a cura di COSPE ONLUS*

Pagine Esteri, 20 gennaio 2022 (le foto sono di COSPE ONLUS) – Dall’inizio dell’occupazione militare di Gerusalemme Est nel 1967, il governo israeliano ha adottato una politica di pianificazione urbana che di fatto ha cambiato la composizione demografica della zona, determinando un aumento costante dei coloni israeliani a scapito della popolazione palestinese, a cui Gerusalemme Est è destinata secondo il diritto internazionale. Questi cambiamenti demografici e strutturali a Gerusalemme Est hanno avuto come effetto quello di consolidare sempre di più il controllo sulla città da parte delle autorità civili e militari israeliane.

A Gerusalemme, infatti, lo spazio, oltre che un fine, è anche un mezzo per influenzare la composizione demografica, e in quest’ottica le politiche urbane dello Stato d’Israele sono diventate uno strumento di controllo della popolazione e hanno alterato la distribuzione demografica della popolazione. Sebbene secondo il diritto internazionale Gerusalemme Est debba essere considerata un territorio occupato così come la Cisgiordania e Gaza, lo Stato d’Israele ha proceduto ad un’annessione formale, in aperta contravvenzione al diritto internazionale e alle diverse risoluzioni adottate sia dall’Assemblea Generale sia dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Di fatto, nel corso degli anni, Israele ha insediato popolazione ebraica nei quartieri palestinesi, attraverso la costruzione di vere e proprie colonie, l’occupazione di singole case, come nei quartieri di Silwan e Sheikh Jarrah, e attraverso la confisca di aree da destinare alla costruzione di basi militari o progetti pubblici quali strade, centri turistici, aree archeologiche e parchi naturali.

Nella zona, infatti, il governo israeliano ha espropriato il 38% del territorio per la costruzione di insediamenti e basi militari, e ad oggi vi sono 11 colonie abitate da un totale di circa 210.000 colonI. Sono stati, inoltre, creati quattro grandi parchi nazionali che occupano il 22% dell’area di Gerusalemme Est.

La situazione demografica, inoltre, è fortemente influenzata dallo status giuridico dei palestinesi gerosolimitani, che secondo il diritto israeliano non godono di una piena cittadinanza ma bensì uno status di residenti permanenti, che in via teorica garantisce gli stessi diritti sociali dei cittadini israeliani, ma non consente di accedere ai pubblici uffici o votare alle elezioni nazionali. Al fine di mantenere tale status, che non è affatto permanente ed è soggetto a procedimenti di revoca da parte delle autorità israeliane, i palestinesi devono dimostrare che il “centro della loro vita” sia a divieto di utilizzo della forza nelle relazioni internazionali e del divieto di acquisizioni territoriali attraverso l’utilizzo o la minaccia di utilizzo della forza, così come sancito dall’articolo 2 paragrafo 4 della Carta delle Nazioni Unite, dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nella Risoluzione 2625, dalla Dichiarazione di principi sulle relazioni amichevoli tra gli Stati, al paragrafo 10 della Sezione .

Sempre l’Assemblea Generale, nella Risoluzione 3314, più comunemente nota come Dichiarazione sulla definizione di aggressione, stabilì all’articolo 5 paragrafo 3 che nessuna acquisizione territoriale o vantaggio risultante da un’aggressione armata di uno Stato a danno di un altro possa essere considerata legittima. All’articolo 3 lett. a), inoltre, nell’elencare i vari atti che possono costituire un’aggressione, l’Assemblea Generale ricomprende anche: “ogni annessione o attacco con l’uso della forza nei confronti del territorio di un altro Stato o parte di esso”.

Il diritto dell’occupazione militare, inoltre, preclude ogni possibilità̀ di annessione o di acquisto del titolo di sovranità̀ sul territorio occupato da parte della potenza occupante, costituendo un atto illecito da parte della potenza occupante, per esplicita violazione dell’articolo 47 della IV Convenzione di Ginevra e più̀ in generale del principio di temporaneità̀ che regola l’istituto dell’occupazione militare.

SILWAN: “VOGLIONO PRENDERE IL NOSTRO PASSATO E IL NOSTRO FUTURO”

Ai piedi della Città vecchia, vicino alla moschea di Al-Aqsa e al Muro del Pianto si sviluppa il quartiere di Silwan: uno dei quartieri più popolati di Gerusalemme Est, in cui da anni i coloni israeliani, supportati dalle autorità israeliane, portano avanti un’intensa attività insediativa che sta modificando la composizione demografica dell’area.

Guardando dall’alto il quartiere che si sviluppa sui fianchi di colline dove secoli fa è nata Gerusalemme, la trasformazione in atto risulta ben chiara: le bandiere israeliane, issate sui tetti delle case, mostrano chiaramente il progressivo insediamento dei coloni a Silwan e la volontà di affermare il loro controllo sull’intera area.

Oltre all’attività insediativa, le autorità statali di Israele stanno trasformando Silwan attraverso le ricerche in campo archeologico. Infatti sulla base delle iniziative intraprese nel corso degli ultimi anni, Silwan non è considerato un quartiere in cui vivono 59.000 palestinesi, ma la zona in cui ci sarebbero i resti della parte più antica di Gerusalemme, dove Re Davide avrebbe costruito il suo palazzo. Questo passato, risalente al racconto della Bibbia, viene utilizzato per rivendicare il diritto a poter insediare e far vivere coloni israeliani a Silwan, con la conseguente requisizione o demolizione di case degli abitanti palestinesi, che da decenni subiscono questa sorte o vivono con la paura di perdere le proprie abitazioni.

L’archeologia nel quartiere gioca un ruolo importante, in particolar modo a Wadi Hilweh, uno dei rioni di Silwan insieme a Al-Bustan e Batn al-Hawa. L’entrata del rione è esattamente di fronte a una delle porte della Città vecchia, usata dai religiosi ebrei per recarsi al Muro del Pianto. I primi edifici di Wadi Hilweh che un visitatore vede arrivando a Silwan sono il parco archeologico “City of David”, gestito dall’organizzazione di coloni EL’AD (El Ir David-Verso la Città di Davide) e, di fronte, il sito archeologico Givati Parking Lot, in cui, sopra gli scavi archeologici, sono anche previste le costruzioni di un museo e di un centro commerciale. I turisti che vengono a visitare il centro archeologico City of David non si rendono visivamente conto di essere in un quartiere palestinese, in quanto ciò che vedono sono solamente i siti archeologici gestiti da EL’AD, a loro volta inclusi nel Parco nazionale Jerusalem Wall, gestito dalla Nature and Parks Authority, agenzia governativa israeliana che gestisce le riserve e i parchi naturali. Tuttavia, sia l’autorità israeliana per la gestione dei parchi sia l’Israeli Antiquities Authority, responsabile per la gestione dell’archeologia in Israele, hanno trasferito a

EL’AD (un’organizzazione privata di coloni illegali su quelle terre, secondo il diritto internazionale) i diritti di gestire sia il centro City of David sia tutti gli scavi in corso a Silwan.

Come ci racconta Fakhri Abu Diab, uno dei rappresentanti della comunità di Silwan, “dall’inizio degli anni ’90 EL’AD ha portato avanti, unitamente all’attività insediativa, una serie di scavi in tutto il quartiere per trovare evidenze archeologiche circa la presenza di Re Davide a Silwan. Stanno solamente utilizzando l’attività archeologica per fini politici. Il loro obiettivo è quello di farci andare via da Silwan. Vogliono prendere il nostro passato e il nostro futuro”

EL’AD, infatti, sostiene che la missione dell’associazione sia quella di valorizzare l’eredità di Re Davide e di riavvicinare le persone al glorioso passato dell’Antica Gerusalemme attraverso quattro attività: scavi archeologici, sviluppo del turismo, programmi educativi e rivitalizzazione residenziale. Rivitalizzazione che, nei fatti, significa demolizione di case palestinesi e attività insediativa a Silwan, esplicitamente vietate dal diritto internazionale dei conflitti armati, come già espresso.

La comunità palestinese di Silwan, inoltre, non è mai stata messa al corrente né coinvolta nell’attività archeologica, né tantomeno è autorizzata ad entrare nei centri gestiti da EL’AD, pur trattandosi di popolazione che Israele dichiara di avere annesso nel suo territorio. Questi siti archeologici, infatti, che si trovano su suolo pubblico, dovrebbero essere resi disponibili anche per i cittadini palestinesi, che invece vengono esclusi dall’accesso, evidentemente in maniera discriminatoria. Come afferma Fahkri: “Re Davide è un profeta anche per noi, non siamo contro la sua figura”.

In realtà, la maggior parte degli archeologi ritiene che i resti che sono stati ritrovati e che oggi sono accessibili visitando il centro City of David non possano essere ricondotti al Palazzo di Davide, ma che bensì sono di epoca anteriore.

Tuttavia, EL’AD sostiene con certezza, nei confronti dei visitatori, che questi resti sono parte del palazzo di Re Davide. L’utilizzo di questa figura biblica propone, inevitabilmente, una narrativa che mescola elementi biblici e nazionalistici, non corroborata da solide prove storiche e scientifiche, utile, in ultima analisi, a sostenere una narrazione univoca, con la conseguente legittimazione a insediare coloni e a proseguire gli scavi archeologici.

LA PISCINA DI SILOAM: UN SITO ARCHEOLOGICO INACESSIBILE AI PALESTINESI

Percorrendo la stessa strada del centro archeologico City of David, tra case palestinesi e altre da cui sventolano bandiere israeliane, si raggiunge la Piscina di Siloam, altro sito gestito interamente da EL’AD. La piscina di Siloam è un luogo biblico che, come sostenuto nel Talmud, era il punto di partenza dell’annuale pellegrinaggio a Gerusalemme per i pellegrini ebrei e dove, secondo il Vangelo di Giovanni, Gesù compì il miracolo della guarigione del cieco.

Per questo motivo EL’AD sta cercando di coinvolgere in particolare la comunità evangelica, in modo da proporre una narrativa che unisca cristiani ed ebrei, intercettando i relativi flussi turistici e andando così a cancellare ogni traccia della presenza palestinese.

Infatti, anche l’accesso alla piscina di Siloam è consentito solamente ai cittadini israeliani e agli internazionali. Per i palestinesi, invece, visitare questo sito archeologico è vietato, atto ulteriore di disconnessione della comunità di Silwan con questo luogo, incluso Fahkri: “Quando ero un bambino venivo a nuotare qui, e prima che i coloni prendessero questo posto ci portavamo i nostri figli, ma oggi noi palestinesi non possiamo più entrarci”.

I palestinesi, in particolar modo i giovani, non hanno la possibilità di poter conoscere la storia del luogo in cui vivono e di cui fanno parte: una storia che non dovrebbe essere presentata in maniera esclusiva e indirizzata solamente in favore di una parte della popolazione. (FINE PARTE PRIMA)

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