(Foto: Archivio fotografico e di storia sociale del Regno Unito Historic UK)
di Franco Ferioli –
Pagine Esteri, 6 giugno 2022 – La morte del cittadino afroamericano George Floyd, avvenuta il 25 maggio 2020 a Minneapolis, ha provocato la nascita e la diffusione di uno dei più grandi movimenti sociali della storia degli USA che ha contagiato il mondo intero al grido di Black Lives Matter e con lo slogan Defund the Police.
È stato questo orribile e ingiustificato omicidio, in seguito a un fermo di polizia, a spingere decine di migliaia di persone a scendere in piazza in tutti gli Stati Uniti, innescando violenti scontri e suscitando manifestazioni di solidarietà e di protesta in tutto il mondo contro le discriminazioni, le diseguaglianze, il razzismo istituzionale e contro la brutalità della polizia.
Il termine brutalità della polizia non è nuovo e continua ad essere usato in riferimento alle violazioni dei diritti umani da parte delle forze dell’ordine o all’uso indiscriminato della forza da parte di agenti antisommossa durante le manifestazioni di protesta.
Secondo i dati raccolti da Mapping Police Violence -un’organizzazione che raccoglie e analizza i dati sulla violenza della polizia https://mappingpoliceviolence.org-negli USA, nel 2021 si è registrata una media di tre uccisioni al giorno, 1.144 in totale e sono stati solo 15 i giorni dell’anno in cui la polizia statunitense non abbia ucciso qualcuno.
Nei primi quattro mesi del 2022, la polizia ha ucciso 445 persone.
La maggior parte di questo genere di omicidi da parte della polizia sono scaturiti da singoli controlli e fermi stradali, disordini pubblici, procedure di controllo sulla salute mentale, reati non violenti legati alle tossicodipendenze o senza alcun giustificabile ricorso alla legittima difesa.
L’uccisione di George Floyd per soffocamento con un ginocchio sulla gola mentre era a terra ammanettato, è quindi avvenuta sulla scia di una lunga serie di atti di violenza che denotano allarmanti livelli di uso della forza e la polizia negli Stati Uniti commette violazioni dei diritti umani a un ritmo incredibilmente frequente in particolare contro le minoranze razziali ed etniche e in particolare contro le comunità nere, che oltre che risultare ingiustificate, quasi mai vengono punite: il 98,3% degli omicidi dal 2013 al 2020 non ha portato a un’accusa di reato e a nessuna condanna per gli agenti coinvolti. E’ in questo contesto che la la condanna dell’agente Derek Chauvin a 22 anni e mezzo di carcere per l’omicidio di George Floyd è stata celebrata come un importante passo avanti nei rapporti tra società civile e forze dell’ordine, prospettando un futuro in cui il ruolo della polizia possa essere ridefinito e migliorato.
I manifestanti sono scesi in strada per chiedere cambiamenti radicali delle forze di polizia e del sistema giudiziario e penale, adottando forme di contestazione che è doveroso analizzare per evitare che i concetti espressi dallo slogan “Defund the Police” o dal termine “Cancel Culture” non vengano posti a significare “abolizione della polizia” sotto l’impulso di una reazione emotiva o “cancellazione della storia” come risultato di una furia nichilista.
Molte delle argomentazioni sul “de-finanziamento”, infatti, non si concentrano sulla polizia stessa, ma sulle problematiche sociali che incoraggiano la criminalità, così come gli argomenti propri del desiderio di cancellazione della cultura non riguardano la storia in quanto unicum e in quanto tale, bensì la trattazione e l’interpretazione di determinati fatti storici in maniera unilaterale, selettiva ed elitaria.
“Defund the police” è lo slogan che più ha incarnato l’idea che non è possibile riformare la polizia, meglio ridurne i finanziamenti e gli ambiti di intervento per sostituirla con soluzioni pubbliche non repressive.
Idea che negli USA e nel resto del mondo sempre più persone stanno capendo e accettando: la strada da percorrere è ridurre gli apparati di polizia e sostituirli con alternative civili, disarmate, finanziate e gestite con fondi e da organismi pubblici.
Molti poliziotti americani sono addestrati a diffidare delle loro comunità e a credere che ogni incontro possa sfociare in violenze contro di loro. Viene loro insegnato a temere per la propria vita quasi come impostazione predefinita.
La mentalità guerriera di una polizia sempre più militarizzata non aiuta nessuno, e così, man mano che la voce di bilancio più importante delle città è il budget per la sicurezza pubblica, aumenta anche l’evidenza del fallimento delle forze dell’ordine nel soddisfare le esigenze delle comunità e la polizia è divenuta il volto pubblico del fallimento dello stato nel provvedere ai bisogni fondamentali delle persone.
Alex Vitale, professore di sociologia e coordinatore del Policing and Social Justice Project al Brooklyn College sostiene, in The End of Policing – Verso Book 2017, che il fatto che la polizia sia brutale e impermeabile a ogni tentativo di riforma sia solo l’elemento catalizzatore di una forma di attivismo che sta rispondendo a una crisi storica molto profonda e radicale e a una più vasta varietà di fenomeni sociali.
Le attività di polizia stanno continuando a riguardare il mantenimento di un sistema di proprietà privata e a facilitare i regimi di sfruttamento iniziato dalla fine del diciottesimo e all’inizio del diciannovesimo secolo. Quando si formarono la maggior parte delle forze di polizia moderne, in Inghilterra e negli Stati Uniti dal 1825 al 1855, quei regimi erano basati sul colonialismo, sulla schiavitù e sull’industrializzazione. La polizia è emersa per gestire le loro conseguenze e ha sempre svolto un ruolo politico: reprimere le rivolte degli schiavi, reprimere le rivolte coloniali, reprimere la classe operaia e le lotte dei lavoratori.
Questa è la natura fondamentale della polizia, che non si è mai curata di produrre uguaglianza, ma che, al contrario, è nata per sopprimere i movimenti e consentire allo sfruttamento di procedere. L’autorità ha creato la polizia in risposta a folle grandi e ribelli, ovvero agli scioperi in Inghilterra, alle rivolte del Nord e alla minaccia dell’insurrezione degli schiavi nel Sud degli Stati Uniti.
Dunque la polizia è ed è sempre stata una risposta alla folla, non al crimine.
Questo riassume la duplice funzione che contraddistingue la polizia moderna: da un lato c’è la forma diffusa di sorveglianza e di intimidazione che passa sotto il nome di lotta alla criminalità, dall’altro c’è la forma concentrata che assume per affrontare scioperi, rivolte, contestazioni e manifestazioni.
Questi sono i veri obiettivi di politiche come la tolleranza zero o di ordinamenti giuridici/penali basati sulla legge del taglione: intimidire e affermare il controllo sopra una massa di persone agendo solo su alcuni e promuovere leggi da usare su alcuni per controllare l’intera massa.
Oggi abbiamo agenti di polizia che assomigliano sempre di più ai militari e militari che assomigliano sempre di più a una polizia politica.
L’addestramento in stile guerriero, l’aumento del numero di corpi speciali, di unità paramilitari, la privatizzazione e il modo in cui questi fattori hanno plasmato il funzionamento degli apparati di sicurezza, secondo quanto espresso da Jeff Halper professore di Antropologia e coordinatore dell’Israeli Committee Against House Demolitions) -in “La guerra contro il popolo. Israele, i palestinesi e la pacificazione globale” Edizioni Epoke’, Pluto Press 2015, deriverebbe innanzitutto dal fatto che migliaia di poliziotti americani vengono addestrati da specialisti israeliani e che quindi la comparsa di tattiche violente di tipo militare da usare contro i civili rappresenta solo un anello di una lunga catena di ‘scambi mortali’ tra i due Paesi.
Il crescente senso di insicurezza in cui versa la maggiore potenza militare ed economica occidentale, trova ampie risposte nei prodotti che Israele può offrire, che vanno dalla sicurezza aeroportuale e doganale, dalla costruzione di carceri, torri di guardia, muri e recinzioni, alle tecnologie di sorveglianza, spionaggio e controllo dei media.
L’esperienza israeliana nel reprimere brutalmente per decenni l’intero popolo palestinese, è diventata una merce di scambio che la guerra globale al terrore ha reso estremamente preziosa, proiettando Israele come indiscusso leader del settore.
Nel libro “The Privatization of Israeli Security” Pluto Press 2018, l’economista politico Shir Hever spiega come le élites della sicurezza israeliane abbiano abbracciato la privatizzazione e perchè abbiano trasformato la violenza in una merce atta a preservare e ad aumentare il proprio status e privilegio. Hever mostra come Israele abbia esternalizzato la sua occupazione militare e subappaltato la repressione e come il suo complesso militare/tecnologico/industriale interagisca con i settori internazionali della privatizzazione della sicurezza attraverso società internazionali, aiuti militari e commercio di armi.
Hever, per ribadire come Israele stia “trasformando il sangue in denaro” attraverso il commercio delle armi, riporta la seguente citazione di Benjamin Beit-Hallahmi, professore di psicologia all’Università di Haifa: “Ciò che Israele ha esportato è la logica dell’oppressore, il modo di vedere il mondo legato a una dominazione di successo. Ciò che viene esportato non è solo tecnologia, armamenti ed esperienza, non semplicemente competenza, ma una certa forma mentis [frame of mind], la sensazione che il Terzo Mondo possa essere controllato e dominato, che i movimenti radicali nel Terzo Mondo possano essere fermati, che i moderni crociati abbiano ancora un futuro”, (The Israeli connection: whom Israel arms and why, Google Books 1982).
A richiedere riforme di riduzione della mentalità militare nella polizia e politiche di intervento che limitino l’approccio penale a favore di quello civile non sono solo contestatori, movimenti di opinione, individui privati e operatori pubblici ma anche dirigenti, sindacati e organizzazioni appartenenti alle forze dell’ordine, perché la complessità del problema della giustizia riguarda anche e soprattutto l’aspetto culturale, sociale e sanitario, oltre a quello criminale.
Anche tutto ciò che riguarda i moderni concetti legati alla giustizia riparativa, da contrapporre alla giustizia penale e detentiva sono strettamente legati ad una nuova presa di posizione civica e di responsabilità comunitaria, dal momento che con il termine giustizia riparativa si definisce quel processo in cui vittima e colpevole, dato il loro consenso revocabile in qualsiasi momento, dialogano, con l’aiuto di un mediatore qualificato, per risolvere i nodi del conflitto causato dal reato.
Questo significa personalizzare, cioè riconoscere le persone e le loro azioni per ciò che sono. Un reato è tale perché previsto da una norma giuridica, ma è anche, preliminarmente, un comportamento dannoso. Per la giustizia penale, la violazione crea una colpa da pagare con la sofferenza e la punizione. Per la Restorative Justice la violazione crea nuovi obblighi, attraverso i quali possa ricostituirsi giustizia ed equilibrio relazionale coinvolgendo chi ha subito il danno, chi ne è responsabile e le componenti della comunità, in un impegno a rendere giusto ciò che è sbagliato, a ripristinare una giustizia rispettosa di tutte e di tutti.
Nelle parole di Howard Zehr, criminologo americano considerato un pioniere del moderno concetto di giustizia riparativa «essa coinvolge la vittima, il trasgressore e la comunità al fine di ricercare soluzioni che promuovano la riparazione, la riconciliazione e la rassicurazione». Pertanto, la giustizia riparativa cerca anche di rafforzare il senso di sicurezza della collettività; si rivolge agli adulti e ai minorenni; è votata allo smussamento dello squilibrio generato sia da reati gravi sia di lieve entità; mira a evitare la stigmatizzazione del reo e a promuovere il suo ritorno in società.
Sebbene il dibattito accademico riguardo alla sua definizione e ai suoi contenuti sia ancora aperto, si può affermare che essa nasca in seguito alla presa di coscienza della necessità di conferire alla vittima un ruolo più significativo, cosa che sembra esserle negata in sede processuale.
Non minore importanza viene attribuita al colpevole, il quale deve ammettere la propria responsabilità e assumere consapevolezza della violazione, impegnandosi, sulla base di un accordo stipulato con la persona offesa, a riparare il danno cagionato dal reato, dopo aver espresso formalmente le proprie scuse. A condizione, ovviamente, che non rifugga la portata della propria colpa, non minimizzi il danno provocato, non neghi nuovamente la dignità della vittima, non si erga a difensore di controvalori lontani da quelli su cui si reggono le leggi e non pretenda il perdono, in quanto gesto privato, volontario e risolutivo da parte della vittima.
Storicamente è possibile rintracciare alcuni lontani antecedenti della giustizia riparativa in alcune forme di negoziazione tipiche delle cosiddette “società semplici” o “primitive”: come la yakala melanesiana, nella quale, secondo Grazia Mannozzi – Professoressa di Diritto penale all’Università degli Studi dell’Insubria. e Direttore del Centro Studi sulla Giustizia Riparativa e la Mediazione – «i contendenti, sostenuti dal parentado, espongono i rispettivi argomenti litigiosi, attraverso figure verbali complesse o mere invettive», dove la valenza di queste ingiurie è catartica; si ricordi anche il rîb biblico, che è «un rapporto giuridico bilaterale. La finalità di chi ha subìto il torto e intenta il litigio, assumendo il ruolo di “accusatore” e di “rivendicatore”, è principalmente ritrovare il rapporto con chi gli ha fatto del male».
Anche i 42 comandamenti di Maat, base della civiltà egizia che si è sviluppata dalla regione dei grandi laghi alla Valle del Nilo nel corso di migliaia di anni come la summa dei valori di riferimento che ispirarono i Mande per costituire il grandioso ordinamento giuridico dell’Impero del Mali, non avevano una funzione punitiva, ma erano considerati un modo per vivere bene nel rispetto dei valori di giustizia, libertà, ordine, rettitudine, solidarietà, comprensione.
I concetti dottrinali che esprime la giustizia riparativa sono così semplici, così naturali da sembrare che escano da trattati di teologia dogmatica, oltre che derivare dalle basi preistoriche e promordiali di ogni forma di organizzazione sociale e civile.
L’idea di rispondere al crimine rimediando ad esso con la partecipazione diretta di tutti i soggetti coinvolti, non è dunque e certamente nuova. Ogni società è da sempre alla continua ricerca dei modi migliori con cui affrontare incidenti e comportamenti dannosi tra i suoi membri. È una ricerca da parte delle comunità per imparare a far fronte al crimine e alle ingiustizie in modo pacifico e legittimo, per bilanciare le esigenze di giustizia e riparazione nei confronti di tutte le parti senza imporre ulteriori danni.
La giustizia riparativa consiste in un tentativo di ricomposizione e riavvicinamento di due o più individui fra i quali, eufemisticamente, è stato scavato un solco profondissimo.
Questa è davvero l’idea di “fare giustizia”, non esercitando vendetta o ritorsioni o infliggendo più dolore combattendo il male con il male, ma coinvolgendo tutte le parti interessate – vittime, autori di reato, le loro famiglie, i membri della comunità, gli attori e le istituzioni – in un processo di dialogo in cui l’incidente e il danno causato possano essere discussi, rivisti, le conseguenze pienamente comprese e ricomposto l’ordine frantumato. Chi ha compiuto un reato è persona, prima che ruolo giudiziario (indagata, imputata, condannata); chi ne ha subito le conseguenze è, prima ancora che parte offesa o vittima, una persona danneggiata.
Ciò non significa disconoscere il significato giuridico di reati, di persone autrici e vittime, ma ragionare a partire dai contenuti che il significato giuridico e le categorie del diritto qualificano secondo le proprie assunzioni di responsabilità e il proprio linguaggio: persone (autori/autrici, vittime), comportamenti che producono danno (reati), conseguenze (vittimizzazione, giudizio, condanna, pena).
L’idea che sta alla base del concetto di ‘giustizia riparativa’ è radicalmente diversa da quella che si basa invece sul principio della compensazione del danno e orienta solamente in senso afflittivo e punitivo la reazione al reato. Esempi tipici di questa pratica sono la “legge del taglione” oppure le condanne a pene che confinano il colpevole in un luogo dove non possa nuocere, privandolo della possibilità di essere riammesso al consesso sociale con pene detentive temporanee, permanenti o, a seconda del giudizio sulla gravità del reato commesso, addirittura con condanne a morte.
La “lex Talionis” (occhio per occhio) o la carcerazione di massa non hanno posto nelle società illuminate, giuste e veramente democratiche. La punizione, infatti, può essere considerata uno strumento legittimo solo se ha un effetto deterrente e se educa la società a una migliore convivenza, pacifica e rispettosa: quando diventa mera vendetta o ritorsione o rappresaglia, il risultato può essere controproducente e generare maggiore ingiustizia e instabilità.
Per la giustizia penale il focus è sull’autore/autrice che deve pagare il suo debito alla giustizia, allo Stato; in questo modo, lo Stato si sostituisce completamente alla vittima, relegandola a pura iniziatrice dell’azione penale che esce poi di scena e che, pertanto, come afferma Nils Christie, (The British Journal of Criminology Vol. 1, gennaio 1977), diventa «una sorta di doppia perdente»: prima nel reato, successivamente nel processo, dal momento che lo Stato, che pure la rappresenta, la depriva del suo principale diritto di partecipare pienamente a un percorso riguardante la propria vicenda e sé stessa.
La giustizia riparativa propone una lettura radicalmente diversa da quella della giustizia penale.Elemento focale della giustizia riparativa è, quindi, la partecipazione attiva della vittima, dell’autore di reato e quanto più possibile delle altre parti (la comunità).
Questo significa personalizzare, cioè riconoscere le persone e le loro azioni per ciò che sono. Un reato è tale perché previsto da una norma giuridica, ma è anche, preliminarmente, un comportamento dannoso. Per la giustizia penale, la violazione crea una colpa e richiede di pagare con la sofferenza e con una punizione. Per la Restorative Justice la violazione crea nuovi obblighi, attraverso i quali possa ricostituirsi giustizia ed equilibrio relazionale e si possa rompere il circolo vizioso di violenza e repressione.
Legge, punizione e giustizia non sono scienze matematiche: sono concetti molto diversi che non dovrebbero essere indebitamente confusi.
Per prima cosa la legge deve essere sia preventiva che di riscatto, dovrebbe cioè essere anche preventiva e non semplicemente reattiva.
Lo scopo e lo spirito della giustizia richiedono che la legge sia molto di più che infliggere pene e sanzioni contro coloro che non osservano i dettami amministrativi, civili e penali stabiliti e che, in molte situazioni, possono costituire regimi imperfetti o addirittura deliberatamente ingiusti che perpetuano gli squilibri e proteggono i privilegi.
Il diritto naturale e il buon senso richiedono che il diritto codificato sia modificato in modo da tenere conto dell’evoluzione della società e garantire che la giustizia prevalga.
Può apparire pertanto strano o dissonante che la punizione si sia imposta nella cultura dominante della nostra epoca come una sorta di strumento preferito e preferibile, come principale strumento legale, come arma di paura e deterrenza e come parte essenziale della giustizia.
Naturalmente le vittime dell’ingiustizia, della violenza e delle violazioni dei diritti umani hanno diritto al riconoscimento, al rispetto e al risarcimento. Ciò può essere ottenuto attraverso commissioni civiche e tribunali popolari e non sempre richiede di mettere gli autori in prigione.
Vedere puniti gli autori di una violazione della legge non annulla il reato, non promuove necessariamente l’obiettivo di prevenire futuri reati, né rafforza una società pacifica basata sul diritto, sul rispetto reciproco e sui valori etici.
Inoltre la legge non deve discriminare tra le vittime e tra i colpevoli. Il concetto di una gerarchia delle vittime, la distinzione tra differenti tipologie di colpevoli sono indegne di un ordinamento giuridico volto a perseguire la Giustizia. Quando la legge crea categorie di vittime conformi e tollera che altri rei vengano ignorati, corrompe il concetto di giustizia, perché entrambe le parti meritano la nostra attenzione e compassione, sono uguali nella loro dignità umana e meritano di essere riconosciute e risarcite, senza discriminazioni.
Proprio come diritto e giustizia non sono coincidenti, il concetto di legge dovrebbe essere separato da quello di punizione.
Il modello di giustizia riparativa (J.Campbell, D.Chapman, McCredy) evidenzia che il problema centrale è il danno. È questa una differenza sostanziale rispetto alla giustizia penale che è orientata a rispondere (re-agire) a ciò che è stato: in particolare il crimine e chi lo ha messo in atto, escludendo, di fatto, chi di quel comportamento subisce le conseguenze: la parte lesa e la comunità; ma anche lo stesso autore e i suoi sistemi sotto il profilo delle conseguenze del processo e della condanna.
I conflitti appartengono al nostro sociale, devono essere utilizzati e trasformati dalle parti coinvolte secondo la storia e le “verità” di ciascuna di esse.
Il motto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, si vis pacem cole justitiam: se vuoi la pace, coltiva la giustizia, esprime una verità fondamentale su cui si è molto riflettuto ma che non si è mai riusciti a mettere in atto. Infatti, se non c’è giustizia sociale, se le leggi non adempiono alle loro funzioni preventive e di riscatto, inevitabilmente ne derivano conflitti interni e internazionali. Ecco perché la legge è fondamentale nel fornire un quadro solido e nell’educare la società su quei diritti umani e libertà fondamentali che faranno avanzare gradualmente l’umanità verso la giustizia e la pace.