di Michelangelo Cocco*

Pagine Esteri, 7 luglio 2023– Almeno 3.000 miliardi di dollari andrebbero subito in fumo se i paesi del G7 sanzionassero la Cina in caso di crisi su Taiwan. L’economia globale perderebbe una cifra equivalente al Pil del Regno Unito nel 2022. Il dato è al centro di una ricerca congiunta pubblicata da Atlantic Council e Rhodium Group, Sanctioning China in a Taiwan Crisis, Scenarios and Risks. Lo studio del think tank con sede a Washington che si occupa di «stimolare la leadership degli Stati Uniti nel mondo» e del centro di ricerca con focus sul settore privato in Cina muove da un confronto in corso tra policymaker e aziende dei sette paesi pesi più avanzati (ufficialmente non se ne parla all’interno dei governi). Tuttavia queste discussioni rivelano che un’ennesima crisi dello Stretto (sarebbe la quarta, dopo quelle del 1954-55, 1958 e 1995-96) rappresenta uno scenario tutt’altro che fantapolitico.

Secondo il rapporto, il coordinamento costante tra funzionari statunitensi ed europei ha evidenziato che «l’invasione russa dell’Ucraina ha rimodellato i contorni di ciò che era possibile nel regno della politica economica».

Quando parliamo di “crisi” intendiamo non solo uno scontro militare, ma anche altri due scenari, che a Taipei ritengono più probabili: un blocco dell’Isola da parte della marina e dell’aviazione cinese, e/o un grande attacco informatico contro le sue infrastrutture. Entrambi metterebbero in ginocchio l’economia di Taiwan, fortemente dipendente dall’export.

Prima di esaminare i risultati del paper, è importante riflettere sulle sue conclusioni. Secondo Atlantic Council e Rhodium Group, contro queste eventuali mosse di Pechino le contromisure economiche non basterebbero: esse sono «complementari, piuttosto che sostitutive, degli strumenti militari e diplomatici per mantenere la pace e la stabilità nello Stretto di Taiwan». Tuttavia a chi abbia analizzato l’ascesa di Xi Jinping e la riorganizzazione alla quale ha sottoposto negli ultimi dieci anni il partito e l’esercito appare evidente che nella “Nuova era” proclamata dal presidente cinese la questione taiwanese ha assunto una rinnovata centralità. In questo quadro, nessuna pressione militare e diplomatica potranno far recedere Pechino dalla “riunificazione” del territorio che considera una provincia ribelle. Pertanto, ciò che servirebbe con urgenza è una soluzione politica, basata su un nuovo accordo complessivo tra la potenza egemone e quella in ascesa.

Al contrario, si studiano le sanzioni, che colpirebbero tre ambiti principali: le banche (divieto di utilizzare il sistema SWIFT; limitazioni delle transazioni; mercato internazionale precluso ai titoli di debito cinesi); le élite politiche e militari (blocco dei beni e restrizioni ai visti); le compagnie legate all’esercito (restrizioni al commercio e agli investimenti; su obbligazioni e azioni; controlli sull’export).

Tuttavia, date le dimensioni (dieci volte quella russa) e i legami dell’economia cinese, per i governi del G7 sarebbe molto più difficile approvarle rispetto alle punizioni contro Mosca per l’invasione dell’Ucraina. I due think tank evidenziano «gli interessi nazionali differenti, la diversa disponibilità a sopportare le ripercussioni economiche e le sfaccettature uniche delle loro relazioni con Washington». In effetti, se al Congresso Usa è già stato introdotto (il 29 marzo scorso) un progetto di legge ad hoc (lo “STAND with Taiwan Act”) per sanzionare la Cina se «l’Esercito popolare di liberazione avvia un’invasione di Taiwan», il presidente francese, Emmanuel Macron, pochi giorni dopo (il 9 aprile), ha avvertito in un’intervista a Politico che «la cosa peggiore sarebbe pensare che noi europei su questa questione (Taiwan, ndr) dobbiamo seguire l’agenda degli Stati Uniti e una reazione eccessiva cinese». Per Washington Taiwan rappresenta una questione di sicurezza nazionale, per le capitali europee no. Le divergenze politiche riflettono quelle dell’opinione pubblica, con l’83 per cento degli statunitensi che ha un’idea “negativa” della Cina (Pew Research Center, aprile 2023), mentre il 62 per cento degli europei vorrebbe rimanere neurale in caso di conflitto tra Cina e Stati Uniti su Taiwan (European Council on Foreign Relations, giugno 2023).

Shanghai

Anche se l’ultimo vertice, a Hiroshima, ha ostentato unità sulla Cina, raggiungere un accordo tra i paesi del G7 per applicare eventuali sanzioni contro Pechino richiederebbe tempo e difficili compromessi. Un embargo contro la Cina equivarrebbe secondo alcuni alla “distruzione reciproca assicurata” immaginata in caso di impiego in guerra degli ordigni nucleari. Si tratta certamente di un’iperbole: in realtà quella delle punizioni e delle rappresaglie è una strada che Stati Uniti, Unione Europea e Cina hanno imboccato già da qualche tempo. Con il dialogo politico che si è fatto difficile e intermittente, avanzano le sanzioni. Come, ad esempio, quelle varate il 22 marzo 2021 da Bruxelles (in base al nuovo EU Global Human Rights Sanctions Regime) contro quattro funzionari e un’entità cinese per la repressione dei musulmani nella provincia del Xinjiang, reciprocate il giorno stesso da Pechino – uno scontro che ha contribuito alla sospensione del Comprehensive Agreement on Investiment (Cai) negoziato per sette anni tra la Cina e l’Ue. Oppure le tre compagnie cinesi (di Hong Kong) colpite, per la prima volta, da un pacchetto di sanzioni dell’Ue sulla guerra in Ucraina, l’undicesimo, approvato il 21 giugno scorso (Asia Pacific Links Ltd; Tordan Industry Limited; Alpha Trading Investments Limited) per il loro contributo finanziario o tecnologico allo sforzo bellico russoL’esposizione del sistema finanziario globale nei confronti di quello cinese è relativa soprattutto ai flussi commerciali internazionali: le banche cinesi mantengono conti (in dollari e in euro) presso istituti di credito internazionali per facilitare i pagamenti cross border. Stando così le cose, il G7 avrebbe due opzioni: sanzionare solo alcune banche con legami con il settore militare e tecnologico, senza alcun impatto sostanziale sui flussi finanziari complessivi del paese, oppure colpire le grandi banche di stato, causando i succitati 3.000 miliardi di ammanco al commercio e agli investimenti globali.

Punire alti funzionari del governo e dell’Esercito popolare di liberazione rappresenta invece un’eventualità alla quale i soggetti presi di mira si sono già preparati, rendendo molto complicato identificare i loro patrimoni detenuti all’estero.

C’è infine il controllo sulle esportazioni di componenti chiave, che potrebbe avere anch’esso un effetto boomerang sui paesi del G7. Prendiamo ad esempio il settore aerospaziale, predestinato alle sanzioni in caso di scontro su Taiwan. Sarebbero interessati 2,2 miliardi di dollari di export dei paesi del G7 verso la Cina, la quale potrebbe mettere in campo una rappresaglia da 33 miliardi di dollari, attraverso il blocco dell’acquisto di aerei e componenti dai paesi più avanzati.

Col ricorso sempre maggiore alle sanzioni contro la Cina, il governo di Pechino ha iniziato ad affinare gli strumenti per contrastarle. Anzitutto spingendo i paesi amici a utilizzare la sua divisa, in luogo del dollaro, nei commerci bilaterali. Lo yuan – che rappresenta tuttora una percentuale trascurabile delle riserve valutarie internazionali, il 2,7% – è sempre più utilizzato da paesi come Argentina, Brasile, oltre alla Russia, che hanno firmato con Pechino accordi ad hoc per regolare in yuan i loro commerci con la Cina.

In conseguenza di questo cambiamento, a marzo le banconote con l’effigie di Mao (48,4 per cento) hanno superato il biglietto verde (46,7 per cento), diventando la valuta più utilizzata dalla seconda economia del pianeta nei suoi scambi con l’estero. Non solo, a Pechino ritengono che in futuro lo yuan potrà essere impiegato sempre di più nelle transazioni tra paesi terzi, proprio in risposta a quella che stigmatizzano come l’“utilizzo del dollaro come arma” da parte degli Stati Uniti che i paesi non allineati stanno osservando contro la Russia (espulsa dal sistema interbancario SWIFT) e la Cina.

In secondo luogo Pechino sta spingendo per la promozione a livello globale del CIPS. L’alternativa “made in China” allo SWIFT, lanciata nel 2015 dalla Banca centrale, nel 2022 ha “processato” transazioni pari a 96.700 miliardi di yuan (oltre 14.000 miliardi di dollari) con 1.420 istituzioni finanziarie connesse in 109 paesi e regioni del mondo. Il sud del mondo ha iniziato a vedere sempre più il CIPS come una alternativa al CHIPS (utilizzato per le grandi transazioni, in dollari) proprio in seguito alle sanzioni imposte contro la Russia. Infine, la Cina sta sperimentando anche lo yuan digitale (e-CNY), che l’anno scorso è stato il gettone digitale (token) più utilizzato nelle transazioni internazionali. Pagine Esteri

*Questo articolo è stato pubblicato in origine da Rassegna Cina, del Centro Studi sulla Cina Contemporanea