di Caterina Maggi*
Pagine Esteri, 11 marzo 2022 (un campo di grano in Ucraina, foto di Raimond Spekking) – Tra le conseguenze geoeconomiche della recente invasione russa nel cuore dell’Europa, una sfugge ai riflettori ma è molto preoccupante: l’aumento del prezzo del grano sui mercati globali, di cui l’area MeNa è principale importer. Un contraccolpo che rischia di essere fatale per una zona già gravata da una crisi economica pesantissima.
Nel mondo globalizzato, l’ “effetto farfalla” di un conflitto europeo fa salire la tensione anche nel resto del pianeta. Tra le aree colpite dai contraccolpi economici della crisi militare in Ucraina c’è anche un’altra area “calda” del pianeta: il Medio Oriente-Nord Africa (MeNa) già punto nevralgico di conflitti e agitazioni sociali dovuti a crisi economiche croniche e caro prezzi contingenti. Infatti come avviene contestualmente a quasi tutti i conflitti, sono le materie prime quelle i cui prezzi sui mercati volano più in alto durante le ostilità: beni a grandissima richiesta, di cui non si può fare a meno ma il cui approvvigionamento diventa sempre più difficile- e di cui di conseguenza le spese decollano. Ne sanno qualcosa anche le borse europee e asiatiche: da quando sono state annunciate le nuove sanzioni contro la Russia, Milano ha perso l’1,4%, Tokyo e Hong Kong addirittura il 3 e il 3,9%. Tra i beni che hanno visto schizzare il loro valore alle stelle il petrolio (fondamentale per i suoi derivati tra cui la benzina), l’oro (classico “bene paracadute”) e cereali, di cui Russia e Ucraina contribuiscono per il 29% all’approvigionamento globale. Due risorse fondamentali per l’area MeNa.
L’area del Medio Oriente e del Nord Africa (definita in geopolitica “area MeNa” e abitata da circa 480 milioni di persone) ha una strettissima dipendenza da questi beni. Si tratta inoltre di uno snodo cruciale dove è già assodato il rapporto tra conflitto, insicurezza alimentare e crisi economica. Già nel 2016 in un paper dal titolo “Dal globale al locale, l’insicurezza alimentare è connessa ai conflitti armati contemporanei” i due accademici Ore Koren (Università del Minnesota) e Benjamin Bagozzi (Università di Delaware) avevano tracciato un filo rosso che legava guerre, crisi economica, fame. Nel testo viene messo a punto un vero e proprio modello matematico per descrivere il “coefficiente di ricaduta” di una tensione armata sulla popolazione. Tra questi viene messo in relazione come la fame e l’insicurezza alimentare, a volte causate dagli stessi conflitti, spingano gli abitanti a sostenere la violenza nel tentativo di avere accesso alle risorse, come un serpente che continua a mordersi la coda.
I parametri della loro ricerca erano tuttavia ancora parziali: come si legge nel testo, vengono conteggiati come conflitti quelle tensioni armate che si protraggono per 25 o più anni. Un altro studio “L’insicurezza alimentare condiziona la transizione nei paesi arabi?” di Jean-François Maystadt, Jean-François Trinh Tan e Clemens Breisinger sottolineava come la difficoltà di accesso ai beni di prima necessità abbia condizionato e continui a condizionare le transizioni politiche in paesi come Tunisia, Egitto, Libia e Yemen, specialmente nei primi tre paesi – stati del Maghreb travolti dai moti delle Primavere arabe. Senza dimenticare il piccolo Yemen, dove il conflitto continua ad alimentare le tensioni militari tra le potenze arabe della zona e i gruppi tribali locali. E senza trascurare altri conflitti eterni, come quello tra il popolo Saharawi e la corona marocchina in Sahara Occidentale. D’altronde, secondo l’ultimo rapporto della Food and Agriculture Organization (Fao), nelle zone a rischio bellico il rischio di denutrizione (a circa 25.2 punti dell’indicatore) è cinque volte più elevato che nelle aree non di conflitto (5 punti circa), una condizione che allontana l’area dall’obbiettivo “fame zero” dell’Agenda 2030; ma sopratutto, lo studio mette in chiaro come nelle aree di conflitto la Percentuale di Denutrizione (PoU) sia quasi tre volte più alta rispetto alle zone prive di conflitto. E in generale, dopo una positiva riduzione prepandemia, l’indicatore è tornato a salire negli ultimi due anni.
Messo in luce questo, dovrebbe apparire chiaro quanto un inciampo, un rincaro nella catena di approvvigionamento possa avere effetti devastanti in una zona del mondo. Da una parte, rischia di rendere ancora più letali le tensioni pre-esistenti; dall’altra, rischia di acuire le tensioni sociali nei paesi non ancora in fase di conflitto, rendendone più facile il verificarsi.
Tra questi, spicca ad esempio il Libano, dove già la crisi economica ha messo in ginocchio la popolazione e dove il caro gasolio ha fatto lievitare non solo i costi di trasporto (quindi anche dei beni) ma anche dell’energia, con conseguenti black out random che colpiscono soprattutto la popolazione e possono essere fatali – che succede, ad esempio, se salta la corrente che alimenta un respiratore o un reparto di chirurgia? Ma non solo il paese dei cedri: l’Egitto, tra tutti, è il principale importatore di grano da Russia e Ucraina, da cui ha acquistato l’80% circa del suo fabbisogno. Il prezzo del grano al Cairo è già schizzato in alto del 22%, quello della farina oltre il 40%. E almeno il 70% della popolazione egiziana dipende da prodotti a base di cereali e farina di grano. Con il risultato che l’Egitto sarà costretto a pagare almeno 950 milioni di dollari fuori budget la crisi alimentare. Non è percorribile nemmeno una “via autarchica di sopravvivenza”: le scarse precipitazioni, rese ancora più esigue dai cambiamenti climatici, rendono l’agricoltura di Africa e Medio Oriente ancora più vulnerabile alla siccità. Anche la Tunisia e il Marocco lanciano l’allarme per il rincaro dei prezzi dei prodotti da forno, alla base della dieta della popolazione del Nord Africa, mentre in Libia le tensioni tribali potrebbero aggravare ulteriormente questo scenario già complicato
L’incapacità dei leader europei, di quello statunitense e di quello russo rischia dunque di fomentare nuove violenze in un’area del pianeta già martoriata, creando nuove ondate di profughi e rifugiati climatici in tutto il mondo e rendendo più impervia la strada per salvare il pianeta dettata dall’Agenda 2030 e dalla conferenza di Glasgow. Una sconfitta che, al solito, saranno i semplici a pagare. Pagine Esteri
*Laureata in Lettere all’Università di Genova e diplomanda alla Scuola di Giornalismo di Bologna, giornalista praticante presso l’Istituto Affari Internazionali, si appassionata fin da giovanissima alla questione palestinese e al Medio oriente. Scrive per il sito online Affarinternazionali.