di Patrizia Zanelli*

Pagine Esteri, 8 maggio 2023 – Il 16 marzo del 1923 nasceva al Cairo l’Unione Femminista Egiziana (UFE), formata da donne dell’alta borghesia e del ceto medio, musulmane e cristiane, e presieduta da Hoda Shaarawi (Hudā Sha‘rāwī, 1879-1947). È la più famosa delle undici fondatrici della neonata organizzazione – la prima del genere nella storia del femminismo arabo –, fondata proprio in quella data, per ricordare la sua partecipazione alla Rivoluzione del 1919. Era infatti il quarto anniversario del giorno in cui la stessa Shaarawi, abituata a vivere nell’harem, era uscita di casa per guidare quasi trecento altre donne dell’alta borghesia in una marcia di protesta contro il protettorato britannico sull’Egitto, che durava dal 1882. La miccia dell’insurrezione popolare, esplosa il 9 marzo 1919, era stata la deportazione del parlamentare Saad Zaghlul (1858-1927) e di altri tre nazionalisti egiziani del neofondato Partito Wafd, ordinata dalle autorità coloniali.

Durante la marcia organizzata per l’appunto il 16 marzo di quell’anno, Shaarawi e le altre manifestanti erano completamente velate, secondo l’usanza ancora diffusa allora. Come spiega Margot Badran, in Feminists, Islam, and Nation [1], da secoli il velo, niqab, non era tanto un simbolo religioso quanto una tradizione patriarcale; lo portavano di fatto le musulmane, le cristiane e le ebree dei ceti medio-alti nelle città e nelle aree rurali. Lo indossavano anche le donne povere del proletariato urbano, che però erano più libere di muoversi proprio per ragioni economiche: non vivevano nell’harem, struttura tipica delle abitazioni signorili; uscivano di casa, per andare a lavorare e ottenere una retribuzione che serviva agli interessi degli uomini delle loro famiglie. Le contadine, invece, non lo portavano, perché incompatibile con il lavoro nei campi.

D’altro canto, nell’ambito del movimento di modernizzazione culturale, definito Nahḍa (Rinascita o Rinascimento), e talvolta Tanwīr (Illuminismo), sorto a metà Ottocento nell’area siro-libanese e in Egitto, si stava già cercando di abolire la segregazione femminile e l’uso del velo. Due proposte che rientravano nella promozione generale del potenziamento della posizione della donna nelle società arabe, visto come massimo indizio di modernità e passo fondamentale per la liberazione dalle tradizioni oscurantiste locali e dalla dominazione delle potenze imperialiste straniere dell’epoca.

Nel 1805, Muhammad Ali Pascià (1769-1849) aveva trasformato l’Egitto in una provincia autonoma dell’Impero Ottomano e poi avviato la modernizzazione del paese, destinato a diventare il centro della Nahḍa, anzitutto grazie all’introduzione della stampa moderna, nel 1820. Durante il regno dello stesso governatore o viceré, e precisamente nel 1832, fu aperto il primo istituto d’istruzione femminile; era specializzato nella formazione delle donne aiuto medico; le allieve appartenevano al ceto medio. Diverse scuole missionarie, soprattutto francesi e inglesi, per bambine furono istituite da allora in poi.

In quel periodo emerse la figura di un intellettuale modernista, considerato tra i principali promotori della parità di genere nel mondo arabo: Rifa‘a al-Tahtawi (1801-1873), pedagogo, scrittore e traduttore, pioniere della Nahḍa, che nel resoconto autobiografico, “Oro raffinato nel compendio di Parigi”, del 1834, esprime la propria ammirazione per lo stile di vita delle donne francesi, ritenendolo un modello di modernità da imitare e conforme ai principi dell’Islam. Fu anche il padre dell’egittologia moderna egiziana e della pedagogia faraonista; abbinò teorie egittologiche al geo-determinismo di Montesquieu per definire l’egizianità, diventando così il teorico primario del Faraonismo, forma di nazionalismo territoriale che assunse il passato faraonico come base per la definizione di un’identità nazionale in grado di unire una popolazione formata da una maggioranza musulmana, un’importante minoranza copto-cristiana e una piccola comunità ebraica. Nel suo ultimo libro, “La guida sicura per i ragazzi e le ragazze”, del 1872, al-Tahtawi riconosce a entrambi i sessi il diritto all’istruzione.

Altro pioniere della Nahḍa è il riformatore musulmano progressista Muhammad Abduh (1849-1905), che reinterpretò il racconto di Adamo ed Eva dell’Antico Testamento, confutando il dogma dell’inferiorità della donna, per smantellare i derivati pregiudizi sessisti. In qualità di mufti, emanò una serie di fatwa per promuovere la parità di genere, proponendo, solo per esempio, l’abrogazione della poligamia. Avendo lanciato la reinterpretazione modernista del Corano e delle altre fonti del diritto islamico, permise a uomini e donne appunto di reinterpretarle in tal senso.

Nasceranno discorsi filo-femministi maschili e femministi femminili. Gli uomini, nota Badran, partono da considerazioni astratte sull’arretrata condizione femminile, volte a spiegare l’arretratezza del loro paese. Le donne, invece, propongono riflessioni sulle proprie esperienze personali, per aiutare se stesse a vivere meglio ed emanciparsi. Badran rileva che l’avvocato copto Murqus Fahmi (1872-1955) imputava l’arretratezza dell’Egitto e della condizione femminile al sistema patriarcale, all’oppressione delle donne perpetrata dagli uomini delle loro famiglie, che le consideravano moralmente deboli e le segregavano in casa, col pretesto di difenderle dal disonore, per controllare non solo il loro onore ma anche il loro patrimonio. Ispirandosi a una tragedia avvenuta realmente, criticò duramente il patriarcato nell’opera teatrale “La donna dell’Est” (1894).

Abduh e Fahmi influenzeranno il giurista e scrittore Qasim Amin (1863-1908) che, in “La liberazione della donna” (1899) e “La nuova donna” (1900), denuncia l’arretratezza delle donne egiziane, considerando la loro condizione arretrata come un ostacolo al progresso della nazione. Le sue controverse teorie ‘femministe’, basate sul riformismo islamico e su argomentazioni secolari, sono ampiamente confutate, per esempio, da Leila Ahmed, in Women and Gender in Islam [2]. Secondo la studiosa, questo padre del ‘femminismo’ nazionale, abbagliato dall’ammirazione per la cultura occidentale, era un paternalista emulatore degli stereotipi sulle società musulmane inventati dal colonizzatore. Badran, invece, ricorda che Amin fu osteggiato da diversi conservatori suoi coevi per avere promosso l’abrogazione della poligamia, della segregazione femminile e dell’uso del velo, chiarendo che queste usanze non sono prescritte dall’Islam.

(foto di UN Women/Ryan Brown)

Nel frattempo, in seguito alla guerra civile interconfessionale esplosa nel Monte Libano, nel 1860, e diffusasi fino alla Siria, molti intellettuali libanesi e siriani, prevalentemente giornalisti cristiani, ma anche musulmani, sceglievano il Cairo o Alessandria come luogo d’esilio, unendo i loro sforzi di innovazione culturale a quelli egiziani.
Il femminismo arabo ha talune affinità con quello nato in Occidente e altrove nel mondo; nasce in ambienti borghesi, assumendo inizialmente la forma dell’associazionismo femminile filantropico. Per le donne il primo passo verso l’emancipazione è certamente l’istruzione; hanno bisogno di comunicare le loro idee, incontrandosi, o/e tramite la scrittura e la stampa. Le pioniere della Nahḍa iniziarono di fatto a pubblicare testi espressivi di una consapevolezza femminista poco dopo l’uscita dell’ultimo libro di al-Tahtawi, nel 1872. Le libanesi Maryam Nahhas (1856-1888) e Zaynab Fawwaz (1860-1914), entrambe immigrate in Egitto, e precisamente ad Alessandria, pubblicarono rispettivamente nel 1879 e nel 1894, i primi dizionari biografici di donne, compilati per dimostrare, spiega Badran, le loro capacità di svolgere un ruolo pubblico importante. Altra pioniera è l’aristocratica egiziana di origini turco-circasse, Aisha Esmat al-Taymuriyya (1840-1902), poetessa e scrittrice che per i suoi scritti coraggiosi è considerata la vera madre del femminismo arabo; in “Le conseguenze delle circostanze in parole e fatti” (1887), definisce l’harem come “una caverna di isolamento” e rivela di avere desiderato sin da bambina di imparare a leggere e scrivere, e non a ricamare. Nel libretto di 16 pagine, “Specchio contemplativo su alcune cose” (1892), invece, l’autrice reinterpreta il Corano, suggerendo che il Libro Sacro dell’Islam fosse meno patriarcale di quanto sostenuto dal conservatorismo islamico.

In seguito all’invasione britannica dell’Egitto del 1882, il femminismo si legò di più al nazionalismo, il che risultò in formulazioni espressive di una ricerca di affermazione dell’egizianità. Costretta dal marito poligamo a vivere a lungo isolata a casa sua nell’oasi del Fayyum, Malak Hifni Nasif (1886-1918), ex-docente di scuola e conferenziera universitaria del Cairo, combina anticolonialismo e anti-patriarcato nei suoi saggi e articoli, improntati al modernismo musulmano, pubblicati nel quotidiano al-Jarīda (Il giornale) e poi raccolti nel libro “Pezzi femministi” (1909). Benché riconoscesse i passi in avanti compiuti dalle donne europee, metteva in guardia dall’imitarle ciecamente, indicando le contadine egiziane non velate come un modello autoctono a cui ispirarsi. Nasif trovava inoltre conforto, tenendo una fitta corrispondenza con un’altra figura importante per il femminismo arabo, Mayy Ziyada (1886-1941), poetessa e scrittrice, nata a Nazareth da madre palestinese cristiana greco-ortodossa e padre libanese maronita, ma vissuta quasi sempre al Cairo, dove creò, nel 1912, un salone letterario frequentato da intellettuali di varia provenienza. La pedagoga e saggista Nabawiyya Musa (1886-1951) – futura attivista famosa dell’UFE –, invece, apparteneva a una famiglia musulmana del ceto medio della città di Zagazig; visse però sin dall’infanzia ad Alessandria. Dovette lottare strenuamente contro le convenzioni sociali conservatrici dell’epoca, per completare gli studi; fu la prima egiziana a ottenere un diploma d’istruzione superiore, nel 1908, ma non poté accedere all’università (accesso che sarebbe rimasto precluso alle donne fino al 1929). Divenuta una docente di scuola sempre ad Alessandria, nel 1909, smise di portare il niqab; per lei, lo stile di vita delle contadine egiziane che vivevano in simbiosi con i mariti era il modello da imitare.

Nell’autobiografia, “Le mie memorie”, pubblicata postuma in arabo nel 1981 e tradotta in inglese col titolo Harem Years: the Memoirs of an Egyptian Feminist [3], Shaarawi ricorda che sin dall’inizio della Rivoluzione del 1919 le donne avevano creato delle bandiere speciali, cucendo sul tessuto verde una mezzaluna che abbraccia una croce. Era un nuovo simbolo dell’unità nazionale egiziana, nato in risposta alla classica strategia divide et impera adottata dalle autorità britanniche, che cercavano di fomentare la guerra civile, asserendo che, in Egitto, la maggioranza musulmana stesse lottando contro le minoranze religiose. Furono soprattutto i copti, ricorda Shaarawi, a indignarsi per questa calunnia pericolosa per il movimento nazionalista e, perciò, subito smentita da varie dimostrazioni popolari di solidarietà interreligiosa: “Gli egiziani si riunivano nelle moschee, nelle chiese e nelle sinagoghe; imam camminavano a braccetto con preti e rabbini”.

Allora si era diffuso il Faraonismo, e molte femministe vedevano lo status sociale goduto dalle egizie come un modello autoctono a cui ispirarsi per il progresso del loro paese. Il pittore Muhammad Nagi (1888-1956) commemorò subito la Rivoluzione del 1919, nel dipinto faraonista, “La rinascita dell’Egitto”, in cui la nazione egiziana è simboleggiata da Iside.

Nel mondo arabo, in generale, femminismo e nazionalismo sono strettamente legati da sempre; ma le rivendicazioni femministe spesso rimangono in secondo piano rispetto alle cause nazionali. La situazione però varia da un paese all’altro. Un caso significativo è l’Algeria, dove, durante la lunga dominazione coloniale francese (1830-1960), i colonizzatori imposero un aggressivo processo di acculturazione ossia di francesizzazione. Il niqab, spiega Badran, divenne un simbolo identitario della cultura autoctona, e difenderlo una forma di resistenza anticolonialista. Le donne algerine lo portavano, privilegiando la lotta nazionalista alla loro emancipazione dal patriarcato. In Egitto, la situazione era diversa; il colonialismo britannico era soprattutto economico e non intaccò più di tanto la cultura autoctona. L’élite egiziana era in effetti francofona, e la scelta della francofonia una forma di resistenza culturale contro i colonizzatori inglesi. Nei primi due decenni del Novecento, le femministe continuarono a portare il niqab, non per la causa nazionale, bensì per ragioni tattiche; lo usavano come strumento per aiutare se stesse e altre donne dell’alta borghesia e del ceto medio ad agire nella società.

È per questo che Shaarawi, nel 1913, convinse l’allora quindicenne Sayza Nabarawi (1897-1987) – futura attivista dell’UFE e giornalista famosa – a indossare il velo, che si rifiutava di mettere, perché, avendo trascorso buona parte dell’infanzia a Parigi, non riusciva ad adattarsi allo stile di vita conservatore egiziano. Iniziò così a fare da mentore alla giovane, nipote e di fatto figlia adottiva di una sua amica che le aveva chiesto di aiutarla, sapendo che era una donna eloquente e aperta alla cultura occidentale. Shaarawi (nata Nur al-Hoda Sultan) era già madre di Bahna e di Muhammad; aveva maturato la propria consapevolezza femminista, al Cairo, dopo avere ottenuto nel 1892 il divorzio dal marito, l’allora cinquantatreenne Ali Shaarawi, che lei tredicenne era appena stata costretta a sposare; poi lo aveva risposato nel 1899. In quei sette anni di separazione, infatti, mentre continuava a studiare il Corano, l’arabo, l’inglese e il francese a casa, riceveva ospiti egiziane ed europee. Quindi, nonostante fosse vissuta nell’harem sin da quand’era nata, aveva una mentalità cosmopolita, nonché le capacità comunicative di una leader carismatica. Era inoltre una filantropa, fondatrice di un dispensario per donne povere e di una scuola per bambine, che aveva creato perché studiassero materie letterarie e scientifiche, non economia domestica. Per lei, il velo era il simbolo della segregazione femminile, ma bisognava smettere di portarlo, quando la società egiziana sarebbe stata pronta per un tale cambiamento, perché divenisse capillare.

Ci sono altri fatti storici legati alla nascita dell’UFE e quindi alla biografia di Shaarawi da ricordare. Nel novembre del 1918, suo marito era tra i fondatori e dirigenti del Wafd. Il 12 gennaio 1920, nacque il Comitato Centrale delle Donne Wafdiste (CCDW), formato da molte delle partecipanti alla marcia anticolonialista del 1919. Shaarawi ne fu eletta la presidente; lei e le altre attiviste non intendevano soltanto seguire l’agenda nazionalista del partito; volevano che la liberazione nazionale fosse accompagnata dall’emancipazione femminile. Su pressione dei rivoluzionari, il 22 febbraio del 1922, Londra rilasciò la Dichiarazione Unilaterale d’Indipendenza dell’Egitto, un atto puramente formale; il paese rimase sotto occupazione britannica. Nello stesso mese morì il marito di Shaarawi, che quindi sarà più libera di muoversi. Le condizioni poste dall’Inghilterra, accettate dal governo egiziano, non soddisfacevano il Wafd né il CCDW; volevano la piena indipendenza del paese; quindi, decisero di continuare la disobbedienza civica anche per promuovere le loro riforme sociali, che includevano la garanzia della parità di genere e l’abbandono del velo. Per mobilitare la società civile ritennero necessario formare un’associazione indipendente dal partito; fu perciò che le Wafdiste fondarono l’UFE nel marzo 1923. Il mese successivo fu varata la nuova Costituzione egiziana, che prevedeva pari diritti per tutti i cittadini, ma questa parità fu violata da lì a poco dalla legge elettorale che escludeva le donne dal diritto di voto.

Shaarawi, ormai vedova, Nabawiyya Musa e Sayza Nabarawi, altrettanto libere di muoversi perché nubili, partiranno in nave da Alessandria per andare in Italia a rappresentare l’Egitto al IX congresso dell’Alleanza Internazionale Pro Suffragio Femminile, nota come International Alliance of Women (IAW), organizzato a Roma, dal 12 al 19 maggio del 1923, il primo a ospitare delegazioni non provenienti dall’Occidente. Durante il soggiorno romano, le tre femministe egiziane, che erano sempre a volto scoperto, rimasero un po’ deluse dei lavori dei convegno, perché le sorelle americane ed europee si atteggiavano a salvatrici del Terzo Mondo, trattavano tutte le altre da pari soltanto per il loro genere, mostravano solidarietà femminile, ma si rifiutarono di condannare il colonialismo, pur sapendo che affliggeva soprattutto le donne dei paesi colonizzati. In sostanza, afferma Badran, l’imperialismo occidentale si rifletteva perfino nella sorellanza internazionale. In Occidente, inoltre, era il periodo dell’orientalismo e, in Italia, del fascismo; nei giornali italiani le fotografie di Shaarawi, che era a capo della delegazione egiziana, erano accompagnate da didascalie come “L’Oriente al Congresso Femminile” o “La femminilità musulmana”. Nessuna dicitura etnicista accompagnava le immagini delle rappresenti occidentali.

Al congresso partecipò per la prima volta anche l’Unione delle Donne Ebree della Palestina (sotto mandato britannico dal 1920), affiliata al sionismo internazionale, appena fondata a Tel Aviv, e che chiaramente escludeva le palestinesi autoctone. Nessun altro paese arabo, sottolinea Badran, aveva e avrebbe mai dovuto affrontare una simile duplice battaglia per l’indipendenza dal colonialismo e per la stessa sopravvivenza nazionale. Alcune palestinesi musulmane e cristiane di Gerusalemme, inoltre, avevano già fondato, nel 1920, l’Unione delle Donne della Palestina. Nello stesso anno avevano anche iniziato il loro attivismo nazionalista pubblico, partecipando a una manifestazione contro la minaccia sionista e il mandato britannico. A partire dal 1936, inizio della Grande Rivolta, nota sempre Badran, la difesa della Palestina sarà una delle principali missioni dell’UFE e del femminismo panarabo; le femministe egiziane, in coordinamento con le palestinesi, porteranno la questione all’attenzione delle associazioni pacifiste internazionali e della Lega delle Nazioni.

Per quanto riguarda i fatti del 1923, in Casting off the Veil [4], Sania Sharawi Lanfranchi, ricordando l’esperienza di vita di sua nonna Hoda, spiega che, alla fine dello stesso congresso IAW, Nabawiyya Musa rientrò subito in Egitto per preparare l’accoglienza delle altre due compagne attiviste, che poco dopo fecero insieme il viaggio di ritorno fino al Cairo. Mentre erano a bordo della nave, diretta ad Alessandra, affrontarono la questione del velo; Sayza aprì il discorso dicendo di non volerlo più indossare. Hoda, che si era ripromessa di liberarsene, concordò con la giovane amica, ritenendo che fosse giunto il momento opportuno per farlo. Poiché a Roma erano state sempre a volto scoperto, velarsi di nuovo, sarebbe stato un atto d’ipocrisia e di codardia, pensarono entrambe. Sarebbe stato un passo indietro per la loro causa femminista. Nabawiyya Musa aveva infatti informato la stampa del ritorno delle due attiviste dell’UFE in modo tale da renderlo un evento mediatico, perché ottenesse il massimo della pubblicità. Quindi, alla fine del viaggio, arrivate alla stazione centrale del Cairo, Hoda e Sayza scesero dal treno a volto scoperto: “Furono accolte da un momento di silenzio attonito, dopo il quale tutte le donne del loro circolo, che erano in attesa di accoglierle, si tolsero il velo. Fu una scena magnifica che in futuro sarebbe stata sempre raccontata con entusiasmo da coloro che l’avevano vista”, conclude Lanfranchi.

Proprio grazie alla copertura mediatica dell’evento, quel gesto coraggioso ispirerà molte altre donne del mondo arabo. Al rientro dall’esilio, nel settembre 1923, Zaghlul era a bordo della stessa nave su cui si trovava Shaarawi; il leader del Wafd era con la moglie, Safiya, che, vedendo l’amica a volto scoperto, si tolse il niqab prima di sbarcare ad Alessandria appunto accanto al marito, un eroe nazionale; fu un’ulteriore scelta ispiratrice. Verso la metà degli anni ’40, infatti, in Egitto e altri paesi arabi, nessuno tipo di velo si sarebbe quasi più usato; le donne studiavano all’università, lavoravano in vari settori; alcune erano accademiche e/o attiviste.
Hoda Shaarawi talvolta indossava l’hijab e talaltra non si copriva neppure la testa; continuerà l’attivismo; ma morirà, nel 1947, senza avere avuto la possibilità di votare. Con la Rivoluzione del 1952, di fatto un coup militare, l’Egitto da monarchia ereditaria diventerà una repubblica e raggiungerà la piena indipendenza dall’Inghilterra. Le donne egiziane otterranno finalmente il diritto di voto soltanto nel 1956, in base alla nuova Costituzione promulgata da Gamal Abdel Nasser (1918-1970). Dopo la morte del leader carismatico, simbolo del socialismo arabo, del panarabismo e del terzomondismo, però dittatore, il suo altrettanto autoritario successore, Anwar Sadat (1918-1981), islamista, neoliberista e filo-americano, con un passato filonazista, cercò subito di cambiare il volto dell’Egitto, dove, appunto negli anni ’70, insieme all’impoverimento del ceto medio, iniziò il ritorno del velo.

Questa è un’altra lunga storia, ma riassumibile, riferendo un concetto spesso ribadito da accademiche e altre intellettuali femministe internazionali, musulmane e non: le guerre e le forme subdole di colonialismo dell’era post-coloniale, nei paesi islamici, hanno avuto e continuano ad avere gravi conseguenze sociali, come sempre e ovunque nel mondo, soprattutto per le donne.

NOTE
[1] Margot Badran, Feminists, Islam, and Nation. Gender and the Making of Modern Egypt, American University in Cairo Press, 1996.
[2] Leila Ahmed, Women and Gender in Islam, Yale University Press, 1992.
[3] Hoda Shaarawi, Harem Years. The Memoirs of an Egyptian Feminist. Translated and Introduced by Margot Badran, American University in Cairo Press, 1986.
[4] Sania Sharawi Lanfranchi, Casting off the Veil. The Life of Hoda Shaarawi, Egypt’s First Feminist, Tauris, 2012/A volto scoperto. La vita di Huda Shaarawi, prima femminista d’Egitto, Rowayat, 2018.

*Patrizia Zanelli insegna Lingua e Letteratura Araba all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È socia dell’EURAMAL (European Association for Modern Arabic Literature). Ha scritto L’arabo colloquiale egiziano (Cafoscarina, 2016); ed è coautrice con Paolo Branca e Barbara De Poli di Il sorriso della mezzaluna: satira, ironia e umorismo nella cultura araba (Carocci, 2011). Ha tradotto diverse opere letterarie, tra cui i romanzi Memorie di una gallina (Ipocan, 2021) dello scrittore palestinese Isḥāq Mūsà al-Ḥusaynī, e Atyàf: Fantasmi dell’Egitto e della Palestina (Ilisso, 2008) della scrittrice egiziana Radwa Ashur, e la raccolta poetica Tūnis al-ān wa hunā – Diario della Rivoluzione (Lushir, 2011) del poeta tunisino Mohammed Sgaier Awlad Ahmad. Ha curato con Sobhi Boustani, Rasheed El-Enany e Monica Ruocco il volume Fiction and History: the Rebirth of the Historical Novel in Arabic. Proceedings of the 13th EURAMAL Conference, 28 May-1 June 2018, Naples/Italy (Ipocan, 2022).