 2014 ad oggi a Beni, nel Nord Kivu, provincia dove ha perso la vita il vostro ambasciatore Luca Attanasio, sono state ammazzate più di 5mila persone: è un massacro senza fine e noi giovani attivisti di Lucha vogliamo sapere perché accade», ci racconta Ghislain. Il Nord Kivu è in balia di una “mitosi cellulare” delle milizie che pure decapitate si autoriproducono scindendosi in sottogruppi, in parte infiltrati dall’Uganda, tramite l’Adf, in parte dal Ruanda, tramite l’Fdlr. Per questa ragione «siamo sotto uno Stato d’assedio militare – spiega Ghislain – E adesso entriamo nella seconda fase perché il regime militare è stato prorogato nell’Est». Una delle ragioni per cui Tsisekedi ha chiesto l’intervento coatto dei soldati è anche l’improvvisa eruzione del vulcano Nyiragongo che ha ucciso una trentina di persone e provocato l’evacuazione degli abitanti da Goma. «Noi attivisti di Lucha stiamo facendo anche assistenza agli sfollati e portiamo aiuti umanitari – dice ancora Ghislain Muhiwa – Molti di noi sono a Goma e stiamo aiutando a ritrovare i bambini scomparsi che hanno perso i genitori; abbiamo donato cibo ai ragazzi di strada a Goma, abbiamo visitato dei siti dove ci sono sfollati a Bukavu e Sake».
Ma a parte questa emergenza che si va ad aggiungere allo stato di guerriglia permanente, il motivo per cui Lucha è nata nel 2012 («luce in contrapposizione alle tenebre») è quello di «protestare contro gli abusi di potere o contro l’inerzia delle autorità». Ghislain insiste particolarmente nel farci capire che la Monusco è uno scandalo e i giovani vogliono che questa missione “di pace” sia smantellata. L’ultimo sciopero di aprile a Goma contro la Monusco è stato represso. Gli attivisti rischiano sempre il carcere quando scendono in strada. «Chiediamo solo due cose: che la Monusco se ne vada e che il governo congolese si assuma le sue responsabilità in modo che noi possiamo vivere in pace», aveva dichiarato ad Al Jazeera Clovis Mutsova attivista di Lucha, durante lo sciopero dell’8 aprile scorso. «Due nostri militanti sono in prigione a Butembo, perché hanno manifestato per la fine dei massacri a Beni – ci dice Ghislain – Noi sappiamo che la rivendicazione costa, possiamo essere arrestati o venir dispersi ed è questo che temiamo, ma siamo molto solidali tra di noi».
Il far west congolese è dovuto alle ricchezze del suolo (oro, diamanti e coltan) che generano una contesa infinita per le risorse. «I ribelli per comprare armi e pagare i loro combattenti fanno scavare miniere clandestine ovunque, usando il lavoro minorile», ci spiega una fonte missionaria che è stata a lungo in Congo. L’attuale presidente Félix Tshisekedi, il cui mandato è iniziato il 25 gennaio 2019, è subentrato a Joseph Kabila, il presidente più discusso della storia del Congo. Smantellare un sistema corrotto, dove i controllori sono in combutta con i controllati, è un lavoro che richiede anni di riforme. E anche molto coraggio. «Kabila si è dimesso ma non ha affatto abbandonato il Paese – ci racconta l’attivista congolese che vive in Italia oramai da anni, John Mpaliza –. C’è un’assoluta continuità con il precedente regime. Chi traffica nei minerali ha accesso a capitali immensi». «Si parla di scandalo geologico congolese», afferma anche la ricercatrice Federica Vairo. Il Congo siede sull’oro: non c’è minerale che non vi si trovi in grande abbondanza. Ma è praticamente impossibile vivere una vita dignitosa facendo i “cercatori d’oro” o lavorando nelle miniere per lo più clandestine. I bambini sono particolarmente adatti per questo “lavoro” di scavo e ricerca delle pietre preziose: ma il loro salario è quasi inesistente e la loro vita costantemente a rischio.
Sebbene sia vietato dal Diritto e dalle Convezioni internazionali commerciare in pietre preziose e minerali provenienti da un Paese in conflitto, aggirare l’ostacolo e “triangolare” è molto facile per i trafficanti d’oro, diamanti e cobalto. I minerali “insanguinati” escono infatti dal Congo tramite il Ruanda, tutto ciò che passa per i Paesi terzi ottiene una certificazione valida per circolare. Il Nord Kivu è una sorta di frastagliata zona franca dell’illegalità mineraria. «Serve assolutamente una tracciabilità. Ma il governo congolese la vuole davvero?», domanda una nostra fonte in loco. Per tutte queste ragioni il movimento di lotta e attivismo Lucha non ha nessuna intenzione di stare a guardare mentre il Congo viene svuotato, depredato e soggetto a “balcanizzazione”, ossia il furto di terra da parte di Uganda e Rwanda. E così da anni continua a farsi sentire e il movimento cresce. «Noi siamo attivi in ben 24 città del Congo, mobilitiamo centinaia di giovani e quello che vogliamo è ridestare il popolo del Congo, spingere la gente ad essere più attiva, a non arrendersi e chiedere giustizia», dice Ghislain. «Facciamo marce, sit in di protesta, manifestazioni pacifiche per rivendicare i diritti di tutti – aggiunge – Scriviamo anche lettere per denunciare questa situazione». L’ambivalenza dei soldati delle Nazioni Unite, la connivenza con il potere, i sospetti di una partecipazione dei soldati della Monusco al commercio di oro, diamanti e coltan, esaspera le popolazioni locali. «La missione Onu ha fatto di tutto per mantenere relazioni cordiali con il governo di Kinshasa ed allinearsi cautamente con l’esercito congolese, anche quando erano i militari stessi a commettere atrocità», ha spiegato Phil Clark della SOAS University of London a Deutsche Welle. Le proteste e il sacrificio del popolo congolese e di Lucha avrebbero bisogno di essere seriamente ascoltati in Europa: i giovani che protestano per il diritto alla vita di ognuno, non possono anche rischiare di morire perché repressi da polizia e governo. Il mondo occidentale ha l’obbligo di schierarsi dalla loro parte. Pagine Esteri
*Giornalista professionista dal 2005, ha lavorato per dieci anni nelle agenzie di stampa, specializzandosi in economia internazionale e cooperazione allo sviluppo. Ha vissuto e lavorato a Bruxelles, New York e Gerusalemme. Da diversi anni si occupa di Africa, Medio Oriente e missione, scrivendo per testate cattoliche.