di Joshua Frank* – 

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RESPONSIBLE STATECRAFT

(Traduzione a cura di Federica Riccardi) –

Pagine Esteri, 15 gennaio 2024. Su una pittoresca spiaggia nel centro di Gaza, un miglio a nord del campo profughi di Al-Shati, ormai ridotto in macerie, lunghi tubi neri serpeggiano tra colline di sabbia bianca prima di scomparire nel sottosuolo. Un’immagine rilasciata dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF) mostra decine di soldati che posano condotte e quelle che sembrano essere stazioni di pompaggio mobili che devono prelevare l’acqua dal Mar Mediterraneo e convogliarla in tunnel sotterranei. Il piano, secondo vari rapporti, è quello di allagare la vasta rete di pozzi e tunnel sotterranei che Hamas avrebbe costruito e utilizzato per condurre le sue operazioni.

“Non parlerò dei dettagli, ma includono esplosivi e altri mezzi per distruggere i tunnel e impedire agli operatividi Hamas di usarli per danneggiare i nostri soldati”, ha detto il capo di Stato Maggiore dell’IDF, il tenente generale Herzi Halevi. “Qualsiasi mezzo che ci dia un vantaggio sul nemico che [usa i tunnel], privandolo di questa risorsa, è un mezzo che stiamo valutando. È una buona idea…”

Sebbene Israele stia già sperimentando la sua strategia di inondazione, non è la prima volta che i tunnel di Hamas sono sabotati con l’acqua del mare. Nel 2013, il vicino Egitto ha iniziato a inondare i tunnel controllati da Hamas, che sarebbero stati usati per contrabbandare merci tra la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza. Per più di due anni, l’acqua del Mediterraneo è stata riversata nel sistema di tunnel, causando danni ambientali a Gaza. Le falde acquifere sono state rapidamente inquinate dalla salamoia salina e, di conseguenza, la terra è diventata satura e instabile, causando il crollo del suolo e uccidendo numerose persone. I campi agricoli, un tempo fertili, sono stati trasformati in pozzi di fango salato e l’acqua potabile, che già scarseggiava a Gaza, è stata ulteriormente degradata.

L’attuale strategia di Israele per inondare i tunnel di Hamas causerà senza dubbio danni simili e irreparabili. “È importante tenere presente”, avverte Juliane Schillinger, una ricercatrice dell’Università di Twente nei Paesi Bassi, “che non stiamo parlando solo di acqua ad alto contenuto salino: l’acqua di mare lungo la costa mediterranea è anche inquinata da acque reflue non trattate, che vengono continuamente scaricate nel Mediterraneo dal disfunzionale sistema fognario di Gaza”.

Questo, ovviamente, sembra essere parte di un obiettivo israeliano più ampio: non solo smantellare le capacità militari di Hamas, ma anche degradare e distruggere ulteriormente le già minacciate falde acquifere di Gaza (inquinate dalle acque reflue che fuoriescono da tubature fatiscenti). I funzionari israeliani hanno ammesso apertamente che il loro obiettivo è di assicurare che Gaza sia un luogo invivibile una volta terminata la loro spietata campagna militare.

“Stiamo combattendo contro animali umani e stiamo agendo di conseguenza”, ha dichiarato il ministro della Difesa Yoav Gallant poco dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre. “Elimineremo tutto – se ne pentiranno”.

E Israele sta mantenendo la sua promessa.

Come se non bastassero i bombardamenti indiscriminati, che hanno già danneggiato o distrutto fino al 70% delle case di Gaza, l’inondazione di questi tunnel con acqua inquinata farà sì che anche alcuni degli edifici residenziali rimasti soffriranno di problemi strutturali. E se il terreno è debole e malfermo, i palestinesi avranno difficoltà a ricostruire.

L’allagamento dei tunnel con acque sotterranee inquinate “causerà un accumulo di sale e il crollo del suolo, portando alla demolizione di migliaia di case palestinesi nella striscia densamente popolata”, afferma Abdel-Rahman al-Tamimi, direttore del Palestinian Hydrologists Group, la più grande ONG che monitora l’inquinamento nei territori palestinesi. La sua conclusione non potrebbe essere più sconvolgente: “La Striscia di Gaza diventerà un’area spopolata e ci vorranno circa 100 anni per liberarsi degli effetti ambientali di questa guerra”.

In altre parole, come sottolinea al-Tamimi, Israele sta ora “uccidendo l’ambiente”. E per molti versi, tutto è iniziato con la distruzione dei rigogliosi uliveti della Palestina.

Non ci sono più olive

In un anno normale, Gaza produceva più di 5.000 tonnellate di olio d’oliva da oltre 40.000 alberi. Il raccolto autunnale di ottobre e novembre è stato a lungo una stagione di festa per migliaia di palestinesi. Famiglie e amici cantavano, condividevano i pasti e si riunivano negli uliveti per festeggiare sotto gli antichi alberi, che simboleggiavano “pace, speranza e sostentamento”. È stata una tradizione importante, un legame profondo con la terra e una risorsa economica vitale. L’anno scorso, le coltivazioni di olive hanno rappresentato più del 10% dell’economia gazawi, per un totale di 30 milioni di dollari.

Naturalmente, dal 7 ottobre, la raccolta è cessata. Le tattiche di terra bruciata di Israele hanno invece causato la distruzione di innumerevoli uliveti. Le immagini satellitari diffuse all’inizio di dicembre attestano che il 22% della terra agricola di Gaza, compresi innumerevoli uliveti, è stato completamente distrutto.

“Siamo affranti per le nostre coltivazioni, che non possiamo raggiungere”, spiega Ahmed Qudeih, un agricoltore di Khuza, una città nel sud della Striscia di Gaza. “Non possiamo irrigare, osservare la nostra terra o prendercene cura. Dopo ogni guerra devastante, paghiamo migliaia di shekel per garantire la qualità dei nostri raccolti e per rendere il nostro terreno nuovamente adatto all’agricoltura”.

L’implacabile attacco militare di Israele a Gaza ha comportato un tributo insostenibile di vite umane (più di 22.000 morti, tra cui un numero significativo di donne e bambini, e altre migliaia di corpi che si ritiene siano sepolti sotto le macerie e che quindi non possono essere contati). E considerate quest’ultima serie di orrori solo una continuazione particolarmente cupa di una campagna di 75 anni di annientamento del patrimonio culturale palestinese. Dal 1967, Israele ha sradicato più di 800.000 ulivi palestinesi, a volte per far posto a nuovi insediamenti ebraici illegali in Cisgiordania; in altri casi, per presunti problemi di sicurezza o per pura e viscerale rabbia sionista.

Gli uliveti selvatici sono stati sfruttati dagli abitanti della regione per migliaia di anni, a partire dal periodo Calcolitico nel Levante (4.300-3.300 a.C.), e il loro abbattimento ha avuto conseguenze ambientali disastrose. “Secondo un rapporto della Yale Review of International Studies del 2023, la rimozione degli alberi è direttamente collegata a cambiamenti climatici irreversibili, all’erosione del suolo e alla riduzione dei raccolti. “La corteccia legnosa e perenne funge da serbatoio di carbonio… Un ulivo assorbe 11 kg di CO2 per ogni litro di olio d’oliva prodotto”.

Oltre a rappresentare un valore economico e culturale, gli uliveti sono vitali per l’ecosistema della Palestina. Numerose specie di uccelli, tra cui la ghiandaia eurasiatica, il fringuello verde, la cornacchia con cappuccio, la nettarinia della Palestina e l’occhiocotto, si affidano alla biodiversità fornita dagli alberi selvatici della Palestina, di cui sei specie si trovano spesso negli oliveti autoctoni: il pino d’Aleppo, il mandorlo, l’olivello spinoso, il biancospino e il fico.

Come hanno scritto Simon Awad e Omar Attum in un numero del 2017 del Jordan Journal of Natural History:

“[Gli uliveti] in Palestina potrebbero essere considerati paesaggi culturali o essere designati come sistemi agricoli di importanza globale a causa della combinazione del loro valore culturale, economico e di biodiversità”. Tale valore è stato riconosciuto in altre parti del Mediterraneo e alcuni propongono di proteggere queste aree perché sono habitat in cui vivono alcune specie rare e minacciate e per la loro importanza nelmantenimento della biodiversità regionale”.

Un antico ulivo autoctono dovrebbe essere considerato una testimonianza dell’esistenza stessa dei palestinesi e della loro lotta per la libertà. Con il suo folto tronco a spirale, l’ulivo è un ammonimento per Israele, non per i frutti che porta, ma per le storie che le sue radici raccontano di un paesaggio sfregiato e di un popolo martoriato, assediato in modo crudele e implacabile da più di 75 anni.

Fosforo bianco e bombe, bombe e ancora bombe

Mentre contamina le falde acquifere e sradica gli uliveti, Israele sta avvelenando Gaza anche dall’alto. Numerosi video analizzati da Amnesty International e confermati dal Washington Post mostrano razzi e scie di fosforo bianco che piovono su aree urbane densamente popolate. Utilizzato per la prima volta sui campi di battaglia della Prima guerra mondiale per fornire copertura ai movimenti delle truppe, il fosforo bianco è noto per essere tossico e pericoloso per la salute umana. Il suo lancio su zone urbane è oggi considerato illegale dal diritto internazionale, e Gaza è uno dei luoghi più densamente popolati del pianeta. “Ogni volta che il fosforo bianco viene utilizzato in aree civili affollate, comporta un rischio elevato di ustioni atroci e sofferenze che durano tutta la vita”, afferma Lama Fakih, direttrice per il Medio Oriente e il Nord Africa di Human Rights Watch (HRW).

Sebbene il fosforo bianco sia altamente tossico per l’uomo, concentrazioni significative hanno effetti deleterianche su piante e animali. Può alterare la composizione del suolo, rendendolo troppo acido per le coltivazioni. E questa è solo una parte della montagna di munizioni che Israele ha sparato contro Gaza negli ultimi tre mesi. La guerra (se si può chiamare “guerra” un assalto così asimmetrico) è stata la più letale e distruttivadella storia recente, secondo alcune stime almeno quanto i bombardamenti alleati sulla Germania durante la Seconda Guerra Mondiale, che hanno annientato 60 città tedesche e ucciso circa mezzo milione di persone.

Come le forze alleate della Seconda Guerra Mondiale, Israele sta uccidendo indiscriminatamente. Delle 29.000 munizioni terra-aria sparate, il 40% sono state bombe non guidate lanciate su aree residenziali affollate. Le Nazioni Unite stimano che, a fine dicembre, il 70% delle scuole di Gaza, molte delle quali servivano da rifugio per i palestinesi in fuga dall’assalto israeliano, erano state gravemente danneggiate. Anche centinaia di moschee e chiese sono state colpite e il 70% dei 36 ospedali di Gaza è stato colpito e non è più funzionante.

Una guerra che supera ogni previsione

“Gaza è una delle campagne di punizione di massa dei civili più intense della storia”, sostiene Robert Pape, storico dell’Università di Chicago. “Ora si colloca a pieno titolo nel quartile superiore delle campagne di bombardamento più devastanti di sempre”.

È ancora difficile comprendere il tributo che viene inflitto, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, non solo alle infrastrutture e alla vita civile di Gaza, ma anche al suo ambiente. Ogni edificio che esplode lascia una nuvola persistente di polvere tossica e vapori che riscaldano il clima. “Nelle aree colpite da conflitti, la detonazione degli esplosivi può rilasciare quantità significative di gas serra, tra cui anidride carbonica, monossido di carbonio, ossidi di azoto e particolato”, afferma il dottor Erum Zahir, professore di chimica all’Università di Karachi.

La polvere delle torri del World Trade Center crollate l’11 settembre ha devastato i primi soccorritori. Uno studio del 2020 ha rilevato che i soccorritori avevano “il 41% di probabilità in più di sviluppare la leucemia rispetto agli altri individui”. Circa 10.000 newyorkesi hanno sofferto di disturbi di salute a breve termine in seguito all’attacco e c’è voluto un anno perché la qualità dell’aria a Lower Manhattan tornasse ai livelli precedenti all’11 settembre.

Sebbene sia impossibile analizzare tutti gli impatti dei bombardamenti incessanti di Israele, è lecito supporre che il continuo livellamento di Gaza avrà effetti ben peggiori di quelli che l’11 settembre ha avuto sulla città di New York. Nasreen Tamimi, responsabile dell’Autorità palestinese per la qualità dell’ambiente, ritiene che una valutazione ambientale di Gaza in questo momento “supererebbe ogni previsione”.

Il dilemma centrale per i palestinesi di Gaza, anche prima del 7 ottobre, era l’accesso all’acqua potabile e il problema è stato terribilmente aggravato dai bombardamenti ininterrotti di Israele. Un rapporto del 2019 dell’UNICEF aveva già rilevato che “il 96% dell’acqua proveniente dall’unica falda acquifera di Gaza non è adatta al consumo umano”.

L’intermittenza dell’elettricità, conseguenza diretta del blocco imposto da Israele, ha danneggiato anche le strutture igienico-sanitarie di Gaza, provocando un aumento della contaminazione delle falde acquifere, che a sua volta ha portato a varie infezioni e a massicce epidemie di malattie di origine idrica prevenibili. Secondo HRW, Israele sta usando la mancanza di cibo e acqua potabile come arma di guerra, il che, secondo molti osservatori internazionali, è una forma di punizione collettiva, un crimine di guerra di prim’ordine. Le forze israeliane hanno intenzionalmente distrutto terreni agricoli e bombardato strutture idriche e sanitarie in quello che sembra essere uno sforzo per rendere Gaza letteralmente invivibile.

“Devo camminare per tre chilometri per avere un gallone [d’acqua]”, ha detto Marwan, 30 anni, a HRW. Insieme a centinaia di migliaia di altri gazawi, Marwan è fuggito a sud con la moglie incinta e i due figli all’inizio di novembre. “E non c’è cibo. Se riusciamo a trovare del cibo, è cibo in scatola. Non tutti stanno mangiando bene”.

Nel sud di Gaza, vicino alla città sovraffollata di Khan Younis, le acque reflue grezze scorrono per le strade perché i servizi igienico-sanitari hanno cessato di funzionare. Nella città meridionale di Rafah, dove molti gazawi sono fuggiti, le condizioni sono più che disastrose. Gli ospedali di fortuna delle Nazioni Unite sono sovraccarichi, il cibo e l’acqua scarseggiano e la fame è in forte aumento. A fine dicembre, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha documentato più di 100.000 casi di diarrea e 150.000 infezioni respiratorie in una popolazione gazawi di circa 2,3 milioni di persone. E questi numeri sono probabilmente sottostimati e aumenteranno senza dubbio con il protrarsi dell’offensiva israeliana, che ha già sfollato 1,9 milioni di persone, ovvero più dell’85% della popolazione, metà della quale rischia ora di morire di fame, secondo le Nazioni Unite.

“Per oltre due mesi, Israele ha privato la popolazione di Gaza di cibo e acqua, una politica incoraggiata o approvata da alti funzionari israeliani che riflette l’intenzione di affamare i civili come metodo di guerra”, riferisce Omar Shakir di Human Rights Watch.

Raramente, o quasi mai, gli autori di omicidi di massa (che ora sembrano temere il ricorso del Sudafrica presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, con l’accusa di genocidio da parte di Israele) hanno esposto in modo così chiaro le loro crudeli intenzioni. Come ha detto il presidente israeliano Isaac Herzog in un insensibile tentativo di giustificare le atrocità di cui sono vittime i civili palestinesi, “è un’intera nazione ad essere responsabile [del 7 ottobre]. Questa retorica sui civili non consapevoli, non coinvolti, non è assolutamente vera. Avrebbero potuto ribellarsi, avrebbero potuto combattere contro quel regime malvagio”.

La violenza, inflitta ai palestinesi da un Israele sostenuto in modo così eclatante dal Presidente Biden e dal suo team di politica estera, è diversa da qualsiasi cosa a cui avevamo assistito in precedenza, più o meno in tempo reale, sui media e sui social media. Gaza, la sua gente e le terre che l’hanno sostenuta per secoli sono state profanate e trasformate in un paesaggio infernale e invivibile, il cui impatto si farà sentire – è una garanzia – per le generazioni a venire.


Questo articolo è stato ripubblicato con il permesso di TomDispatch.

*Joshua Frank è un pluripremiato giornalista californiano e condirettore di CounterPunch. È autore di un nuovo libro, Atomic Days: The Untold Story of the Most Toxic Place in America (Haymarket Books).