della redazione
Pagine Esteri, 11 maggio 2023 – Nel giorno del primo anniversario dell’uccisione a Jenin della giornalista di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh, colpita da fuoco israeliano, il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ) accusa Israele di non aver indagato adeguatamente sull’uccisione attribuita alle sue forze armate di almeno 20 giornalisti dal 2001, in prevalenza palestinesi. Secondo il CPJ la morte dei giornalisti e le indagini insufficienti costituiscono una “grave minaccia alla libertà di stampa”.
Nel caso di Abu Akleh, colpita alla testa durante un raid israeliano nel campo profughi di Jenin, il rapporto del CPJ rileva che “finora nessuno è stato ritenuto responsabile” della sua morte, aggiungendo che l’uccisione dela giornalista “non è stata un evento isolato”. Il Comitato aggiunge che dal 2001, 18 palestinesi e due giornalisti europei – uno italiano (Raffaele Ciriello) e uno britannico – sono stati uccisi dal fuoco militare israeliano e nessuno è mai stato rinviato a giudizio.
“Il grado con cui Israele indaga sugli omicidi di giornalisti dipende in gran parte dalla pressione esterna. Ci sono state indagini superficiali sulla morte di giornalisti con passaporti stranieri, ma questo è raramente accaduto per i giornalisti palestinesi uccisi. Alla fine, nessuno ha visto alcuna parvenza di giustizia”, denuncia Sherif Mansour, coordinatore del CPJ per il Medio Oriente.
Il portavoce dell’Esercito israeliano ha risposto all’accusa sostenendo che le sue forze non hanno preso di mira di proposito i giornalisti uccisi che erano presenti durante “manifestazioni violente” o “attacchi armati”. Ha aggiunto che queste uccisioni sono state indagate regolarmente.
Dal 2014 nelle forze armate israeliane esisterebbe un sistema di “valutazioni conoscitive dei fatti” sulle morti dei civili che possono trasformarsi in un’indagine penale da parte dell’avvocato generale militare. Ma nei nove anni da quando il sistema è stato istituito, nessun caso riguardante la morte di un giornalista è arrivato a un procedimento penale e nessun soldato è mai stato ritenuto responsabile.
Oltre a quello di Shireen Abu Akleh il rapporto cita in particolare le uccisioni del video giornalista palestinese Yasser Murtaja e del giornalista freelance Ahmed Abu Hussein, entrambi colpiti da cecchini israeliani in incidenti separati mentre coprivano le proteste palestinesi presso la recinzione di Gaza nel 2018. Il sindacato dei giornalisti palestinesi all’epoca accusò Israele di averli presi di mira “deliberatamente”.
L’esercito israeliano ha replicato che i due giornalisti erano “presumibilmente presenti sulla scena di violenti disordini” e “non è stato riscontrato alcun sospetto che giustificherebbe l’apertura di un’indagine penale” nei confronti dei soldati.
Nel caso di Murtaja, il CPJ afferma che l’allora ministro della difesa israeliano Avigdor Liberman passò settimane “cercando di screditare il giornalista” affermando che era un membro dell’ala armata del gruppo militante Hamas, senza presentare alcuna prova.
Nel caso di Abu Hussein, attivisti per i diritti umani presentarono una richiesta di indagine sulla sua morte. Ma l’Esercito israeliano ha chiuso il caso due anni dopo senza interrogare alcun testimone, affermando che non vi è stato alcun intento criminale da parte dei suoi soldati.
Secondo il diritto internazionale, l’uso di armi da fuoco da parte delle forze di sicurezza contro i civili è definito come una misura di ultima istanza e può avvenire solo per fermare una “minaccia imminente di morte o lesioni gravi”. Pagine Esteri