(Foto: Gerusalemme, alcune delle oltre 200 delegate palestinesi del primo Congresso delle Donne Arabe (1929) che organizzano una spettacolare manifestazione a bordo di una serie di automobili per farsi portare in giro per la città a consegnare le loro risoluzioni sulla causa nazionale a vari consolati stranieri, ovvero per chiedere l’indipendenza della Palestina).
di Patrizia Zanelli* –
Pagine Esteri, 13 marzo 2024. Visto in prospettiva sia femminista che nazionalista, l’Ottocento sarà un secolo molto complesso: purtroppo la promettente rinascita culturale palestinese sarà man mano accompagnata dai fattori fondamentali che sfoceranno nella catastrofe del 1948.
La Palestina fu invasa dalle truppe di Napoleone Bonaparte, nel 1799, e dall’Egitto di Muhammad Ali Pascià, nel 1831; entrambe le occupazioni, la francese – la prima dopo le crociate –, durata circa un anno, e l’egiziana che, invece, durò fino al 1839, furono contrastate da rivolte popolari; un’altra, avvenuta nel 1825-1826, era contro gli ottomani. Sanbar spiega che i palestinesi non sopportavano di essere sfruttati da nessuna forza esterna, soprattutto l’implicata eccessiva tassazione dei terreni; e avevano capito sin dall’invasione napoleonica, la quale era stata traumatizzante, che rischiavano di subire una colonizzazione. Muhammad Ali, inoltre, per favorire il proprio espansionismo nell’Impero ottomano, permise agli Stati occidentali di stabilire consolati in Palestina, distinguendola così dal resto della Grande Siria, in arabo Bilād al-Shām (“la regione situata a Nord della Penisola Arabica”). Questa scelta serviva ad attirare l’attenzione delle potenze europee; i francesi, che avevano occupato l’Egitto dal 1798 al 1801, stavano progettando lo scavo di un canale attraverso l’Istmo di Suez, progetto che interessava ancor più agli inglesi per i loro collegamenti commerciali con le Indie orientali. La succitata combinazione di posizione geografica strategica e geografia sacra era sempre stata pericolosa per le sorti della Palestina e della gente del paese, affacciato sul Mediterraneo e sul Mar Rosso. L’occupazione egiziana, che aveva traumatizzato la società palestinese, infatti, fu uno dei primi fattori destinati a portare alla Nakba.
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Masalha, Sanbar e altri storici, come Lorenzo Kamel [12], spiegano che, appunto negli anni 1830, per difendere gli interessi imperiali della Corona britannica, Henry John Temple Palmerson (1784-1865), ultraconservatore del partito Tory e allora segretario di Stato per gli affari esteri del Regno Unito, iniziò a progettare una sostituzione etnica in Palestina, dove “far tornare gli ebrei dopo un millenario esilio”. Questo enunciato millenaristico, riferito agli ashkenaziti, serviva a dare alle ambizioni coloniali della Gran Bretagna nel Vicino Oriente la parvenza di una missione messianica in Terra Santa. Palmerson era, però, stato ispirato da Anthony Ashley-Cooper Shaftesbury (1801-1885), fondatore del sionismo cristiano protestante in Inghilterra e inventore dello slogan: “Un paese senza una nazione per una nazione senza un paese” (che ispirerà un mito fondante sionista ebraico: “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”). Londra agì su più fronti per presentare il nuovo progetto imperialista britannico come la premessa alla realizzazione della profezia del ritorno del Messia, contenuta nel Libro di Daniele. Per attuare il loro piano di sostituzione etnica in Palestina, Palmerson e Shaftesbury ottennero subito l’appoggio delle lobby protestanti inglesi. Nel 1838, l’Inghilterra stabilì il proprio consolato – il primo dell’Occidente – a Gerusalemme.
Contestualmente, spiega Sanbar, Londra iniziò a instillare nell’immaginario collettivo occidentale l’immagine di una Palestina spopolata e, dunque, a negare l’esistenza palestinese. Il paesaggio del paese, notoriamente da sempre agricolo e verdeggiante, fu rappresentato, in opere d’arte europee dai titoli richiamanti narrazioni bibliche, come un deserto, in certi casi, ravvivato da poche figure di nomadi beduini in sosta presso un rudere. Immagini del genere, incluse in opuscoli pubblicitari circolati in Occidente per giustificare la progettata colonizzazione britannica della Palestina, portavano i primi viaggiatori occidentali che la visitavano a rimanere delusi. Scoprivano il paese vero, bellissimo con le città e le campagne abitate dai palestinesi, però rifiutavano mentalmente di vedere la realtà che vedevano. Orientalisti, geografi, biblisti e archeologi europei, russi e nord americani, animati dall’evangelismo, soggiornavano in Palestina per compiere le loro ricerche; per loro, i palestinesi cristiani non erano veri cristiani, perché assomigliavano ai musulmani e agli ebrei, altrettanto autoctoni. Alcuni pubblicarono resoconti di viaggio in cui descrivono, per esempio, il paesaggio pieno di aranceti e uliveti lungo il tragitto dal porto di Acri o di Giaffa fino a Gerusalemme, e ricordano le emozioni che avevano provato scorgendo da lontano le mura della città, ravvivata dai cipressi e dalla Cupola della Roccia d’epoca omayyade; parlano solo delle tracce di un passato glorioso, e come se la gente del paese non esistesse o vivesse ancora ai tempi della Bibbia.
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Nacque e si diffuse così, in Europa, Canada e Stati Uniti, un tipo di etnocentrismo bianco particolarmente aggressivo verso le donne e gli uomini palestinesi, la cui esistenza veniva negata o disumanizzata, perché la loro espulsione dalla Palestina accadesse nella totale indifferenza dell’Occidente, acciecato non tanto dall’islamofobia quanto dall’antiarabismo. In testi scritti in questo periodo da autori inglesi o americani – tra cui The Innocents Abroad (1867) di Mark Twain (1835-1910), un esempio di etnicismo velato da ironia [13] –, per descrivere la Terra Santa, infatti, l’Islam non è neppure menzionato; i palestinesi sì e sono indicati con il loro nome (the Palestinians) ma definiti “arabi” (Arabs) a scopo di diffamazione su base etnica.
Secondo il preconcetto orientalistico, la parola “arabo” rinvia allo stereotipo del beduino rozzo, sanguinario e allo stesso tempo ingenuo, nonché al suo luogo d’origine, la Penisola Arabica, l’ambiente naturale desertico in cui dovrebbe restare o tornare se vive in Occidente. In Palestina, nacque un fenomeno paradossale: la combinazione di etnicismo e xenofobia manifestata da viaggiatori e residenti stranieri occidentali verso la popolazione autoctona palestinese, che trattavano come un gruppo umano straniero nella sua patria, cioè il paese che ospitava loro. Dunque, l’antipalestinismo fu innescato quasi due secoli fa dall’Europa colonialista cristiana, Inghilterra in testa, mentre cercava di conquistare il Vicino Oriente, per ovvi interessi economici, operando una strumentalizzazione politica delle religioni, destinata a portare alla Nakba.
Intanto, sin dalla guerra di Crimea (1853-1856) la combinazione di povertà, sacralità e lotte di potere tra i notabili locali urbani – che, con le Tanẓīmāt, erano più ricchi ma meno autonomi rispetto al passato, poiché da signori feudali erano diventati governatori di distretti amministrativi in qualità di funzionari dello Stato ottomano – aveva reso la Palestina uno spazio-obiettivo per eccellenza, e la società palestinese un bersaglio preso di mira per la sua arabicità. La competizione nata subito tra le scuole missionarie occidentali, ognuna impegnata a migliorare la propria offerta didattica, secondo la ben nota legge della concorrenza, rifletteva di fatto le rivalità esistenti tra le potenze europee, tutte bramose di condurre una “crociata pacifica” in Terra Santa, da redimere dall’Islam e restituire alla cristianità, e pronte a tutelare tramite i loro rispettivi consoli “le minoranze non musulmane autoctone e straniere”.
I francesi e i russi si proclamarono rispettivamente protettori dei cattolici e dei greco-ortodossi. Gli inglesi, invece, non avendo una comunità protestante da proteggere, avevano anticipato i loro rivali – troppi da sconfiggere –, stabilendo appunto, nel 1838, il proprio consolato a Gerusalemme e, nel 1841, insieme alla Prussia la sede dell’episcopato anglo-prussiano, quale rappresentanza del protestantesimo. Il console britannico – nominato da Palmerson – pose sotto la propria protezione gli immigrati ebrei, giunti in Palestina dall’Europa orientale, per sfuggire ai pogrom zaristi a partire dal 1830. Influenzato dal sionismo cristiano, sottopose questi rifugiati ashkenaziti a una “restaurazione”, obbligandoli a convertirsi al cristianesimo. Questa scelta di Londra fu l’inaugurazione di una lunga stagione che porterà alla Dichiarazione Balfour. Gli inglesi non proteggevano infatti gli ebrei sefarditi autoctoni, cioè palestinesi; li ignoravano tutti gli occidentali.
In effetti, spiega Sanbar, dal 1830 in poi l’Europa orientale, area dei pogrom zaristi, aveva riversato – e continuerà a riversare – sue porzioni di rifugiati ashkenaziti in Palestina (obiettivo indiretto della guerra di Crimea). Quell’abominio antiebraico, scatenatosi in concomitanza con la crisi dell’Impero ottomano, era stato visto dai millenaristi come un segno dei tempi, che preannunciava il ritorno del Messia, credenza sfruttata appunto da Londra per il proprio progetto imperialista nel Vicino Oriente. Influenzato da Shaftesbury, Palmerson aveva perciò stabilito il consolato britannico a Gerusalemme, nel 1838, data che si può considerare come l’inizio ufficiale del lungo processo che porterà alla Nakba. In estrema sintesi: un intreccio davvero molto articolato di interessi politico-economici locali, regionali e internazionali, di “sogni cristiani occidentali” e di vari ultranazionalismi, sfocerà a distanza di oltre un secolo nella catastrofe abbattutasi sul popolo palestinese nel 1948.
Tornando alla seconda metà dell’Ottocento, Francia, Inghilterra e Russia, rivali e al contempo alleate, cercavano di colpire indirettamente l’Impero Ottomano, sperando di sfruttare le contraddizioni interne della Palestina, cause di malcontento tra la popolazione. Ma scoprivano puntualmente di avere nutrito vane speranze, perché non conoscevano la società palestinese che, oltre a essere sempre stata unita sul piano interconfessionale, si stava modernizzando e voleva liberarsi dalla dipendenza da forze esterne.
Modernizzazione dovuta anche al fatto che, nell’Ottocento, la Palestina non era tanto meta di pellegrinaggi quanto di altri tipi di viaggi; in molti casi si trattava di un turismo culturale legato all’orientalismo, tipico del Romanticismo. Turisti visitavano il paese, per ammirarne le bellezze, letterati, pittori, scultori e fotografi, per immortalarle. Ma alcuni di questi ultimi, nota Fleischmann, erano produttori della fotografia pornografica richiesta in Occidente; per scoprire l’Oriente misterioso, puntavano spesso lo sguardo lascivo e l’obiettivo della macchina fotografica sul seno di una contadina intenta ad allattare il proprio bambino, una scena normale nelle aree rurali, che di solito nessuno osava scrutare; l’immagine della maternità era avvolta da un alone di sacralità, e una madre considerata sacra. Era un fenomeno culturale diffuso nel mondo arabo e non solo, un segno di rispetto per la vita materna e dell’infanzia. Gli uomini e le donne occidentali, invece, il personale dei consolati e perfino delle missioni cristiane disumanizzavano le palestinesi, con cui non sapevano neppure comunicare; le giudicavano soltanto per com’erano vestite, esprimendo su loro giudizi intrisi di preconcetti orientalistici, di etnocentrismo bianco.
D’altro canto, il turismo di certo favoriva sia la Nahḍa che la crescita economica della Palestina. Nella società urbana palestinese stava infatti emergendo una nuova borghesia, formata da professionisti – perlopiù avvocati, docenti e medici – e da titolari di imprese artigianali, talune specializzate nella produzione di souvenir dei luoghi sacri del cristianismo e di altri prodotti turistici. Altri sviluppi economici stavano avvenendo anche in campo agricolo. Grazie alla presenza del porto moderno e all’aumento della tradizionale produzione agrumaria – specialmente delle arance Shamouti dalla buccia resistente e quindi facili da trasportare –, Giaffa era ormai uno dei principali centri commerciali del Mediterraneo e uno scalo importante per navi passeggeri provenienti dall’Europa e dagli Stati Uniti; era la città più progressista del paese e sarà sede di una delle associazioni più rappresentative della Nahḍa femminile palestinese.
La pianura costiera, fertile e bagnata dalle piogge, da sempre la parte economicamente più sviluppata della Palestina, attirava commercianti occidentali, favoriti dal sistema delle Capitolazioni ancora in vigore nell’Impero ottomano. Dunque, il Sultano continuava a concedere privilegi economici, giuridici e fiscali agli stranieri, e a suscitare il malcontento tra i propri sudditi, specialmente nei paesi arabi, dove i crescenti sentimenti anti-imperialisti stavano generando nazionalismi territoriali locali e si stava già teorizzando il panarabismo, teorizzato in primis da cristiani dell’area siro-libanese, culla della Nahḍa, ma reduce di una guerra civile interconfessionale, esplosa nel Monte Libano nel 1860. Appartenendo a una minoranza religiosa, erano ovviamente i più interessati a creare un’ideologia secolare in grado di unire gli arabi; assunsero l’arabofonia quale elemento principale dell’arabicità (‘urūba), reinterpretandola in senso moderno, per definire l’identità della “nazione araba”.
Le Tanẓīmāt, inoltre, erano state concepite per rafforzare e centralizzare il potere dello Stato ottomano tramite la modernizzazione istituzionale, con la conseguente necessità di nuove risorse finanziarie. Due leggi servivano in pratica a snellire il sistema di riscossione fiscale e aumentare la tassazione già pesante sulle proprietà fondiarie, la quale strangolava le economie locali dei territori situati al di fuori della Turchia (e avrà gravi conseguenze in Palestina). Inutili furono, perciò, le riforme di stampo liberale europeo, inclusa una costituzione promulgata nel 1876 e presto abrogata, adottate dal Sultano per ottenere il consenso popolare in tutto l’Impero e frenare gli indipendentismi che lo stavano sfaldando.
D’altro lato, in termini di modelli di modernità e libertà, la presenza occidentale in Palestina stava di certo cambiando la vita tradizionale delle palestinesi, riguardo alla quale Fleischmann riferisce che, in un’intervista pubblicata negli anni ‘60, l’avvocato e attivista gerosolimitano Musa al-Alami (1897-1984), uno dei teorici della palestinesità, ricorda che sua madre “si ammazzava di lavoro”, soprattutto nei giorni in cui doveva preparare lauti pasti per grandi comitive di ospiti, secondo la ben nota cultura dell’ospitalità araba. Vivendo quasi sempre secluse in casa, le donne sposate dell’alta borghesia e del ceto medio lavoravano dalla mattina alla sera e gestivano l’intero ménage domestico. Se una moglie era più ricca di suo marito, riceveva comunque da lui la dote matrimoniale che andava ad aggiungersi al suo patrimonio personale. L’unico caso di parità di genere previsto dal sistema giuridico islamico riguarda infatti il diritto alla proprietà privata, riconosciuto appunto alle persone di ambedue i sessi sin dalla nascita; in materia di eredità, invece, alle eredi femmine spetta molto meno che ai maschi.
In Palestina, i matrimoni venivano combinati dagli uomini delle famiglie degli sposi, spesso in base a reciproci interessi economici e/o di potere politico. Le madri, invece, sceglievano la sposa e lo sposo, di solito sia l’una che l’altro erano molto giovani. Un marito musulmano poteva facilmente ripudiare la moglie che, una volta divorziata, poi viveva con un parente, perlopiù il padre o un fratello. A differenza di altri paesi arabi, tra cui l’Egitto, la poligamia era poco praticata nelle città e nelle campagne della Palestina, una pratica preislamica che, per i riformatori musulmani egiziani, come il già citato Ahmad Amin, non è prevista dall’Islam.
Nelle famiglie contadine palestinesi, che erano molto unite, esisteva una notevole parità di genere, per ragioni economiche e lavorative: gli uomini si occupavano dell’aratura, della trebbiatura e della vagliatura; le donne si dedicavano alle faccende di casa, alla lavorazione del cibo, al lavoro nei campi e all’allevamento degli animali, ed erano assai stimate per il loro contributo alla gestione della fattoria. Vista questa situazione, di solito una moglie viveva in simbiosi con il marito.
Sono quasi assenti le informazioni sulle lavoratrici del proletariato rurale e urbano di questa fase storica, ma di certo uscivano di casa; le donne della Nahḍa femminile palestinese, come già detto, appartenevano all’alta borghesia e al ceto medio, perché sono loro che soffrivano di più per le discriminazioni di genere.
[12] Lorenzo Kamel, Terra contesa. Israele, Palestina e il peso della storia, Carocci, 2022.
[13] Prima edizione italiana: Mark Twain, Gli innocenti all’estero, tr. Piero Mirizzi, Lerici, 1960. L’autore, all’anagrafe Samuel Langhorne Clemens, visitò anche l’Italia e altri paesi europei durante lo stesso viaggio; l’ultima tappa fu la Palestina.
*Patrizia Zanelli insegna Lingua e Letteratura Araba all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È socia dell’EURAMAL (European Association for Modern Arabic Literature). Ha scritto L’arabo colloquiale egiziano (Cafoscarina, 2016); ed è coautrice con Paolo Branca e Barbara De Poli di Il sorriso della mezzaluna: satira, ironia e umorismo nella cultura araba(Carocci, 2011). Ha tradotto diverse opere letterarie, tra cui i romanzi Memorie di una gallina (Ipocan, 2021) dello scrittore palestinese Isḥāq Mūsà al-Ḥusaynī, e Atyàf: Fantasmi dell’Egitto e della Palestina (Ilisso, 2008) della scrittrice egiziana Radwa Ashur, e la raccolta poetica Tūnis al-ān wa hunā – Diario della Rivoluzione (Lushir, 2011) del poeta tunisino Mohammed Sgaier Awlad Ahmad. Ha curato con Sobhi Boustani, Rasheed El-Enany e Monica Ruocco il volume Fiction and History: the Rebirth of the Historical Novel in Arabic. Proceedings of the 13th EURAMAL Conference, 28 May-1 June 2018, Naples/Italy (Ipocan, 2022).