di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 15 giugno 2022 – La nuova iniziativa del governo britannico rischia di alzare di nuovo la tensione in Irlanda del Nord, oltre che nelle relazioni tra Londra e Dublino e tra Londra e Bruxelles.
Nel 2020, dopo una lunga trattativa con l’UE dalla quale la Gran Bretagna era fuoriuscita dopo la vittoria del “leave” nel referendum sulla Brexit del 2016, Boris Johnson e i conservatori avevano accettato di siglare un Protocollo che introduceva una frontiera doganale tra la penisola britannica e quella irlandese, scatenando la reazione degli unionisti nordirlandesi che considerano la misura un’anticamera della temuta riunificazione tra le due irlande.
Evidentemente, all’epoca i Tories temevano di più l’esplosione della comunità repubblicana delle Sei Contee, paventata nel caso di rispistino di una frontiera effettiva tra il territorio sotto dominio inglese e la Repubblica d’Irlanda.
Johnson contro tutti
Ma ora Boris Johnson sembra averci ripensato e la sua ministra degli Esteri, Liz Truss, ha presentato un disegno di legge che modifica alcune parti del Protocollo in maniera unilaterale, stabilendo che le merci provenienti dalla Gran Bretagna che entrano nelle Sei Contee non saranno più soggette a controlli doganali (contrariamente a quanto avviene attualmente) mentre vi saranno sottoposte quelle che proseguiranno il loro viaggio per l’EIRE. Inoltre, il disegno di legge dispone che sia la magistratura di Londra e non più la Corte di Giustizia Europea ad avere l’ultima parola sui contenziosi sorti nell’applicazione del Protocollo.
Si tratta di una soluzione di compromesso – anche perché Johnson vuole evitare di scatenare una guerra commerciale con l’UE – che non è neanche certo vada in porto vista la lunga trafila che il provvedimento dovrà superare e i numerosi ostacoli che già si preannunciano. Ma comunque la misura indispettisce molti.
Dura è stata la reazione del primo ministro irlandese, il Taoiseach Micheal Martin, secondo il quale i rapporti tra Londra e l’Unione Europea sarebbero ai «minimi storici».
L’UE ha fatto sapere che sta studiando l’avvio di un procedimento legale contro Londra. La reazione europea potrebbe anche contemplare ritorsioni sul piano commerciale e su quella della cooperazione. I co-presidenti del Gruppo di contatto del Parlamento Europeo con il Regno Unito (Ukcg) David McAllister, Bernd Lange e Nathalie Loiseau, hanno affermato che «L’azione unilaterale del Regno Unito costituisce una grave e inaccettabile violazione del diritto internazionale, siamo profondamente preoccupati. La legge sul Protocollo sull’Irlanda del Nord mette in dubbio la credibilità del governo britannico nell’adempiere ai suoi obblighi internazionali, previsti dall’Accordo di recesso post Brexit e dall’Accordo sul commercio e la cooperazione, danneggia la fiducia reciproca e crea incertezza per i cittadini, gli investitori e le imprese dell’Irlanda del Nord».
Johnson risponde affermando che il ddl appena presentato propone «banali aggiustamenti». Ma una nutrita pattuglia di parlamentari conservatori che hanno votato contro Johnson nella recente conta interna al partito, hanno pubblicato una nota in cui affermano: «Infrangere il diritto internazionale per fare a pezzi il trattato è dannoso per tutto ciò che il Regno Unito e i conservatori rappresentano. Siamo un paese che agisce con integrità e onora gli accordi che firma».
Anche gli imprenditori e le organizzazioni lobbystiche non hanno preso bene la mossa di Johnson. La Confederazione dell’Industria Britannica (CBI) ha criticato le modifiche proposte dal governo perché metterebbero a rischio gli investimenti esteri nel paese e creerebbero una situazione di estrema instabilità. Per motivi analoghi il provvedimento non piace neanche al mondo dell’industria e della finanza nordirlandese.
E addirittura un alleato di ferro di Londra, Washington, manifesta il suo disappunto. La portavoce della Casa Bianca, Karine Jean-Pierre, ha detto ai giornalisti di «sostenere con forza la necessità di proteggere i risultati dell’Accordo del Venerdì Santo (che nel 1998 ha posto le basi per il processo di pace, ndr) al fine di garantire la pace, la stabilità e la prosperità dell’Irlanda del Nord. Abbiamo accolto positivamente il Protocollo per l’Irlanda del Nord che riteniamo uno strumento utile a preservare i mercati europeo e britannico». Secondo alcune indiscrezioni, l’amministrazione Biden starebbe addirittura pensando di nominare un inviato speciale per l’Irlanda del Nord, come già fece Bill Clinton negli anni ’90, nel tentativo di sbloccare la situazione.
Il boicottaggio unionista nelle Sei Contee
Insomma Boris Johnson potrebbe farsi molto male se continuasse sulla strada intrapresa sull’onda delle pressioni dell’European Research Group (Erg), una corrente nazionalista del partito conservatore, e del DUP, la principale formazione unionista dell’Irlanda del Nord.
Il Democratic Unionist Party, uscito sconfitto dalle elezioni per il rinnovo dell’Assemblea dell’Irlanda del Nord del 5 maggio, sta infatti bloccando la formazione del governo delle Sei Contee. In cambio della fine del boicottaggio la formazione chiede una sostanziale modifica del contestato Protocollo.
Nella precedente legislatura il DUP – uscito vincitore dalle elezioni del 2017 – aveva accettato la coabitazione con un Sinn Fein in posizione (anche se solo simbolicamente) subalterna. Ma ora che le parti si sono invertite e i repubblicani hanno vinto la competizione ed hanno quindi il diritto ad esprimere il primo ministro (che comunque ha gli stessi poteri del vice), gli unionisti si rifiutano di collaborare. E senza il DUP il governo non si può fare perché la legge impone che gli esecutivi comprendano sia gli unionisti sia i repubblicani, all’interno di un macchinoso sistema basato sulla condivisione del potere su base confessionale. Un sistema contestato ormai da più parti, in quanto disegnato per mantenere forzosamente lo status quo e concedere un illimitato potere di veto ai lealisti filobritannici.
Lo stallo cominciato nel 2017 – il governo precedente è andato in crisi più volte a causa dei “capricci” unionisti – non sembra destinato a sbloccarsi facilmente.
Paradossalmente la storica vittoria dei repubblicani del Sinn Fein potrebbe aver incancrenito la situazione incrementando il settarismo unionista. Già la Brexit aveva contribuito negli anni scorsi a riattizzare il conflitto nord-irlandese: da una parte i repubblicani (tradizionalmente critici nei confronti dell’UE) che difendevano il “remain” (uscito vincitore nelle Sei Contee), dall’altra i lealisti partitari del “leave”. Il clima di rinnovata polarizzazione non ha però giovato alla destra filo-Londra.
La storica vittoria del Sinn Fein
Per la prima volta quello che da molti ancora viene percepito come il “braccio politico dell’IRA” si è piazzato in testa con il 29% dei voti. In 101 anni di storia del territorio nato dalla decisione dei colonizzatori britannici di tenere per sé le contee più industrializzate ed economicamente sviluppate dell’isola, dov’era concentrata la popolazione di origine britannica e di confessione protestante, i nazionalisti irlandesi sono stati i più votati, crescendo fino a 250 mila voti e dell’1,1% rispetto al 2017.
È stato però soprattutto il crollo del Partito Unionista Democratico – in piena crisi dopo aver cambiato tre leader nell’ultimo anno – a rendere più netta la vittoria dei repubblicani. Infatti il DUP si è fermato a 184.000 voti e al 21,33% (quasi il 7% in meno), ottenendo 25 seggi.
Il voto ha visto anche l’affermazione dei liberali centristi dell’Alliance Party (passati da 8 a 17 seggi) che rifiutano la divisione del panorama politico in due fronti contrapposti, e degli estremisti unionisti del TUV. Pur ottenendo un solo eletto a Stormont, la scissione di destra del DUP ha ottenuto il 7,6%, triplicando i voti rispetto al 2017. Il rafforzamento del Traditional Unionist Voice segnala una radicalizzazione di una parte dell’elettorato unionista che ha deciso di abbandonare il DUP, giudicato incredibilmente troppo arrendevole nei confronti dei repubblicani. Il TUV infatti è nato nel 2007 contestando l’accettazione da parte del DUP della collaborazione con i partiti irlandesi all’interno del governo delle Sei Contee e gli stessi Accordi del 1998. Ma entrambi i partiti hanno in realtà condotto la campagna elettorale all’insegna del “no” alla eventuale leadership repubblicana nel governo locale.
Lo Sinn Fein invece, come aveva già fatto negli anni scorsi ed anche nella Repubblica d’Irlanda – dove ha vinto le elezioni generali del 2020 col 24,5% – ha concentrato la campagna elettorale sui temi sociali ed economici – casa, lavoro, sanità, ambiente, giustizia sociale – trattati nel manifesto “Time for real change” – piuttosto che sullo scontro con gli unionisti, nell’intento di affermarsi come forza antisettaria appetibile anche per settori popolari non necessariamente nazionalisti. All’insegna di un “welfare nationalism” che sembra aver soppiantato i toni socialisti dei decenni scorsi e che guarda all’esperienza scozzese (anche se con un grado maggiore di radicalismo) i candidati repubblicani hanno insistito sulla riqualificazione del disastrato sistema sanitario promettendo lo stanziamento di alcune centinaia di milioni di sterline per ridurre le liste d’attesa, hanno denunciato l’aumento del costo degli alloggi e l’inflazione, lasciando in secondo piano le questioni legate all’unificazione irlandese che pure rimane un obiettivo a medio termine del SF.
La riunificazione
A fine maggio, infatti, la leader nordirlandese e quella nazionale del partito – Mary Lou McDonald – nel corso di una conferenza stampa realizzata a Londra hanno promesso che «L’unificazione dell’Irlanda ci sarà. Nel giro di dieci anni sarà possibile, con un referendum e un processo democratico inclusivo e moderato che riunirà i due territori e le comunità». In alcune dichiarazioni McDonald è stata anche più ottimista, parlando di un possibile referendum già tra cinque anni. In realtà la radicalizzazione del DUP e il rafforzamento del TUV – ai quali si sommano le minacce di alcuni gruppi paramilitari lealisti di tornare alla violenza armata – sembrano segnalare un contesto avverso alla normalizzazione. Anche l’indebolimento dei socialdemocratici sembra indicare che lo schieramento repubblicano, nonostante l’ascesa del Sinn Fein, non si stia rafforzando nel suo complesso.
Anche se l’ultimo censimento indica un aumento della popolazione irlandese/repubblicana/cattolica a scapito di quella unionista/protestante, tutti i sondaggi realizzati recentemente danno i favorevoli alla riunificazione, in Irlanda del Nord, sotto il 35% anche se cresce il numero di cittadini favorevoli ad una consultazione popolare.
Intanto i leader unionisti diffondono nella comunità protestante un sentimento di paura per la crescita elettorale del repubblicanesimo e accusano Londra di aver abbandonato i suoi fedeli sudditi nordirlandesi in pasto ai “feroci nazionalisti”. La diffusione di una sindrome dell’assedio, insieme alle mosse di Johnson, potrebbero avere conseguenze nefaste per la tenuta degli accordi del 1998. Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nord Africa. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale.
LINK E APPROFONDIMENTI:
https://www.liverpool.ac.uk/humanities-and-social-sciences/research/projects/irish-news-poll/
https://www.politico.eu/article/northern-ireland-election-2022-referendum-reunification-sinn-fein-dup-poll-results/
https://www.irishtimes.com/politics/2022/06/13/boris-johnson-to-introduce-protocol-override/
https://www.theguardian.com/uk-news/2022/jun/13/cbi-warns-uk-government-over-northern-ireland-protocol
https://www.irishtimes.com/politics/2022/06/13/protocol-override-would-breach-uks-commitments-under-international-law-coveney/